16.
XVI. Fantasmi
Era un orario inaccettabile per le visite e le maniere di Ledford,
maggiordomo di Ellsworth House, iniziarono a vacillare davanti
all’insistenza di Anna. «Permettetemi di
ripetere» disse l’uomo in livrea, trattenendo
l’ospite a un passo dall’uscio. «Al
momento, i signori non sono in casa. Se poteste essere tanto cortese da
lasciare un biglietto da visit―»
«E io lo ripeto a voi» interruppe Anna.
Più cercava di tenersi stretta la pazienza, più
la sentiva sfuggirle di mano. La sua insana agitazione era palpabile:
nel gesticolio, nello sguardo acceso, nel tono sussurrato.
«Non sono qui per gli Hall. Ho solo bisogno di entrare. Devo
controllare una... cosa. Non sapranno che sono stata qui.»
Sul viso del maggiordomo si accomodò una cortese espressione
di simil-orrore. «Signorina.» Allargò le
narici del lungo naso gibboso e irrigidì le spalle.
«Per favore, andate via.»
«Oh, avanti! Che volete? Soldi?»
«Signorina ― per favore ― andate via.»
Ledford, con le mani inguantate di bianco sui pomelli, era sul punto di
chiudere la porta e Anna, dita serrate, era a tanto così dal
tentare di introdursi a Ellsworth House passando sul corpo privo di
sensi del maggiordomo, quando un avvicinarsi di passi
annunciò l’arrivo di una terza persona: qualcuno
scendeva le scale dell’ingresso.
«Ledford!» William si bloccò tra il
terzo e il penultimo gradino, una mano sulla balaustra e
l’altra a ciondoloni lungo il fianco; indossava un panciotto
grigio antracite e una camicia bianca dai polsini abbottonati, ma era
senza giacca e senza cravatta. La sorpresa ravvivò gli occhi
cerulei dello scritturo, per poi lasciar campo a un laconico sorriso da
gentiluomo del Kent. «Ledford, perché mai fate
attendere miss Hawkins sul portico, come una mendicante?»
William li raggiunse e il maggiordomo si fece da parte, per cedere
l’entrata ad Anna.
«Desolato, signore. Mi avete espressamente detto di non voler
essere disturbato, in nessun caso, da chicchessia. Ignoravo che la
signorina Hawkins rappresentasse un’eccezione.»
«Miss Hawkins rappresenta un’eccezione sotto molti
aspetti ― temo.» E mentre Ledford chiudeva la porta e
abbandonava l’ingresso, William soggiunse: «Davvero
non immaginavo che avremmo ricevuto una vostra visita così
presto.» C’era un che di esitante nella garbata
dichiarazione: l’uomo chinò lo sguardo; strofinava
debolmente, pensosamente quasi, i polpastrelli macchiati
d’inchiostro.
Anna sollevò la veletta. Erano di nuovo soli, proprio
là dove erano stati interrotti la sera della maledetta cena:
ai piedi della scala, sotto lo sguardo del vecchio Hall. Ma se allora
Anna aveva indugiato in un piastriccio di fastidio e desiderio, adesso
smaniava per togliersi William dai piedi. Guardava lo scrittore; e
guardava la sommità delle scale, oltre le spalle di lui.
«Tuttavia, se siete qui per mia sorella, o per Augusta, devo
comunicarvi che non torneranno nel futuro più
prossimo» stava spiegando William. «Mio fratello e
mia cognata hanno reputato inopportuno restare qui, dopo quanto
accaduto. Hanno scelto di trasferirsi, in primo luogo, per le bambine.
Ada è andata con loro.»
«Trasferirsi? E dove?»
«Fuori città, nella casa sulla collina: la vecchia
villa Hall. Mi rincresce che siate venuta fin qui
inutilmente.»
«Non sono qui per loro.»
William alzò gli occhi: la sorpresa si
riaffacciò nello sguardo.
«Dunque, volete... accomodarvi?»
«No.»
Un respiro di tentennamento abbandonò le sottili labbra
dello scrittore. «Miss Hawkins ― lungi da me offendervi, ma
l’ora è tarda e voi apparite turbata. Sbaglio,
forse, a ipotizzare che questa non sia una visita di cortesia? Se
è accaduto qualcosa a Bon Fleur, io―»
«Devo vedere lo studio.»
«Lo studio? Il nostro studio?»
«No, lo studio della regina. ― Sì, il vostro
studio, signor Hall. Quello dove mio zio s’è
ammazzato. Avete presente?»
Messo davanti a quello spettacolo di malagrazia, con un lento battito
di palpebre, William corrugò la fronte.
«E posso chiedervi perché?»
«No.»
Silenzio.
E poi, contro ogni previsione di Anna, William arretrò di un
passo e indicò le scale con un molle gesto del braccio.
«Prego.» E fece strada.
Anna lo seguì, fissandone la schiena, ampia e diritta, con
un vago sentore di sospetto, sul quale, però,
preferì non soffermarsi. Salirono le scale, percorsero il
corridoio e raggiunsero lo studio. William aprì la porta, sospingendola.
La stanza era buia.
William entrò. Dalle eleganti campane di vetro di due
lampade, appoggiate sullo scrittoio, si sprigionò un
chiarore aranciato. La luce rivelò la mobilia: una poltrona
di velluto verde, accanto alla finestra, occultata dalle tende; i libri
sugli scaffali, infilati nel muro; le anfore di ceramica e le brocche
di bronzo, disposte sulla mensola del caminetto; in una nicchia, stava
il busto bianco di un vecchio dalla barba riccioluta e il piglio severo
di un profeta.
Anna non aveva badato ai dettagli, la prima volta in cui era stata
nello studio. Né li guardava ora, immobilizzata sulla
soglia. Fissava il punto esatto in cui aveva visto il corpo scempiato
dello zio Woodhams: sul pavimento, al centro della stanza. Il tappeto
era stato tolto e il parquet riluceva per la cera. Anna temette di dar
di stomaco, tanta era la violenza con la quale sentiva le viscere
ribaltarsi, mentre si imponeva di avanzare. Da lenti e contriti, i suoi
movimenti divennero pian piano più sciolti:
attraversò lo studio, scostò le tende e
scrutò, con gli occhi e con il tatto, gli infissi della
finestra; fece scorrere le dita lungo il davanzale interno: lindo,
liscio e senza l’ombra di un graffio. Allora,
guardò giù, oltre il vetro: la finestra dava sul
giardino e non c’erano sporgenze sottostanti, né
alberi vicini. Percorse passo passo il perimetro dello studio, bussando
contro il pregiato legno delle Indie Orientali, che copriva interamente
le pareti; tre volte accostò l’orecchio ai
pannelli, ma tutte e tre le volte scoprì di essersi
ingannata: il muro non risuonava a vuoto.
In quanto a William, rimase immobile, in piedi, di fianco allo
scrittoio, con la fronte bianca solcata da una ruga di crescente
incertezza. E quando Anna iniziò a prendere a colpi di tacco
il parquet, non poté più
tacere: «In nome di tutto ciò che
è ragionevole, che cosa state facendo?»
«Dite un po’, siete sicuro che non esista una terza
chiave? Oppure... un altro modo per entrare. Deve esserci un altro modo
per entrare.»
«Buon Dio, state cercando dei passaggi nascosti.»
Anna si mosse verso la libreria e tirò giù uno
dei tomi. William scattò verso di lei, agguantandola per un
gomito, e la spinse a voltarsi verso di lui, che la scrutava con un
fremito di supplica nel azzurro freddo degli occhi.
«Non ci sono passaggi nascosti, in questo studio.
C’è una sola entrata. La porta. Che era chiusa
dall’interno. Fu vostro zio a chiuderla.»
«Solo perché voi non siete a conoscenza di
passaggi segreti, non vuol dire che non ce ne siano.
C’è un motivo se li chiamano
‘segreti’!»
«Ditemi che non vi siete veramente convinta di quel che sto
immaginando.»
«Che volete che ne sappia io di quello che vi passa per la
testa!»
«Credete che vostro zio sia stato assassinato.»
«Sì» ringhiò Anna; la paura
trattenuta dietro un ennesimo velo di lacrime.
«No, miss Hawkins...»
«Sì!»
«È stato un suicido.»
«Mio zio non aveva nessun motivo per voler morire. Deve
essere stato un omicidio.»
William, senza accennare a perdere un solo grammo di calma e
ragionevolezza, accolse il viso accaldato di Anna tra le proprie mani;
aveva i palmi morbidi, la pelle fresca, e la sua carezza odorava di
inchiostro. «So bene come vi sentite, in questo momento. So
quanto state soffrendo.»
«No, non lo sapete...» mormorò Anna,
debolmente. Si tirò indietro. Le gambe trovarono la poltrona
e lei andò giù, seduta sulla sponda del sedile.
«Vi sbagliate» proseguì William,
chinandosi su i talloni, davanti ad Anna. «Avete dimenticato
che io conoscevo vostro zio sin da quando ero bambino. È
stato un parente anche per me. Un buon parente. Un parente amato.
Perciò non dubitate quando vi dico che non
passerà giorno in cui non mi rimprovererò di non
aver saputo indovinare la sofferenza segreta che lo tormentava. Ma voi,
Anna, non torturatevi. Nessuno ha ucciso vostro zio. Nessun assassino
misterioso è entrato da questa finestra, in una notte di
pioggia, senza lasciare nemmeno un’impronta sul pavimento. E
non ci sono passaggi segreti. Né colpi di scena. Non siamo
nella Rue Morgue. Questo non è un romanzo. È la
vita. E la morte giunge per motivi insondabili a noi umani. Arriva ―
arriva anche quando crediamo di aver, finalmente, il nostro epilogo
felice. Arriva e prende ciò che vuole.»
Anna si morse le labbra. «Non dovete spiegare a me come
funziona la morte. Ma questa volta ― almeno questa volta ― ho bisogno
di un assassino. Ho bisogno di qualcuno in carne e ossa,
perché―»
«Perché credete di poter lenire il
dolore, se aveste un viso contro cui
rivolgerlo. Perché adesso il dolore vi sta divorando. Giorno
e notte. Ogni minuto, ogni respiro, ogni pensiero ― non vi
dà tregua. Non vi date tregua.» William
coprì le mani di Anna con le proprie. «Se in
questi anni passati ho imparato qualcosa... datemi ascolto: non
inseguite fantasmi.»
«Fantasmi?» ripeté Anna, sottovoce,
colpita dalla parola.
«Fantasmi. Fantasie.»
«Fantasmi...» disse, ancora, Anna, in un sussurro
spento. Scosse il capo. Inspirò. «Posso avere un
bicchiere d’acqua?»
«Sì.... sì. Certo. Voi attendete pure
qui. Restate seduta e cercate di calmarvi.»
William uscì e Anna rimase dov’era.
Sfilò via i guanti, piano, prima il sinistro e poi il
destro. E stesa debolmente la mano, stette a guardare
l’anello.
E il cristallo si tinse di rosso.
Questa volta, davanti al responso che andava cercando pur temendolo
quanto la morte stessa, Anna non parve reagire. Abbassò la
mano, raccolse le dita e calò le palpebre sugli occhi
lucidi. «Fantasmi» esalò. E mentre il
viso si induriva in una maschera di apatica rassegnazione,
qualcos’altro nel suo sangue e nei suoi muscoli scalciava,
domandando di venir lasciato a briglia sciolta.
E Anna lo lasciò uscire.
William tornò: si era premurato di portare di persona il
bicchiere d’acqua, adagiato su un piattino. Trovò
Anna ancora seduta in poltrona. «Ecco. Ma del vino speziato
potrebbe giovarvi maggiorm―»
Il bicchiere s’infranse, il piattino andò in cocci
e l’acqua si sparse sul bel pavimento: William venne spinto
con violenza contro la libreria, cozzando la nuca contro il legno.
Anna lo teneva fermo: una mano serrata sul colletto della camicia,
l’avambraccio contro il petto e la punta di un tagliacarte
alla gola; l’aveva rubato dello scrittoio, mentre era sola.
«Che cosa avete fatto?» ringhiò,
espirando dal naso come un animale furioso.
William annaspò. Spalancò gli occhi per la
pressione contro il petto e il completo spaesamento: come lo strozzino
di Goudhurst Close prima di lui, non sembrava capacitarsi di dove
provenisse la forza che lo inchiodava alla parete.
«Di cosa andate parlando?»
«Tu ― e mia zia ― che cosa avete fatto? Che cosa
c’è tra di voi?»
«Non... non dovete dare ascolto alle malelingue. Qualunque
cosa abbiate sentito dire―»
«Siete il suo amante?»
Con una lama puntata alla gola, William ebbe la dignità di
sollevare il mento e indurire la mascella. «Non voglio
nemmeno rispondere a una tale bassa insinuazione.»
Anna lo lasciò andare così bruscamente che lo
scrittore, per un attimo, parve sul punto di perdere
l’equilibrio. «Ma, in qualche modo, voi siete suo
complice. Perché siete andato a trovarla, quando mio zio era
a Londra? Perché vi ha ricevuto nella sua stanza da
letto?»
William reclinò il capo contro la libreria, strofinando una
mano sul petto indolenzito. «Non sono affari che vi
riguardano» ribatté, a denti stretti.
«Ma davvero?»
«Davvero.»
Anna arretrò e indirizzò il tagliacarte verso
William. «Siete fortunato che io sappia bene quanto la
tortura sia inaffidabile, quando si vuole la
verità.»
William emise un verso scettico, a labbra serrate, a metà
tra un principio di risata e un colpo di tosse. «Fortunato,
sul serio, a trovarmi alla mercé di cotanta
civiltà. Avete mai preso in considerazione l’idea
di partecipare agli incontri di pugilato, in certe sudice bettole della
vecchia Londra?»
«Tenete presente questo: zia Woodhams non è mia
amica. E se voi state dalla sua parte, allora state contro di me. Se
scopro che avete a che fare con la morte di mio zio, vi farò
pagare le conseguenze. A tutti e due.»
«Chi siete voi per presentarvi in questa casa, accusare e
minacciare?»
«Sapete già chi sono, signor Hall.
L’avete detto ad Ada, una volta. Qualcuno da un altro
mondo.»
Piantò il tagliacarte sul tavolo. E si
voltò.
Fu solo la voce rancorosa di William a inseguirla.
«C’è qualcosa di anormale in voi, miss
Hawkins. Profondamente anormale.»
Anna oltrepassò l’uscio. ‘Non posso
darti torto.’ E scese le scale. Nessuno la fermò e
in un attimo fu fuori da Ellsworth House. I pochi domestici rimasero
ignari dell’accaduto e William, con uno sguardo serio, cupo e
consapevole, animato da profonda preoccupazione e nessuna paura, si
trattenne nella stanza del delitto. Tirò via il tagliacarte.
Poi, a passi lenti, raccolse dal pavimento i guanti di seta nera: erano
caduti quando Anna si era alzata di scatto dalla poltrona. Ed erano
stati dimenticati. Lui li strinse. E, di nuovo, guardò il
taglio inferto allo scrittoio.
*
A Bon Fleur, Anna trovò una convocazione, nel boudoir, che non poteva essere
posticipata neppure per il tempo di togliersi cappellino e soprabito. «Dove sei stata?» la interrogò la zia
Woodhams. La sua figura nero vestita occupava regalmente la dormeuse.
Stava ricamando: un fazzoletto nero, intrappolato nel cerchio del
telaio, e del filo rosso infilato nel sottilissimo ago. La gelida
pacatezza della voce, bassa e ferma, bastò a far comprendere
ad Anna quale intimo disappunto e preoccupante malumore avesse
instillato nell’animo della zia. Tuttavia, la mente di Anna era troppo poco presente, in quella stanza,
per potersene curare davvero. «Al cimitero. Alla tomba dello
zio» rispose, atona, ritta in piedi; il fuoco nel camino
dietro di lei, gettava la sua ombra sul tappeto indiano.
«Per l’intero pomeriggio?»
«Sono andata... a passeggio, poi. Lungo il fiume. Volevo...
speravo di distrarmi.»
«Se pensi che stare all’aria aperta possa giovare
al tuo stato d’animo, ti accorderò il permesso di
uscire un quarto d’ora al giorno, durante le ore
più calde, purché tu prima svolga prima i tuoi
doveri domestici. Ma non voglio che tu vada vagabondando per Maidstone,
o al villaggio, sotto lo sguardo di tutti. Il lutto deve esser vissuto
in privato. Da oggi in avanti, delle commissioni si occuperà
Lillian.»
Anna acconsentì alla prigionia facendo scena muta.
La zia continuava a ricamare. «E non credermi
cieca» aggiunse, a mo’ di monito. «Mi
rendo conto che, a modo tuo, dovevi essere affezionata a Walter. Ma
è nostro dovere non cedere alla debolezza, Anna.
‘Noi siamo tribolati in ogni maniera, ma non ridotti
all'estremo; perplessi, ma non disperati.’» In quel
momento, entrò Lily: portava il vassoio con il
tè; a testa bassa, spiando zia e nipote con la
coda dell’occhio, raggiunse lo scrittoio e mise
giù il vassoio. «Ma tu hai la sfortuna
d’aver ereditato una malsana inclinazione ai sentimenti
violenti» seguitava a pontificare la signora Woodhams.
«Jonathan era come te: tutto stomaco e niente testa. In
quanto alla donna che ti ha messo al mondo, è risaputo e
provato che la sua razza sia un crogiolo di viziosi. Tu sei come loro.
E si vede ora, nella difficoltà, più che in
passato. ― Lillian, osserva Anna: non pensi anche tu che la mia
disgraziata nipote mostri segni di logoramento?»
Chiamata in causa, Lily portò le mani dietro la schiena e
fissò l’orlo della gonna di Anna.
«Non saprei davvero dirlo, madam.»
«No, naturalmente. Tu non sai mai nulla»
sospirò la signora. «Ora: fuori.» E fece
gesto di uscire dalla stanza; gesto al quale entrambe le ragazze
obbedirono all’istante.
«Ma dove sei stata?» domandò Lily, in un
sussurro preoccupato, non appena lei e Anna furono in cucina.
«Dove sei stata veramente?»
«Non chiedermelo...»
«Ma sono preoccupata! Prima quella lettera e adesso sparisci
per ore e ore. E tua zia non ha torto, sai? Hai davvero una brutta
cera. Sembri stravolta.»
Ma Anna le dava la schiena; incrociò le braccia e
lasciò crollare le spalle. «Non... posso dirtelo.
Non capiresti...»
Lily arretrò di un passetto. «Vedo che almeno su
qualcosa tu e madam siete in accordo. Io sono solo una sciocca.
È risaputo che le cameriere si intendono soltanto di
argenteria e pettegolezzi.»
«Oh, smettila» Anna si volse di scatto.
«Lily..» Cercò la mano della cameriera.
La strinse, con fervore. «Lo sai che mi fido di te. Sei la
mia unica amica, qui.» Esitò. «Io... ti
dirò tutto. Solo ― non adesso. Adesso, devo chiederti un
favore.»
«Sì?»
«Dormi con me, questa notte. Non voglio che te ne stai da
sola nell’attico. Almeno per questa notte. Ti
prego.»
Lily batteva le palpebre nella più perplessa e intimorita
delle espressioni. Sospirò. Scuoté fiaccamente il
capo. «E va bene» balbettò.
«Io davvero non ti capisco, però se la cosa ti
farà calmare ― va bene. Per questa notte.»
Ma la presenza di Lily, raggomitola sull’altro lato del
letto, non ebbe alcun effetto benefico sui nervi di Anna. Lei stava
seduta, con le gambe tirate al petto e la schiena contro la testiera.
Aveva lasciato le tende spalancate e lo spettrale chiarore
dell’ultimissima falce di luna a malapena le permetteva di
distinguere le sagome dei mobili. Anna vegliò per tutta la
notte, fissando in cagnesco la porta, ascoltando il battito
del proprio cuore, il respiro leggero di Lily, lo scricchiolio del
letto.
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