Avvertenze: durante
la lettura si consiglia l’ascolto della canzone
“Four Walls (The Ballad Of Perry Smith)” dei
Bastille, da cui la fic è ispirata.
{
character’s death }
{
F o u r W a l l s }
These four walls to keep you
One floor to sleep
upon and only
These four walls to
keep you
These four walls
contain you
Supposed to save you
from yourself and
These four walls in
Holcomb
To keep you from the
sun
La sirena che avvisa
che la porta d’ingresso del lungo corridoio è
stata aperta emette un ennesimo e monotono segnale, mentre passi svelti
si susseguono poco dopo.
Ricordi ancora quando
quell’apparecchio ha suonato per la prima volta al tuo
passaggio, mentre venivi condotto fino alla tua cella di detenzione, in
un’area piuttosto isolata del penitenziario, i pochi averi
che ti era stato concesso di portare con te tenuti stretti tra le
braccia.
E
ora invece sei lì.
In quella che alcuni
fanno l’errore di chiamare stanza ma che di
essa non ha nient’altro che quelle quattro, maledettissime
pareti di cemento che non è stato nemmeno rasato,
né intonacato o tinteggiato, spoglie, senza alcun tipo di
mobilia presente.
Una piccola asse di
ferro sospesa, tenuta ferma da dei montanti attaccati al muro potrebbe
essere considerato l’unico arredo, se non fosse che dovrebbe
trattarsi di una branda su cui riposare – che è
talmente gelida e scomoda che, alla fine, dormire a terra, in compagnia
di pidocchi e uno spesso strato di polvere non sembra essere
un’alternativa poi così desolante.
L’unica
finestra è un minuscolo rettangolo, percorso a intervalli
regolari da barre di metallo, che limitano ancor di più la
visuale sull’esterno. Le stesse barre di ferro che
costituiscono l’entrata alla cella, sempre così
tristemente, desolatamente chiusa – salvo rare eccezioni
– dal giorno in cui sei giunto lì.
C’è
anche una lampadina che pende dal soffitto, i cavi bene in vista
– tutto, fuorché a norma. Solo che non si accende
mai, nemmeno di notte, quando fuori è buio e non vedi ad un
palmo dal tuo naso. Niente acqua corrente, niente
elettricità. Niente, niente, niente.
Kageyama Reiji poggia
i palmi delle proprie mani sulla parete alle sue spalle, lasciandosi
scivolare lungo di essa, perlomeno finché non si ritrova
seduto a terra.
Il cemento gli raschia
le mani e la schiena, piccoli graffi che prendono subito a sanguinare:
non ci fa più nemmeno caso, ormai la forza
dell’abitudine ha soppiantato ogni emozione, ogni sensazione,
tanto che ormai non sa più se ha ancora una soglia di
sopportazione, oppure anche quella l’ha abbandonato,
lì dove si è perso e la sua mente con lui.
Pensieri irrazionali,
shoccati, sconnessi – frammenti di una memoria spezzata
– si susseguono senza un ordine preciso. Che giorno è? Come
staranno le persone che ama, fuori da lì? Saranno le cinque
o le sei di pomeriggio? Se vuoi piegare un uomo, lascia
che la sua mente si spezzi.
Ha poi così
importanza, dopotutto? A volte gli sembra di non sapere più
niente, d’aver perso la capacità di discernere il
giusto dallo sbagliato. È così certo che quello
sia il suo nome.
Lo stato predica che
quello sia il posto della redenzione, dove ogni reo sconta le proprie
colpe, comprendendone le motivazioni, che li porteranno a non
ricommettere mai più gli stessi errori. La verità
è che non c’è redenzione, per chi ha
commesso atti empi come i suoi.
Essere costretti a
passare buona parte della propria vita – o, in certi casi,
addirittura l’intera esistenza – in carcere ti
dà un sacco di tempo per poter riflettere sulla tua
esistenza, sugli sbagli che hai commesso. Il che, teoricamente,
dovrebbe tutelarti, addirittura salvarti, cosicché tu non
possa sbagliare ancora, in futuro, quando sarai finalmente libero da
lì – se
mai un giorno lo sarai.
Tuttavia quello che
succede è esattamente l’opposto di ciò
che i carcerieri vorrebbero: rinchiudendo qualcuno tra quelle quattro
mura, non fai altro che condurlo sulla strada della follia,
più rimugina sui propri illeciti e più gli sembra
di sprofondare in quel mare di catrame nero che altro non è,
se non la sua stessa pazzia.
Non
c’è via d’uscita da qui – non
l’ho mai cercata, voglio pagare per quello che ho fatto. Il
problema è che non c’è via
d’uscita neppure dalla mia mente. E quello sì che
è il più pericoloso dei labirinti.
Kageyama punta lo
sguardo sulla microscopica fessura che i miscredenti osano chiamare
“finestra”, cercando di osservare il mondo
all’esterno di lì. Quello che vede, tuttavia, non
è che una scheggia di cielo, grigio e nuvoloso, intrappolato
come un amo nelle sottilissime maglie di quella trama che compone
l’aere.
Ciò che
vede gli sembra riflettere esattamente quel che sente d’avere
dentro di sé: nubi all’orizzonte, tempo di
burrasche minacciose. È
tutto in divenire, diceva Eraclito, peccato che nessuno di
noi sappia quale sia la destinazione
finale.
And now we’re faced
with two wrongs
Now we’re
faced with two wrongs
I don’t
know, oh, I don’t know
Now we’re
faced with two wrongs
Now we’re
faced with two wrongs
I don’t
know, oh, I don’t know
Le giornate
trascorrono, rapide e crudeli, senza nemmeno dare il tempo necessario
per comprendere dove ci si trovi – che giorno sia, in che
settimana, in che mese ci si trovi.
Ti svegli e non sai
nemmeno più che giorno sia, né tantomeno se
è giorno, sera o notte.
Il punto è
che non conta.
Quando vivi per
inerzia e tutto sembra perdere senso, arrivi a chiederti per quale
ragione tu stia continuando ad andare avanti.
Semplicemente lo fai
perché ormai, da fin troppo tempo, sei entrato in quella
spirale senza vie d’uscita, quel circolo vizioso dal quale
è impossibile sfuggire.
C’è
la sveglia di prima mattina, le guardie che vengono a prendere i
detenuti e li scortano fino in mensa per la prima colazione, per poi
accompagnare i più fortunati in vari dislocamenti, a seconda
del lavoro socialmente utile che è stato loro affidato,
mentre riconducono chi invece non ha avuto lo stesso privilegio di
nuovo in cella d’isolamento. Stessa procedura per il pranzo,
mentre a metà pomeriggio viene concessa a
pressoché tutti – fatta esclusione per i detenuti
che risiedono nella zona di massima sicurezza del carcere –
l’ora d’aria obbligatoria. Dopodiché, di
nuovo tutti in cella o al lavoro. Per la cena vige lo stesso
procedimento degli altri due pasti della giornata, pertanto quando
anche questo è giunto alla sua conclusione, tutti i
carcerati vengono ricondotti nelle loro celle, come bestie nelle
stalle, per poter finalmente andare a dormire, considerando che il
coprifuoco è stato stabilito in un orario della sera
piuttosto presto.
È una vita
talmente monotona e noiosa che già questa potrebbe essere
considerata la più grande tortura di quel luogo.
Che poi, chi
è che si addormenta alle dieci di sera? Per quanto possano
essere faticosi i lavori forzati, non saranno mai equiparabili a
qualsiasi attività si svolge all’esterno del
penitenziario – d’altronde, non possono sottoporre
i detenuti a qualcosa di eccessivamente duro, poiché se
morissero rischierebbero di incorrere in un processo per aver condotto
alla morte svariate persone.
Persone,
poi… come se chi viva in carcere possa ancora essere
considerata una ‘persona’.
Ti tolgono ogni
diritto, arrivando a sottrarti perfino la tua identità
– un po’ come succedeva alle persone che venivano
rinchiuse nei campi di concentramento o di sterminio durante la seconda
guerra mondiale, d’altronde.
In fondo, finisce per
non esserci più nessuna differenza tra te e un animale.
Quando non dormi
– ti tolgono l’identità, il sonno e
lentamente quel lento logorio della mente lo priverà anche
della ragione, ne è assolutamente certo – hai
un’infinità di tempo e i pensieri malvagiamente,
intenzionalmente giungono sempre alla stessa meta: il luogo in cui ora
ti trovi.
Tra le tante cose che
gli è capitato di valutare, Kageyama ben presto si
è tristemente reso conto, con gli ultimi sprazzi di
lucidità che ogni tanto lo graziano con la loro improvvisa
comparsa, che non è lui, non sono tutti loro detenuti di
quella struttura, gli unici ad aver commesso degli errori.
Per quanti sbagli
possa infatti aver commesso un essere umano durante la sua esistenza,
mai saranno sufficienti per poter legittimare la scelta di rinchiuderli
in quelle celle microscopiche, trattati ed ammassati come belve, senza
alcun genere di diritto legale e civile. Chiunque merita di preservare
la propria identità, nonostante tutto il male che possa aver
fatto in passato.
Questo porta Kageyama
a chiedersi se i detenuti siano gli unici colpevoli e non ci sia invece
una parte di responsabilità che ricada anche su chi li ha
mandati lì, a vivere – o forse morire –
come bestie da macello.
Così Reiji
riflette, sono queste le argomentazioni che lo hanno condannato alla
veglia, fin dalla prima notte in cui è giunto lì
– più o meno come tutti i suoi compagni di
reclusione.
E non sa davvero
più quale sia la
verità.
We could be born to anything and now, and now
What
you have done is terrible
And
now you, and now you
Now
you carry it with you
You
carry it with you
You
carry it with you
Però, in un
certo qual senso, Kageyama è quasi lieto di trovarsi in quel
luogo.
Sa infatti di essere
giunto al capolinea della sua vita. Troppi gli sbagli compiuti, troppo
tardi è invece giunta la redenzione per potergli garantire
di sottrarsi a quella nuova svolta del suo crudele destino.
Marchiato a vita, un
criminale senza via di scampo, la lettera scarlatta d’infamia
impressa per sempre su di sé, ferri caldi che hanno baciato
la sua carne.
Eppure, nonostante
tutto, Reiji continua a sentirsi sollevato in quella situazione.
Immagina infatti che,
se si fosse trovato ancora a piede libero, sarebbe stato ben
più in pericolo: in molti avrebbero voluto il suo cadavere,
disposti a pagare qualsiasi prezzo purché il killer da loro
assoldato fosse stato il primo a farlo fuori –
perché mai una volta che siano loro in prima persona a
sporcarsi le mani.
Dopotutto, che ci
guadagnerebbero?
Con le prove guise
sarebbero proprio loro i primi a finire in carcere senza passare dal
via e questo non gioverebbe di certo alle loro persone.
Così
ingaggiano professionisti della morte, in modo che nessuno possa mai
risalire a loro, mentre la coscienza di questi ultimi si macchia di
sangue ancora una volta.
Kageyama fa richiamo
alle sue buone conoscenze – anni ed anni di studi hanno dato
pur sempre i loro frutti – e riporta alla mente un passo del
Macbeth di Shakespeare, in cui il protagonista dice di continuare a
sentire le proprie mani sporche di sangue dopo aver ucciso il re
Duncan, nonostante nel frattempo sia passato del tempo e i suoi palmi
siano tornati ad essere puliti.
Quando ci si macchia
di una colpa è impossibile ripulirsene, al di là
dell’impietoso scorrere dei giorni, mesi, secoli o di quante
buone azioni si compiano per mondarsi la coscienza – anche se
lo stesso Macbeth finisce poi per cadere in un circolo di turpitudini
sempre più ampio.
Perciò
accetta il peso che sa di dover adesso portar con sé: se
fosse sfuggito ancora una volta al suo destino e non avesse fatto i
conti con le sue colpe e con la giustizia, probabilmente avrebbe finito
per andare incontro a conseguenze ancor più catastrofiche.
Gli uomini saggi si
prendono le responsabilità dei propri sbagli, quando ne
commettono, per poi pagarne il prezzo, com’è
giusto che sia.
E così
Kageyama ha deciso di fare: addossarsi il peso degli errori e portarlo
con sé, almeno fino a che dovrà farlo –
anche per tutta la vita, se sarà necessario.
I suoi avvocati stanno
avviando delle trattative per ridurre il tempo della condanna, favoriti
anche dalla buona condotta.
Reiji non sa ancora se
lo sconto di pena gli verrà concesso o meno, nel frattempo
non gli rimane nient’altro che stare lì ad
aspettare, mantenendosi in vita con quel poco che gli viene dato.
E sperare.
These four
walls will keep you
Until
you face the rope
You’ve
only these four walls before they, in cold blood, hang you up
È successa
una cosa strana, Kageyama non fa che pensarci da quelli che ormai sono
diventati giorni interi.
Il pensiero di quanto
è accaduto non fa che perseguitarlo, giorno e notte, in ogni
momento della sua giornata, sottraendogli sempre di più
preziose ore di sonno e di vita.
Era in sala mensa,
all’ora di pranzo, quando d’improvviso ha sentito
qualcosa urtare la sua scarpa.
Quando ha abbassato lo
sguardo, ha notato la presenza di una corda, ai piedi della propria
sedia.
Non ha la
più pallida idea di come quella cosa sia arrivata
lì.
Ha tirato subito il
capo nuovamente su, alla ricerca dei responsabili di quello che, a suo
dire, appariva come uno scherzo di pessimo gusto.
È incappato
quasi subito in un gruppetto di detenuti, seduti ad un tavolo dalla
parte opposta della mensa.
Avevano
un’aria stranamente
familiare, a dir la verità. Peccato che
Kageyama abbia capito troppo tardi il perché gli sembrasse
di averli già rivisti.
Uno di loro, che
evidentemente doveva essere il capo di una qualche gang –
basso, tarchiato, la pelle dello stesso colore del caffè
– si era passato l’unghia del pollice lungo il
collo, fissando Reiji dritto negli occhi, in un gesto abbastanza
eloquente.
Fai
quello che vogliamo, oppure ti tagliamo la gola.
Negli anni Kageyama
aveva avuto a che fare con svariati tra i delinquenti della peggior
specie, appartenenti letteralmente alla feccia del genere, pertanto
aveva imparato a saper riconoscere vari gesti ed espressioni, gergali o
meno che fossero.
Ad ogni modo, per
carpire un messaggio del genere non serviva certo una grande
intelligenza.
Reiji aveva preso la
corda in mano, riprendendo a guardarsi attentamente intorno. Alcune
risate roche e profonde, in sottofondo, avevano accompagnato quel suo
gesto.
Gli occhi piccoli e
neri dell’uomo, da dietro le sottili lenti scure, si erano
posate sulla figura della guardia penitenziaria, ferma immobile
all’ingresso della stanza, che si sarebbe dovuta trovare
lì per vigilare che i detenuti mantenessero un comportamento
adeguato nella mensa.
Stava guardando in
un’altra direzione, non sembrava essersi accorto minimamente
di quello che era successo.
Ed era stato allora
che Kageyama aveva capito.
Uno di quei detenuti
doveva aver lasciato cadere la corda accanto a lui, mentre gli passava
vicino. Quanto alla guardia… beh, non che corrompere un
piantone fosse poi così difficile.
Era abbastanza chiaro
che quei detenuti volevano che si togliesse la vita e Kageyama temeva
di sapere perché.
Quando era uscito
dalla stanza, con in mano la corda, ha avuto la conferma che la guardia
fosse stata pagata per tacere sulla vicenda, visto che non gli aveva
rivolto una parola, non si era neanche voltato a guardarlo –
era vietato portare qualcosa fuori dalla mensa, specie se si trattava
di oggetti con i quali i detenuti potevano potenzialmente farsi del
male.
Ora era lì,
di nuovo nella sua cella.
Da più
giorni ormai tiene nascosta quella corda sotto il suo durissimo
cuscino, un fardello che mano a mano col passare del tempo diviene
sempre più pesante da sopportare.
Quando uno di quei
detenuti passa davanti alla sua cella non si trattiene dal fare
commenti come “Non sei ancora morto?”, con
prepotente tono di scherno, senza tuttavia che nessuna delle guardie
presenti lo riprenda per questo.
Il che conferma a
Kageyama, ancora una volta, quanto là dentro si siano oramai
tutti coalizzati per firmare la sua definitiva condanna a morte.
Sii
tu ad ucciderti, altrimenti saremmo noi a doverlo fare.
E Reiji sa
perfettamente quello che lo
aspetta.
And now
you’re faced with two wrongs
Now
we’re faced with two wrongs
I
don’t know, oh, I don’t know
Now
we’re faced with two wrongs
Now
we’re faced with two wrongs
I
don’t know, oh, I don’t know
Negli ultimi giorni
della sua esistenza, a Kageyama Reiji viene da pensare ad una delle
poche cose buone che abbia mai fatto in vita sua.
Ovviamente, la mente
scatta e vola veloce verso la persona di Kidou Yuuto.
Chissà dove
sarà adesso il suo ragazzo, come starà, cosa
starà facendo…
Vorrebbe
così disperatamente avercelo vicino, potergli parlare,
almeno per un’ultima volta, avere la possibilità
di spiegargli quello che gli sta succedendo.
Sarebbe davvero un
privilegio, per lui, poterlo vedere almeno ancora prima che tutto
ciò abbia fine.
È certo che
il suo ragazzo sarebbe in grado di comprendere il fardello che grava
ora su di lui, anche senza bisogno di parole.
Ricorda a se stesso
tuttavia che Yuuto non è a conoscenza del fatto che lui sia
ancora in vita, pertanto la sua condanna sembra ormai essere definitiva.
Kidou gli manca da
morire. Ohh, ci sono così tante cose che vorrebbe dirgli.
Mi dispiace, Kidou. Ho rovinato tutto, lo so. E sono perfettamente
conscio del fatto che uno ‘scusa’ mormorato a mezza
voce non risolverebbe niente né servirebbe a qualcosa,
adesso.
Però
hai detto di avermi perdonato, Yuuto – che quelle fossero le
tue ultime parole ad un uomo ormai non più libero adesso non
ha più rilevanza.
Ascoltami,
ragazzo mio. La verità è che abbiamo entrambi
commesso degli errori: io conosco bene le mie colpe ma non voglio che
tu ti senta responsabile per ciò che sta per accadermi.
Non
lo potevi sapere, addirittura ho preferito che mi credessi morto,
pensando che almeno così ti avrei tenuto al sicuro.
Mi
dispiace, Kidou, mi dispiace davvero tanto, al punto che ormai vivo nel
rimorso di non averti detto tutta la verità. Abbiamo
sbagliato entrambi – un tempo ti rimproveravo di essertene
andato da me, adesso so invece che è stata la scelta
migliore per te, per il tuo futuro, per la persona che sei e per come
sei cresciuto. Quello per cui vorrei riprenderti adesso è il
fatto che non riesci ad andare avanti come vorresti – come
dovresti – dopo quanto è successo.
Non
chiederti come sia possibile una cosa del genere, io lo so e basta.
D’altronde, sono una delle persone che meglio ti conosce al
mondo.
Forse
pecco di superbia nel credere una cosa del genere, non è
tuttavia lo stesso sbaglio che ho compiuto nel credere che stessi
commettendo un errore andandotene via e rivolendoti a tutti i costi con
me?
Ad
ogni modo, immagino – o forse, egoisticamente, quasi me lo
auguro – che la mia morte abbia in qualche modo condizionato
la tua vita. Ecco, io vorrei chiederti di andare avanti, di non
lasciarti influenzare in alcun modo dalla mia perdita.
Stavolta
sono arrivato al capolinea sul serio, ragazzo. Ad ogni modo, non
importa. Se vuoi saperlo, credo di meritarmi tutto ciò.
Perciò,
non piangere quando ti arriverà questa notizia –
so che non lo farai, sei troppo forte per questo –
né soffrirne. Era il destino che mi meritavo.
E
soprattutto, scusa se non riesco a dirti queste parole di persona ma le
sto solo pensando dentro di me, il problema è che sono un
vigliacco e questo lo sai meglio di me, l’idea di affrontare
con te un discorso del genere mi spaventa da morire.
Kageyama sospira, osservando un punto imprecisato della sua cella.
Andrà tutto
bene, Yuuto. Te lo prometto.
We could
be born to anything and now, and now,
What
you’ve done is terrible
And
now, and now
Now
you carry it with you
You
carry it with you
You
carry it with you
(Now
you carry it with you
You
carry it whit you
You
carry it with you)
Kageyama vive ormai
con la consapevolezza di dover morire. Ha i giorni contati, lo sa.
Sente
l’ombra della morte gravare pesantemente su di sé
ogni momento che passa, qualsiasi cosa faccia: mentre legge un libro,
nel cupo silenzio della sua cella d’isolamento, durante i
pasti in mensa, in cortile nell’ora d’aria o sotto
la doccia, gocce d’acqua che impietose colpiscono la pelle
che pare essere scolpita nella roccia, quell’alito funereo
è sempre lì, pronto a premere sul suo collo.
Però anche
stavolta si è arreso all’evidenza, accettando la
realtà dei fatti – è diventato
incredibilmente condiscendente, da quando è finito in
prigione; allora forse è vero che stare dietro le sbarre,
almeno un po’, ti cambia.
Si sveglia spesso la
notte, avvertendo la pressione della corda sotto la propria testa, come
se stesse lì apposta, a volergli ricordare quale
sarà il suo destino finale.
Ucciditi tu, o saremo
noi a doverlo fare.
In realtà
non è neanche un fardello così pesante da
portarsi dietro, basta farci l’abitudine, poi il resto lo fa
l’arrendevolezza.
Reiji avrebbe voluto
più tempo per provare a migliorare, per redimersi di tutti i
suoi peccati ma a quanto pare il futuro aveva in mente piani ben
diversi – e crudeli – per lui.
Rimane una vita appesa
ad un filo, la sua, quando ormai non può far altro che
dondolarsi in quella straziante attesa, tra tutti i se e i ma del caso.
Se fosse
sopravvissuto, avrebbe mai ottenuto lo sconto di pena? Avrebbe rivisto
il suo amato Kidou, col trascorrere dei mesi.
Spiegargli che il suo
Comandante non era mai morto non sarebbe stata certo
un’impresa facile. Non che Kidou fosse uno sciocco, ci
mancherebbe altro – è senza dubbio la persona
più intelligente che conosce – quanto piuttosto
perché sa che per Yuuto accettare una realtà del
genere sia estremamente difficile.
Anche cedendo ai non
troppo velati suggerimenti dei suoi compagni di reclusione non avrebbe
fatto certo qualcosa di particolarmente piacevole per il suo ragazzo,
tuttavia forse sarebbe stata la scelta più facile da
accettare per entrambi. Si sarebbe potuto quasi dire che ormai Kidou ci
avesse preso l’abitudine, a veder Kageyama morire.
Inoltre, se avesse
accettato il proprio destino senza troppe resistenze, avrebbe protetto
proprio Yuuto, visto che temeva che, qualora non fosse morto, qualcuno
avrebbe potuto avere la pessima idea di prendersela con il ragazzo
– che chiaramente in tutta quella vicenda non
c’entrava un bel niente – pur di convincerlo a
togliersi la vita.
Tranquilli, non
c’è bisogno di arrivare a tanto. Farò
tutto ciò che volete, pur di tutelare la persona che
più amo al mondo.
There’s
no view from here, no view from here, no view from here
All
you see’s the sky
Cloud
passing by, cloud passing by
L’ultimo
giorno di Kageyama inizia di soprassalto.
L’uomo
infatti si sveglia di colpo, sobbalzando sul metallo freddo della
branda mentre si mette a sedere, perle di gelido sudore sono rimaste
impigliate tra le rughe d’espressione della sua fronte.
Apprende con malcelato
stupore che è ancora notte, l’intero penitenziario
avvolto nelle tenebre. Una luna pallida fa capolino da dietro uno
spesso banco di nubi scure, che stracciano il cielo e rendono tutta
l’atmosfera ancor più cupa.
Ad ogni modo, le
sbarre apposte alla piccola finestra della cella impediscono
irrimediabilmente la visuale di quel tanto macabro e spettrale quanto
affascinante spettacolo, permettendo solo a piccole e sporadiche
lacrime di luce di attraversare la fessura e penetrare nella stanza.
Ci sono in effetti
piccole chiazze di luce bianca a terra, tuttavia dalla
posizione in cui Reiji adesso si trova è impossibile
stabilire se si tratti della candida luna o dei lampioni del
penitenziario.
Sa solo che fa un gran
freddo e che desidererebbe ardentemente una coperta per potersi
riparare dal quel clima gelido che lo tormenta, martellando cieco fin
nelle sue ossa.
Si ricorda amaramente
che lui è un carcerato e che, pertanto, non ha diritto ad
agi di quel genere. Così si limita a stringersi le braccia
attorno al torace, sperando – inutilmente – di
riuscire a trarre almeno in quel modo un minimo di conforto.
Gli ultimi tempi
lì sono stati un inferno – guardie sempre pronte a
battere il calcio delle loro pistole sulle sbarre metalliche della sua
cella, traendolo via dal sonno quelle poche volte in cui riusciva
ancora ad addormentarsi e compagni di prigionia che non perdevano
l’occasione di rifilargli forti spintoni, quando se lo
ritrovavano vicino in mensa, lasciandogli profondi lividi violacei in
giro per tutto il corpo – tanto che ormai riposare era
diventata un’impresa impossibile.
Membra emaciate,
occhiaie violacee, mente spezzata. Togli ad un uomo ciò che
lo rende tale – il cibo, il riposo, la lucidità,
la dignità – e ti ritroverai con una crisalide
vuota, un corpo senza vita e senza forma.
Ed era esattamente
così che si sente ora Kageyama, un essere vivente che di
‘vivo’, a conti fatti, ha ancora poco.
Gli sembra quasi di
sentire nella sua testa le risa di tutte le persone che lo hanno
condotto fino a quel punto, ove la sua razionalità si
è irrimediabilmente spezzata – i vagheggiamenti di una mente
stanca.
Ridono, ridono di lui,
soddisfatti dello sfacelo che hanno creato. Un mostro, un mostro.
Crede di essere
impazzito del tutto, quando sente quella voce cristallina pronunciare
ancora una volta, forse per l’ultima, il suo nome.
«Kageyama-san»
è un sussurro etereo, un soffio di vento soffice e fresco
che gli accarezza la pelle con fare seducente e ristoratore.
Reiji si volta subito
verso quel mormorio sommesso, sente il cuore in gola battergli con un
ritmo inaudito.
Ed è
proprio lì, nell’angolo opposto della cella,
quello più oscuro e protetto dalla luce rispetto agli altri.
È seduto a terra, le ginocchia strette al petto;
però non sembra affatto spaventato, al contrario per quanto
quel posto possa essere sporco ed indegno della sua purezza, sembra
incredibilmente rilassato, un sorriso lieve che gli illumina il volto.
Kageyama capisce
subito che c’è qualcosa che non va, il briciolo di
lucidità che gli è rimasto che quasi glielo grida
– come potrebbe essere comparso dal nulla? E
perché sembrerebbe essere fatto di luce radiosa? –
solo che averlo di nuovo lì è talmente
meraviglioso che finisce per non porsi quell’interrogativo,
dopotutto adesso l’unica cosa che conti davvero è
che sia lì, no?
«Yuu—
Yuuto…» le parole muoiono nella sua gola,
improvvisamente sembra che lasciarle fiorire sulle labbra sia diventato
impossibile.
No, è
troppo bello, è tutto troppo bello – ed
inverosimile – purché sia reale. Però
in quel momento Kageyama decide di non preoccuparsene, per quanto possa
essere pericoloso dar retta alle visioni allucinate di una mente
spezzata lui ora non vuole darci peso, l’importante
è che adesso Yuuto sia lì con sé.
E poco importa che sia
reale o meno, Reiji decide – pericolosamente – di
convincersi che quello davanti a sé sia il vero Yuuto. Oh cielo, il suo ragazzo sa che
è vivo!
«Buonasera,
Comandante» riprende Kidou, sorridendogli
giovialmente. Kageyama sente il cuore esplodergli di gioia, deve fare
appello a tutte le poche facoltà mentali che ancora gli
rimangono per non correre subito a lanciarsi tra le braccia del suo
adorato allievo.
Vederlo lì,
davanti a sé è il più grande sollievo
che potesse immaginare e adesso riesce a ragionare lucidamente ancor
meno di prima.
«C-come sei
arrivato qui? Come facevi a sapere che ero vivo o dove mi trovavo? Te
l’ha detto qualcuno? Ti prego, Kidou, rispondimi,
è importante» le parole adesso rotolano sulla
lingua di Kageyama a velocità inesorabile, impossibile
rallentare quel fiume in piena.
È
importante che lui lo sappia, potrebbero essere in pericolo,
dopotutto…
Il ragazzo
però non dà cenno di volergli rispondere,
limitandosi invece a rimanere in silenzio e continuando a sorridere,
gli occhi strizzati in un’espressione
d’ilarità.
Kageyama si alza di
scatto, andando ad inginocchiarsi accanto al ragazzo. Gli prende il
volto tra le mani, stringendolo affettuosamente ma al tempo stesso con
una sensazione di pressante necessità addosso,
un’ansia opprimente che non fa altro che rimbalzargli nel
petto.
«Ti
scongiuro, ragazzo mio…» mormora, accarezzandogli
lentamente le gote «ho bisogno di
saperlo…»
Yuuto continua a
sorridergli, gli occhi rossi sono ora di nuovo aperti e lo fissano,
ridenti ma stranamente, pericolosamente
vitrei.
Il giovane inclina la
testa di lato secondo un’angolazione innaturale,
dopodiché tenendosi sollevato col busto s’allunga
fino a che riesce a posare le proprie labbra su quelle di Kageyama.
Per un momento Reiji
rimane immobile, troppo sconvolto per fare qualsiasi cosa. Gli riesce
incredibilmente difficile convincersi che Yuuto lo stia
baciando—
Yuuto lo sta baciando?
Con quell’unica certezza in mente, l’uomo non perde
altro tempo e affonda con le labbra su quelle dell’altro,
stringendo a sé quel corpo tanto agognato, le mani che
corrono lungo la sua schiena, sotto strati e strati di vestiti,
artigliando quella pelle candida per poterla sentire più
vicina a sé, più sua.
Quel che è
strano è che il corpo di Yuuto è incredibilmente freddo.
Vorrebbe poterlo scaldare con la propria vicinanza, eppure a quanto
pare ogni tentativo risulta essere vano.
«Cosa…»
Kageyama si distacca appena da Kidou, con tutte le intenzioni di
chiedergli spiegazioni per quella sua temperatura così
gelida. Non dovresti
essere qui, ragazzo. Sei così freddo, hai bisogno di
scaldarti, se non vuoi prenderti un malanno.
Reiji accenna a
parlargli ancora, tuttavia non appena ci prova non fa quasi neanche in
tempo ad aprire le labbra per potergli rivolgere parola che il corpo
etereo di Yuuto ha già preso a svanirgli tra le braccia.
«No!»
grida disperatamente, stringendolo più a sé,
nella vana speranza che non se ne vada «Ti prego, non
andartene, Yuuto…»
Il giovane continua a
sorridergli, mentre gli posa una mano algida su una guancia, nel
tentativo di rincuorarlo. Reiji non si è nemmeno accorto di
quando ha iniziato a piangere, se ne rende conto solo adesso, quando
comprende che le dita spettrali di Kidou stanno catturando e
cancellando il segno infame delle lacrime che hanno solcato il suo
volto.
Che stupido che sei,
si riprende, non puoi
piangere davanti a lui.
Ma
tanto ormai cosa conta?
Prima che possa
aggiungere qualsiasi altra cosa Kidou è svanito del tutto,
lasciandolo da solo con le sue lacrime e il suo dolore in quella stanza
vuota.
Sa che si è
trattato di un’illusione, solo che è stata
talmente meravigliosa che accettare che sia finita così in
fretta sembra quasi improponibile.
Kageyama si volta
lentamente, gli occhi che cadono di nuovo sulla sua brandina.
Probabilmente adesso dovrà tornare lì e tentare
inutilmente di mettersi a dormire, tormentato dai mille incubi che lo
inseguono da mesi.
D’improvviso
però il suo sguardo cade su una forma indefinita, posta
sotto quello che dovrebbe essere il suo giaciglio.
Ed è allora
che Kageyama capisce quello che deve
fare.
We could be born to anything
and now, and now
What you’ve
done is terrible
And now, and now
Now you carry it with
you
You carry it with you
You carry it with you
Now you carry it with
you
You carry it with you
You carry it with you
Kageyama Reiji non
è un vigliacco. Forse lo è stato, in passato,
tuttavia non è certo questo ciò che conta, adesso.
Annoda facilmente la
corda di canapa attorno ad una scanalatura del soffitto, che non
avrebbe mai trovato se non si fosse metto d’impegno
lì a cercarla.
Davanti a
sé c’è la piccola finestra che, per
tutto il tempo della sua permanenza in quel luogo, è stata
la sua unica apertura sul resto del mondo. Intravede a malapena la luna
velata di nubi e il resto del penitenziario, talmente la visuale
è pessima. Forse il suo vero carceriere è stato
quel ritaglio sul mondo, una speranza perversa di libertà,
che alla fine ha finito per avvelenarlo.
Adesso sa che non
tornerà mai più fuori da lì vivo. Il
che è certamente una consapevolezza dolorosa, ancora una
volta però si ritrova a valutare sul fatto di aver preso la
decisione giusta.
Se fossero arrivati a
Kidou, sarebbe stato tutto ancor più immensamente doloroso.
Sentirlo morire tra le sue braccia, gelido e tremante, così
come con lo spettro di poco prima, sarebbe stato insopportabile
– se solo fosse successo davvero.
Trovandosi a quel
bivio altre cento volte, Kageyama avrebbe scelto sempre quella fine per
sé, piuttosto che condannarvi il suo ragazzo.
Oh, Yuuto…
la mente di Kageyama giunge con un riflesso quasi automatico a lui, le
labbra che per un’ultima volta s’incurvano in un
lieve sorriso.
Per quale ragione siamo venuti al mondo, ragazzo mio? Io,
probabilmente, per nessuna in particolare.
Mi
sono coperto di empietà e per questo ho deciso di pagare.
Credevo di dover portare questo peso con me per sempre, invece adesso,
compiendo quest’ennesimo atto indegno, ti sto consegnando
questo mio ultimo errore. Non voglio che accada… non voglio
che sia tu a sopportare il fardello dei miei errori.
Non
preoccuparti. Li porterò con me, fin nella tomba.
Kageyama chiude gli occhi. Sa che quello non è del tutto
vero, adesso parte del dolore toccherà anche a Kidou
– e quella è l’ultima cosa che vuole,
davvero.
Quella non
è vigliaccheria, bensì spirito di sacrificio.
È giusto che sia lui a rimetterci, non certo il suo adorato
ragazzo.
Yuuto è
intelligente. Capirà, o almeno questo è
ciò che Kageyama si
augura
Now you
carry it with you
You
carry it with you
You
carry it with you
Kageyama sospira. Si
sistema per bene il cappio intorno al collo, osservando per
l’ultima volta in vita sua l’incantevole candore
della luna.
Quando ha legato la
corda al soffitto si è procurato un piccolo taglio; col
sangue che fuoriusciva dalla ferita ne ha approfittato per scrivere
poche parole, semplici ma d’effetto, sul pavimento lurido
della stanza.
Mi
dispiace, Yuuto.
Spera che, almeno
così, le sue parole arrivino al ragazzo. Avrebbe voluto
aggiungere un ‘ti amo’, tuttavia temeva di sembrare
troppo vanaglorioso. Inoltre, non vorrebbe mai che gli inquirenti lo
accusassero di essersi ucciso in preda al rimorso d’aver
compiuto atti di pedofilia o chissà cos’altro
– Dio, no.
Sa che Yuuto
capirà. Quella è l’unica cosa che conta.
È un
sollievo immenso, che fa sorridere Kageyama, mentre sta ancora
osservando le parole insanguinate. Se ne può andare da quel
mondo crudele quasi con sollievo.
Reiji fa cadere a
terra il sostegno sul quale si era inerpicato, lasciando che il proprio
corpo ricada giù di colpo, pochi spasmi mentre non cerca
nemmeno più di dimenarsi o ribellarsi. Presto
sarà libero, forse dall’altra parte
incontrerà il suo amato Kidou e potranno finalmente essere
felici insieme.
Ti
amo, Yuuto.
E il corpo di Kageyama
diviene senza vita.
This is a
collect call from Kansas State Penitentiary:
“Being
brought up one way and trying to see another way is very
difficult”
«Kageyama
Reiji è morto.»
Kidou apprende la
notizia con un certo sgomento crescente, inquietudine opprimente nel
suo cuore. È verosimile che, davanti agli altri, non abbia
avuto inflessioni di alcun genere, solo la sua espressione in volto che
è divenuta terrea.
Non ha mai fatto
parola con nessuno di come si senta davvero, dentro, né
tantomeno sembra essere intenzionato a farlo. Si limita ad essere
sempre ben più serio del solito, estremamente taciturno,
limitandosi a parlare solo quando gli viene espressamente richiesto.
Se qualcuno gli chiede
come sta, evita di rispondere. In fondo, sarebbe sciocco mentire.
La verità
è che si sente più morto che vivo. Certamente,
nella sua vita non ha avuto un rapporto propriamente idilliaco con
Kageyama, tuttavia il ragazzo è cosciente del fatto che non
augurerebbe mai la morte a nessuno, neppure al peggior criminale del
mondo.
Sarebbe
contro natura.
Inoltre, ora che
l’uomo aveva finalmente fatto ammenda per tutti i suoi reati
e stava finalmente scontando la pena che per essi meritava… doveva proprio andare
così? Era giusto che morisse?
No, non lo era. Non
sarebbe dovuto morire, non sarebbe dovuta andare così, non
sarebbe dovuta finire così… Kageyama era un uomo
estremamente intelligente, Yuuto sapeva che se c’era una
persona che aveva la possibilità di redimersi e di cambiare,
quello era proprio il suo Comandante.
Già,
era… perché
adesso è morto.
Dicono che quando si
nasce e si cresce in un determinato modo, è difficile che
poi si cambi prospettiva in ciò che si vede, anche se si ha
a disposizione tutto il tempo del mondo. Tuttavia, Yuuto continua a
credere che quello stesso discorso non potesse essere applicato a
Kageyama. Lui poteva
ancora cambiare, ne è assolutamente
certo.
Yuuto non riesce a
credere che nessuno si fosse accorto in tempo di quello che stava
succedendo, che nessuno fosse riuscito a salvarlo in tempo…
oltretutto, Kageyama era un uomo estremamente orgoglioso,
perché mai avrebbe dovuto far ricorso ad un atto tanto vile
come quello di togliersi la vita?
Non aveva ragioni per
farlo… si era ricreduto, gli aveva perfino chiesto
scusa…
Yuuto è
convinto che qualcuno l’abbia spinto a prendere una decisione
del genere – uno
dei suoi nemici giurati, con ogni probabilità.
Solo che, di fatto, non ha alcuna prova che possa dimostrare la sua
teoria, perciò era costretto a restare in un angolo e a
tacere.
Piange spesso, quando
è da solo e nessuno può vederlo –
l’orgoglio è sempre difficile da mettere da parte,
perfino in una situazione del genere. La verità è
che s’incolpa di tante cose, di non aver capito prima che
l’uomo fosse ancora vivo, di non aver compreso quanto potesse
essere in pericolo, di non averlo salvato. Certo, quel testardo del suo
ex Comandante lo aveva volutamente tenuto fuori da tutta quella
vicenda, per non esporlo a chissà quali pericoli,
però, se solo l’avesse saputo prima…
Gli manca molto,
Kageyama, più di quanto riesca ad ammettere a se stesso.
Però ha deciso che sarà forte per lui, che non si
lascerà devastare da tutto questo – e da quelle
parole di sangue, quel ‘Mi dispiace, Yuuto’ che
continua a tormentarlo giorno e notte – bensì che
andrà avanti, nonostante quel macigno soffocante che
è ora costretto a portarsi sulle spalle, perché
è certo che fosse ciò che Kageyama desiderasse
per lui.
Che riuscisse ad
andare avanti, nonostante tutto.
Yuuto si volta verso
il campo, da cui i suoi compagni lo stanno chiamando, attendendolo a
braccia aperte. Si affretta dunque a raggiungerli, nascondendo ancora
una volta quella nuvola di neri pensieri che ormai da mesi vive con lui.
Non
lo dimenticherà mai.
*Note
dell’autrice*
Sai quando non
pubblichi una fanfic su Inazuma Eleven e sai che dovresti postare
qualcosa di potenzialmente allegro e pieno di fluff ma
l’unica, deprimente cosa che riesci a tirar fuori dal
cilindro magico è una death!fic
sulla tua OTP? Sigh, a me la vita è male.
Comunque, buonasera a
tutti. So bene che molti di voi speravano che io fossi morta, tuttavia per la vostra immensa
gioia, immagino ebbene no, sono ancora viva. Nel frattempo
ho passato l’estate a piangermi addosso, ho iniziato il
quinto liceo e ho pubblicato una lunghissima one-shot su fandom di
Tokyo ghoul che mi ha tenuta impegnata per ber un mese e mezzo. Mi sa
che era meglio se morivo, mh.
Comunque…
che dire? “Four Walls (The Ballad Of Perry Smith)”
è una canzone contenuta nel nuovo album della mia band
preferita di sempre, i Bastille, intitolato “Wild
World”. La canzone parla di un uomo e della sua vita in
prigione, del peso dei suoi errori che è costretto a portare
con sé per il resto della propria vita. E beh, pensare a
Kageyama mi è pressoché venuto automatico.
Ho adorato questa
canzone, sin dal primo istante in cui l’ho ascoltata, infatti
ve la consiglio tantissimo – anzi, vi consiglio tutto
“Wild World”, che è allo stesso modo
interamente meraviglioso. Se ne avete la possibilità,
ascoltate la canzone da cui la storia è tratta come
sottofondo, mentre leggete la fic. Io l’ho scritta con la
song sotto e, credetemi, così rende diecimila volte meglio.
Comunque, non vi
nascondo che in alcuni punti mi rivedo molto in Kageyama.
Sarà che già quando vedevo l’anime
trovavo che fosse il personaggio che caratterialmente più mi
assomigliava – in certe azioni siamo letteralmente uguali
– poi quando ho ideato la fic, con tanto di finale e relativo
suicidio di Kageyama, mi è venuto quasi automatico ripensare
a quest’estate, quando sono caduta in depressione e ho
tentato anch’io il suicidio.
È stato un
periodo estremamente buio della mia vita, fortunatamente adesso
tuttavia ne sto uscendo, grazie soprattutto all’aiuto di Ange, Marina e Michy, senza le
quali francamente adesso non so dove sarei. Vi voglio bene, ragazze.
Comunque, non
l’ho ancora superata del tutto. Si va avanti, ecco.
Però è un dolore troppo grande, che non augurerei
neppure al peggiore dei miei nemici. Ad ogni modo adesso non mi va di
parlare oltre di questa faccenda, sarà meglio cambiare
argomento.
Ebbene sì,
sono riuscita a buttare uno sprazzo di KageKi anche qui.
D’altronde, se non lo avessi fatto non sarei stata io. E mi
dispiace aver ucciso Kageyama ma sono convinta che la storia dovesse
finire così, soprattutto con il messaggio di speranza
lasciato da Yuuto, che riesce ad andare avanti nonostante questa
perdita.
Se non si fosse
capito, ad istigare Kageyama al suicidio sono stati degli emissari di
Garshield, poiché se Reiji avesse parlato sarebbero finiti
tutti in carcere, chiaramente. Le guardie sono dalla loro parte
perché, oh, sarò pessimista ma sono ormai
convinta che corrompere con del denaro un uomo non sia affatto
complicato. Quanto all’arrendevolezza di Kageyama di fronte
alla prospettiva del suo destino, è chiaro che molto abbia
influito l’ambiente in cui si trova, che non gli lascia
speranze di salvezza e che, come lui stesso dice ad un certo punto
della fic, ha spezzato la sua mente – in alcuni punti la
narrazione è volutamente frammentaria e sconnessa, proprio
per sottolineare questo stato non lucido di Kageyama.
Reiji infatti non
ragiona lucidamente, ecco perché si uccide. Continua ad
avere visioni di Kidou e piuttosto che mettere in pericolo il suo
ragazzo – perché è di questo che ha
paura – preferisce togliersi la vita. Il tutto è
ambientato in una What
if? post!FFI, in cui Kageyama non è mai morto
nell’incidente con il tir ed è invece finito in
prigione.
Credo di non aver
altro da dire. Ringrazio chiunque abbia letto fin qui e tutte quelle
anime pie che inseriranno la storia tra le preferite e/o le ricordate.
Se qualcuno dovesse recensire… grazie.
Aria
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