ReggaeFamily
La
solitudine non esiste
“Marta,
sparecchi tu la tavola?”
Sospirai
pesantemente e mi passai una mano sulla fronte, cercando di scacciare
quelle ciocche ribelli sfuggite alla disordinata coda in cui avevo
raccolto i capelli.
Sapevo
che ribattere non avrebbe avuto senso. Potrebbe farlo anche tuo
marito, avrei voluto dire, ma tanto ciò che dicevo non
aveva alcun valore.
Mio
padre infatti, dopo l'ennesima serata passata a ubriacarsi in uno
squallido bar, russava sonoramente stravaccato sul divano; davanti a
lui il televisore trasmetteva una partita di calcio che nessuno di
noi stava seguendo.
“Va
bene!” gridai, alzandomi e cominciando a raccattare i piatti
sporchi.
Mia
madre si affacciò dalla porta e corrugò la fronte. Non
aveva ancora compiuto quarantacinque anni, ma quando la si guardava
si aveva l'impressione di essere davanti a una vecchia stanca: i
capelli, perennemente raccolti in una crocchia, si stavano ingrigendo
sempre più, il viso scarno era solcato da profonde rughe,
causa di tensione e stress, gli occhi erano spenti e presentavano due
occhiaie spaventose. Mi faceva pena e, nonostante le volessi molto
bene, continuavo a pensare che tutto ciò l'aveva scelto solo e
unicamente lei.
Io
gliel'avevo detto chissà quante volte, avevo cercato di farla
ragionare, ma lei sembrava non prendere in considerazione ciò
che le dicevo.
Lavai
i piatti e quando, alle undici e mezza, mi sdraiai finalmente sul mio
letto, la stanchezza mi piombò addosso improvvisamente.
Le
mie giornate erano tutte uguali: la mattina sveglia alle sette, mi
preparavo e prendevo il bus, dopodiché avevo davanti cinque
ore in cui dovevo fingere che tutto andasse bene e trovare qualche
passatempo mentre i professori parlavano di argomenti che non mi
interessavano. Quando tornavo a casa, durante il pranzo, si
presentavano due alternative: se mio padre era di buonumore, si
sarebbe limitato alle urla e alle lamentele, altrimenti avrebbe messo
le mani addosso a me e mia madre, gonfiandoci di botte.
Mia
madre lavorava, quindi di pomeriggio non potevo certo dedicarmi allo
studio o a ciò che mi pareva, no di certo: c'erano le pulizie
da fare, le faccende domestiche da svolgere, tutto ciò
completamente da sola.
Mio
padre, convinto che donna
sia sinonimo di schiava, dalle quattro in poi era impegnato
a sbronzarsi al bar. In tutti i miei diciassette anni di vita non
l'avevo mai visto apparecchiare la tavola.
Quando
mia madre tornava dal lavoro, se ero fortunata mi lasciava uscire
un'ora prima di cena, in alternativa mi urlava contro e sfogava su di
me tutta la rabbia che provava per suo marito. Io non sapevo tenere
la bocca chiusa, per questo spesso ci ritrovavamo a discutere: quante
volte le ho gridato di insultare la causa della sua rabbia invece di
sbraitare contro di me!
Tu
non capisci niente delle relazioni tra un uomo e una donna, hai
diciassette anni, devi stare a guardare, mi diceva. Beh, se
l'amore doveva essere così, allora preferivo rimanere sola per
il resto dei miei giorni.
A
cena si ripeteva la stessa scena del pranzo, solo con un tasso
alcolico molto più alto.
Ormai,
dopo aver provato in tutti i modi a ribellarmi, mi sentivo apatica,
non m'importava più niente. Mia madre aveva scelto questa vita
e, se lei stava bene così, non ci potevo fare niente. Io
l'aiutavo perché lavorava e sarebbe stato troppo pesante per
lei dover pensare anche alla casa, ma al mio diciottesimo compleanno
sarei partita. Conservavo i miei risparmi da anni ormai, cercando
anche qualche lavoretto occasionale, e nulla mi avrebbe impedito di
cercare fortuna altrove.
Con
questa speranza nel cuore mi addormentai, con una mano poggiata su un
livido al di sotto del seno. Uno dei tanti.
“Manu,
io tra qualche mese parto, non m'importa dove andrò”
affermai, prendendo una boccata di fumo.
Manuel
diede un calcio a un sasso e si accese l'ennesima sigaretta.
Io
non fumavo regolarmente, ma quando uscivo con lui me ne offriva
sempre una e l'accettavo.
“Non
ti sei diplomata, sei ancora in seconda superiore” constatò,
lanciandomi un'occhiata.
“Se
starò qui non mi diplomerò mai. Devo andarmene,
ricominciare.”
Era
una fresca serata di fine ottobre, su di noi si poteva scorgere solo
il grigio minaccioso delle nubi che ricoprivano tutto quanto il
cielo. Ero riuscita a ottenere il permesso, anzi, ero semplicemente
uscita di casa mentre mia madre gridava isterica e mi minacciava.
Quella sera ce l'avevo con il mondo intero.
Quando
tutto andava storto, mi rifugiavo sempre dietro il palazzo
abbandonato vicino alla piazzetta. Era un vecchio e grigio capannone
davanti al quale la mia comitiva si riuniva tutti i giorni, in un
desolato piazzale di cemento nella periferia della nostra cittadina.
La
mia comitiva era formata da una dozzina di membri: alcuni di loro
erano persone vuote e frivole, altri invece, come me, avevano tanto
da raccontare e tanti problemi alle spalle, ma non ne parlavano mai.
In quel luogo ci si recava per dimenticare.
Manuel
era l'unico che sapeva cosa accadeva a casa mia, gliene avevo parlato
un giorno, restando comunque sul vago; non ero adatta a confidenze
strappalacrime e idiozie varie.
Quel
giorno, non appena mi aveva visto recarmi sul retro, mi aveva
seguito.
“Io
spero solo che tu non faccia qualche cazzata. Non sai a cosa potresti
andare incontro, hai pochi soldi e non hai né un lavoro né
un posto in cui stare” mi ammonì Manuel dopo circa un
minuto di silenzio.
“Non
ti ci mettere anche tu!” sbottai, per poi spegnere la sigaretta
e gettare il mozzicone a terra.
Passò
qualche altro minuto in cui nessuno aprì bocca. Era così
tra me e lui: parlavamo poco, ma ci dicevamo molto.
“Tu
non hai mai paura di rimanere sola?” domandò lui
all'improvviso.
Ci
pensai su prima di rispondere. “Ho paura di rimanere sola prima
di vedere lui e con lui” ammisi. Queste
confidenze non erano da me, ma in quel momento mi sentivo
tremendamente vulnerabile e debole.
“Io
ho paura di stare solo quando mi accorgo di esserlo. Quando sono solo
penso, penso troppo” mormorò Manuel, mentre fissava un
punto imprecisato davanti a sé.
“Devo
tornare a casa” affermai in tutta risposta, rendendomi conto
solo allora del tempo che era trascorso.
Rivolsi
al ragazzo un cenno di saluto e mi avviai verso la strada, ma dopo
qualche metro qualcuno mi prese sottobraccio. Sussultai per la
sorpresa e mi fermai. Sapevo che era Manuel.
“Manu,
che vuoi? Devo tornare a casa.”
“Non
devi restare sola prima di vedere lui” ribatté,
per poi riprendere a camminare.
Io
e lui non avevamo mai avuto contatti così forti, voluti; ci
eravamo sfiorati appena qualche volta, casualmente, ma io in genere
evitavo di avvicinarmi troppo agli altri e qualsiasi gesto che
implicasse un contatto fisico.
Camminammo
in silenzio per qualche minuto lungo la strada deserta, mentre il
cielo diventava sempre più scuro e il sole, nascosto dalle
nubi, si congedava dopo aver compiuto il suo lavoro.
La
passeggiata con Manuel mi fece bene: arrivai di fronte a casa mia
completamente rilassata e in pace, mentre l'aria fredda lottava
contro il mio corpo accaldato.
Era
un peccato dover rientrare a casa e perdere quella sensazione.
“Grazie”
dissi, spezzando quel magico silenzio che si era impossessato di noi.
Sospirai.
“Ora ho meno paura.”
“Ricorda
che la solitudine non esiste. Scacciala dalla tua testa, e cercami.
Quando sarai sola, cercami; ci sono sempre.”
Manuel
mi strinse frettolosamente la mano senza guardarmi negli occhi, con
le guance leggermente imporporate.
Rimasi
là per qualche secondo, immobile, ad assimilare quelle parole.
Manuel era come me, non amava esternare i propri sentimenti, quindi
pronunciare quel breve discorso doveva essergli costato molta fatica;
ma capivo, dalla passione che ci aveva messo, che era sincero.
Decisi
di rientrare in casa.
Non
appena aprii la porta dell'ingresso, venni investita da un borbottio
proveniente dalla cucina. Mia madre stava finendo di preparare la
cena e capii subito che era arrabbiata con me per come poggiava
malamente gli oggetti e chiudeva con forza i cassetti.
Entrai
nella stanza in cui si trovava e, prima che potessi fare qualsiasi
cosa, mio padre si piazzò di fronte a me. Sembrava essere su
tutte le furie, puzzava terribilmente d'alcol e negli occhi aveva
un'espressione irata, quella che precedeva una serata all'insegna
delle botte e i lividi.
Ero
terrorizzata, ma non lo diedi a vedere.
“Marta,
mi fai veramente schifo! Chi era quell'uomo, chi era? Ti ho visto
adesso! Non farmi incazzare, dimmelo!” gridò,
spingendomi malamente. Andai a sbattere contro il tavolo, ma mi morsi
le labbra e non emisi nemmeno un lamento.
“Che
te ne frega?” sibilai, pronta a sfidarlo.
“Io
ho tutto il diritto di saperlo, sono tuo padre e qui comando io! Ti
prendeva a braccetto! Cosa stavate facendo, eh? Dov'eravate?”
sputò a pochi centimetri dal mio viso.
“Io
esco con chi mi pare e faccio quello che voglio senza dover rendere
conto a te. Il tuo parere conta molto poco.”
Quest'ultima
affermazione fu la goccia che fece traboccare il vaso: strillando
come un ossesso, mi afferrò per i capelli e mi portò
fuori dalla cucina, nel piccolo corridoio in cui si affacciavano le
camere da letto e il bagno.
“Io
ho capito cosa stavi facendo! Me lo devi dire, ma tanto io lo so: vai
a fare la troia in giro con i tipi! Fai la puttana e chissà
con quanti
avrai
già scopato!” mi accusò, lanciandomi un pugno
alla cieca.
Avevo
le lacrime agli occhi, ma non mi arresi.
“Io
non vado a fare la troia con nessuno, ma di certo non mi devo
giustificare con uno stronzo come te!” gridai, schiacciandomi
contro il muro.
“Nessun
altro ti potrà avere, perché sei mia e sono io che
decido per te” ringhiò.
“Io
non sono proprietà di nessuno!”
Mi
afferrò nuovamente per i capelli e mi scaraventò contro
la porta del bagno.
Ero
a terra, indifesa, e lui mi prendeva a calci, a pugni, mi insultava e
mi annientava. Il suo tocco mi disgustava, lo odiavo.
“Bene,
vediamo allora se è vero che fai la puttana. In caso
contrario, sarai per sempre mia, la mia donna, sotto il mio
controllo!” biascicò, barcollando pericolosamente.
Mi
strappò di dosso i pantaloni.
Quel
che è accaduto dopo non lo voglio ricordare.
Mia
madre gridava, piangeva, si disperava, coprendosi il viso con le mani
ancora imbrattate di cibo.
Dalla
cucina arrivava una terribile puzza di bruciato.
Il
pavimento era freddo.
Volevo
morire.
Lancio
un'occhiata alla mia immagine riflessa nello specchio e mi viene la
nausea.
La
camera è fastidiosamente bianca, spoglia.
Non
ricordo chi sono, cosa ho fatto. Vegeto, voglio morire.
La
clinica psichiatrica non mi piace, non serve a niente, perché
certe ferite sono troppo profonde per essere curate.
Questo
è peggio di un tumore, perché non smetterò di
vivere, ma esso non smetterà di mangiarmi.
Dicono
che mia madre si sia suicidata, che mio padre sia scappato e sia
tornato in libertà.
Non
voglio più ascoltarli, quello che dicono non mi interessa,
perché la cosa più importante ormai mi è chiara:
ha visto lui.
E
io ho perso.
♠ ♠ ♠
Ciao
a tutti e grazie per essere arrivati fin qui!
Questa
storia è stata un'illuminazione improvvisa, appena ho letto il
bando del concorso a cui partecipa mi è venuta in mente.
Parla
di un argomento molto delicato e questo mi preoccupa: non so se sono
riuscita a trattarlo nella maniera giusta, con la sensibilità
che ci voleva, e anche per questo ho bisogno del vostro parere! ;)
Breve
spiegazione sul titolo: sembra messo lì a caso, è una
frase di Manuel, ma sembra non avere nessuna attinenza con la storia.
Invece
ha un significato sottinteso: la solitudine non esiste in
questo caso perché la protagonista si ritroverà a
convivere per sempre con i suoi demoni e quindi non sarà più
sola, almeno nella sua mente.
Ringrazio
nuovamente chiunque si sia fermato a leggere e chi deciderà di
recensire! :3
Soul
♥
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