Capitolo Primo
Benvenuti... Io sono Gowan.
Sarò la vostra guida.
Non siate sorpresi. Sono la persona giusta per il vostro primo giorno nel nostro mondo.
E' stato mio figlio a mandarvi da voi, quando ha saputo dove eravate diretti. Questo vi basta?
Sono lieto di
incontrarvi... Vi vedo sereni, sicuramente il vostro viaggio
è stato più tranquillo di quello che ho fatto io tanto
tempo fa. Quando ero solo un essere umano.
Ve ne hanno
già parlato? Ah beh... presumo allora di essere diventato un
personaggio interessante! No, tutti i particolari della mia vicenda non
potete conoscerli ancora, ma la strada per il villaggio è lunga,
avrò modo di soddisfare ogni vostra curiosità...
andiamo?
Fate bene
attenzione a seguirmi, perdersi in questa selva è un gioco da
ragazzi, non vorrei dovervi cercare ad uno ad uno. E spalancate bene
gli occhi; state per assistere ad uno spettacolo come non ne avete mai
visti. Vi dirò intanto che la luce che dà vita a
questa foresta non è come quella che conoscete nella
vostra terra. I suoi riflessi non sono bianchi e dorati, ma verdi
ed oscuri. Ogni raggio di sole filtra dai rami robusti di alberi
dalla circonferenza immensa e il profumo della terra e di mille arbusti
e fiori impregna un'aria quieta, in cui vivono tranquille creature
figlie di un’oscurità secolare.
Qui il
mezzogiorno non brucia mai; è un'ora in cui le ombre sono
leggermente più fonde, e la notte è solo un addensarsi di
brume onnipresenti.
Direi che una
certa sensualità aleggia ovunque, se le parole avessero
ancora, qua, il senso che mi avevano insegnato a dare loro
originariamente. Quando io ed Irkayn a metà giornata ci sediamo
a fumare davanti alla porta della sua casa, lasciando scorrere il tempo
e chiacchierando, non esiste volta che lentamente l'incantesimo della
natura e dei suoi colori, delle sue essenze, appena fuori dalle mura
del paese, Tethrinamon, non mi catturi la mente. Allora anche io
divento un vero figlio di questa selva e non rimpiango assolutamente
nessuno degli sbiaditi ricordi della realtà da cui
provengo, della mia vita anteriore. Se anche ne fossi in grado non
vorrei conservare immagini precedenti al momento in cui i miei piedi
iniziarono a percorrere, in esile equilibrio, un tronco sottile,
proteso sopra un abisso profondo e lanciato da una sponda
all’altra come una freccia.
Quell'arco
ligneo superava l'abisso con la grazia aerea ed indifferente del salto
di un destriero. Le sue radici, da un lato dello strapiombo, si
allacciavano alla roccia con forza, affondandovi profondamente;
dall'altro le sue fronde si mescolavano in complessi intrecci alla
vegetazione che vi cresceva.
Come vedete non
ho dimenticato niente, neppure un dettaglio, dei primi istanti della
mia nuova esistenza. Ed inconsciamente già mi chiedevo... come
ero finito là, chi o cosa mi aveva costretto a salirvi sopra?
Tutto quello che riuscivo a ricordare era una lunghissima, terrificante
caduta. Avrei potuto guardarmi indietro, verso il punto dal quale,
forse, provenivo... ma il mio istinto mi diceva di non farlo, di
scegliere di non vedere. Non sapevo niente di me in
quell’intenso, alienante attimo che fu per me una vera nascita; e
ben poco di più ho poi saputo, se non quello che mi
è stato riportato da altri. Sicuramente non fu la mia
volontà a farmi precipitare lontano dal mondo da cui venivo con
un volo spaventoso; angelo caduto, o demonio in esilio, cosa io fossi
non so, deciderete voi quando avrò concluso la narrazione di
questo... di questo mio “viaggio”... in
realtà passaggio dal nulla al nulla, dall'oblio immanente nella
coscienza alla sensazione della carne, appena nata e subito violata e
tormentata.
Ecco, da qui si
possono già scorgere i tetti delle case del villaggio.
Affrettiamo il passo, ho fame e sento anche i vostri stomaci borbottare
in modo poco amabile. Tra cinque minuti al massimo vi mostrerò
la mia casa, o meglio, quella del pedantissimo amico che dal giorno
della mia caduta mi ospita. (Anche se a volte lui preferisce parlare,
riferendosi a me, di “infestazione”...
sì... non è sempre gentile e raffinato come sembra,
il caro Irkayn).
No, nessuno vi
fermerà o vi farà domande all’ingresso del
borgo; ci siamo abituati ai visitatori. Le cose sono molto cambiate.
Sapete che ho un po’ di nostalgia dei vecchi tempi?
La nostra casa
è la prima che vedrete entrando. La noterete per le pareti di
pietra nera, su cui salgono rampicanti di rose bianche a non finire.
Osservate il colore particolare di quei fiori più piccoli, che
con decine e decine di viticci si stringono ai loro fusti, quasi
accarezzandoli, e sfuggono nell’incavo del loro abbraccio al
fulgore del sole; quel viola scuro non è certo casuale. Le
abbiamo volute noi così, sono “le rose del Vespero”.
Vi
racconterò dei miei primi ricordi, comunque. Mi condussero qua
in uno stato mentale confuso, con il corpo ancora pressato dal dolore.
Eppure, per quanto provato, si mescolarono subito nei miei sensi
lo stormire degli alberi ed il profumo dei fiori di questo stesso
giardino che state adesso ammirando… accompagnato da queste due
taumaturgiche sensazioni, come angeli alle mie spalle, varcai la
soglia che anche voi state oltrepassando in questo momento.
Io non ho
memoria della mia vita precedente, come vi ho detto. Quello fu per me,
appunto, il momento della nascita... sono stato presente ai miei
primi passi in questo mondo, come se fossi un po’ il padre di me
stesso. Perdonatemi quindi se talvolta mi concederò alcuni
istanti di silenzio, e magari mi perderò nei ricordi...
dicevamo?
Ah…
entrate tranquillamente, nessuno dei miei compagni è a casa
adesso. Sedetevi pure in cucina e servitevi di quel buon vino caldo che
ho lasciato sulla tavola per voi; a me basterà solo il tempo per
caricare bene la mia pipa preferita.
All’inizio
ci fu solo la sensazione di cadere. O, esattamente, di essere
trascinato dal vuoto verso l’alto ed il basso contemporaneamente.
Ma le direzioni in cui venivo smembrato erano in realtà molte
più di due.
Non esisteva
più per me la nozione del tempo, in modo che
potessi dire da quanto stessi precipitando, né una sola
luce che mi permettesse di calcolare una minima distanza. Freddo,
forse, che si mescolava alla sensazione cocente del terrore ed agli
artigli di QUALCUNO che sicuramente mi era vicino, ma invisibile, e mi
pungeva assalendomi da ogni parte. I suoi aculei sottili mi
trapassavano arrivando in profondità, scavavano famelici la mia
carne per poi ritirarsi in vista di un nuovo assalto.
Probabilmente
stavo per essere divorato, alla fine di quella discesa infernale. Se
questa è la morte, mi dicevo nei pochi momenti di
lucidità, molto più dolce non nascere mai.
Poi una bolla
mi inglobò all’improvviso mozzandomi il respiro. Mi sentii
pervadere da una tensione continua, come una corrente elettrica che mi
scuotesse incessante, senza mai trovare un punto d’uscita. Ero
diventato una sorta di polo magnetico, perché QUALCOSA
iniziò a turbinarmi intorno, avvolgendomi e soffocandomi. Era
come una scia farinosa. Le sue particelle avvicinandosi si amalgamavano
formando un nastro pastoso che chiudeva la mia bocca, le mie
narici, ogni poro del mio corpo. Soffocavo senza soffocare, quando in
realtà non potevo respirare, PERCHE' NON AVEVO UN CORPO CHE
POTESSE MORIRE.
Poi quel corpo
inesistente iniziò a gonfiare fino ad aderire alle pareti
vischiose della bolla, che resisteva a tutti i miei sforzi di aprire un
varco per scappare. Vi sembra troppo, vero? Rincuoratevi, perché
alla fine la bolla si infranse ed io ricominciai a cadere.
Ma il freddo
che sentivo in quel momento aveva un'altra natura, era vivo, si
contorceva e mi lottava contro. Più che cadere avevo
l'impressione di ergermi nudo davanti ad un'immensa caverna da cui
uscivano gelide, rabbiose folate di vento, il respiro ghiacciato di
qualche oscuro essere che cercava di respingermi indietro, nello spazio
vuoto della paura e della sofferenza.
ENTRARE NELLA CAVERNA, gridava la mia volontà.
Strisciai per
ore prima di arrivare, rannicchiandomi a terra quando sentivo il
bisogno di radunare le forze. E quando ne ebbi violato il grembo,
rotolandomi al suolo come un infame verme, l’oscurità si
dissolse e qualcosa ripartì… con uno scatto improvviso.
Apparve la
luce, apparvero immagini ancora troppo vivide per i miei occhi
semiciechi. Il mondo si ricreò intorno a me, il tempo
riprese a scorrere mentre io continuavo a tremare.
Ero sospeso
sull'abisso, steso inerme sopra quell' esilissimo braccio ligneo che
univa la parete di roccia dietro me alla terra fresca ed umida della
foresta davanti ai miei occhi. Il vuoto mi sibilava sotto, lo sentivo
benissimo; sibilava e mi chiamava. Tutto era immobile; tuttavia
il moto altalenante di quel richiamo, che attraversava la mia mente e
si ritirava come un'onda, mi dava le vertigini, soffocando la mia gola
in un vortice di nausea. Mi sollevai oscillando, ancora immerso in quel
delirante incubo; poi corsi, corsi verso gli alberi, gettandomi sopra
l'erba, ansiosamente stretto dal bisogno di toccare qualcosa di fermo e
solido, sfuggendo alle spire del nulla.
Ero fuori dal
pericolo... eppure non mi bastava la distanza percorsa, l'orizzonte
terso che splendeva sopra di me mi sovrastava come un'ulteriore
minaccia, smisurata e terribile come l'abisso da cui ero scappato. Ma
ogni forza dentro di me si era esaurita con quella corsa stremata.
Avvertii vicino suoni rauchi, animaleschi; si tramutarono in una risata
bassa, primordiale, quando mi accorsi che era stata la mia bocca ad
emetterli...
Non riuscivo ad
alzarmi? Avrei continuato a strisciare! Ansimando mi allontanai dallo
strapiombo, smuovendo il terreno fino a lasciare un profondo solco
là dove passavo. Mi fermai solo quando l'ombra del bosco mi
coperse totalmente, lasciandomi cadere seduto contro la corteccia di
un albero gigantesco.
Il mio respiro
raggiunse lentamente, davvero molto lentamente, un ritmo normale,
permettendomi di avvertire l’immensità del silenzio di
quel luogo, che dominava ovunque, arcano e maestoso. Il sibilo del
vento scivolava leggero tra fronde ed erba svolgendo volute
invisibili, fino a quando non mi raggiunse il suono di passi poco
distanti.
Mi si
avvicinarono in tre lungo la striscia polverosa del sentiero. I
miei occhi si serrarono quando mi accorsi che erano a pochi passi.
La sola
sensazione che conoscevo in quel momento, la paura, mi portava a
desiderare di evitare quel contatto. Avrei voluto nascondermi, ma ero
distrutto, senza forze. Sentivo ancora la morsa del buio senza confini,
dove un tempo imploso su se stesso aveva disintegrato ogni mio ricordo
lasciandomi spezzato dentro. Avevo in mente solo la furia
gelida sovrastante sopra di me, la caduta inarrestabile a cui non avevo
potuto opporre resistenza. La tempesta era forse cessata, ma io mi
limitavo a giacere come un gabbiano a cui avessero strappato le ali.
Il dolore
partiva dal mio stomaco, dalle mie viscere, e si estendeva a tutto il
resto del corpo, pulsando disarmonico come un cuore ferito. Tentavo di
attenuare quei lampi di sofferenza che mi scivolavano dentro come gocce
di acido per poi schiudersi come fiori maligni, chiudendomi su me
stesso come un istrice.
Freddo e nausea
mi incatenavano i sensi impregnandoli; tenevo le palpebre
abbassate, credendo di conquistare in quel modo una stasi nella mia
precedente agonia. Temevo che aprire gli occhi sarebbe stato magari
rinascere ad una lentissima morte.
Fu il mio udito a tendersi, vigile, ed a cogliere ogni particolare di quelle presenze ormai prossime.
Voci che si alzavano tranquille, una cantilena gioiosa.
La melodia di un canto femminile. Una seconda percezione, meraviglia, sorpresa, entrò nuova nella mia mente.
Sollevai appena
il capo, avvertendo ancora le pulsazioni lancinanti di una fascia di
nervi doloranti che mi attraversava il collo, e vidi per la prima volta
la foresta, il suo manto di smeraldo, il pensoso fremito degli alberi,
le fiammelle lucenti del riverbero solare tra i rami.
Tre macchie
brune crebbero, avanzando dentro lo sciame di colori in fondo ad una
radura lontana fin quando ci potemmo scorgere a vicenda; una madre che
teneva i propri piccoli stretti al fianco, le piccole mani che
ghermivano le sue dita, intrecciate insieme come steli in un arbusto
intricato di rose. Si fermò ad osservarmi mentre la voce,
gentile ed esitante, scivolava fuori dalle sue labbra, dominata
dall’impossibilità di inquadrare lo strano essere che
aveva davanti, abbandonato come una marionetta tra le grosse radici di
un ontano.
Nel suo linguaggio sconosciuto, che a me suonava come un’acquosa armonia, mi blandii ancora due o tre volte...
Strano. Non
capivo il senso delle singole parole nelle sue frasi, ma questo mi
permetteva di afferrare meglio le sue emozioni, i timori che sentivo
vibrarle dentro. Poche sillabe, acuto uncino con cui cercava di
infrangere il mio silenzio, la mia stanchezza.
Era in piedi,
intercettando la luce che veniva dall’alto, da quel labirinto
verde lussureggiante, dissolvendosi sul terreno in un tappeto di
coriandoli colorati. Osservavo il suo volto e non vedevo nulla di
familiare negli occhi leggermente a mandorla, nel suo naso piccolo e
diritto, nella sua pelle color dell’ambra. Non ricordavo niente,
non avevo neppure cognizione sicura di come dovesse essere la mia
faccia, ma presentivo che quella creatura fosse di una razza diversa
dalla mia.
Le rivolsi una
smorfia di diffidenza, prima di chinare ancora la testa tra le braccia.
Altri arrivarono, e nessuno si avvicinò a me più di
quanto si fosse avvicinata la giovane madre, che intanto era arretrata
leggermente, un passo dopo l’altro. Uno di loro, più alto,
sembrava avere autorità sul piccolo gruppo; mi osservava con
tristezza e qualcosa che poteva, sì, avrebbe potuto essere
comprensione... ma perché ero là, tra esseri di una
razza che non avevo mai visto prima? Chi mi aveva trascinato in quel
luogo? Loro? O qualche loro simile? Cosa ero, cosa stavo facendo prima
di giacere così stordito, come se fossi la preda sfuggita
miracolosamente ad una lunga caccia?
Mi invitarono,
a gesti, a seguirli, ma mi rifiutai. Solo quando si allontanarono da me
per inoltrarsi tra gli alberi la paura di rimanere solo mise a tacere
la diffidenza che mi ispiravano quegli esseri così strani. Li
seguii sempre mantenendo una certa distanza e mai camminando in
linea retta, come un animale selvatico. Notai che, stranamente, il mio
corpo era privo di ferite o contusioni. Avrei potuto pensare che tutta
la mia precedente esperienza fosse stata un’allucinazione se i
miei vestiti, o quello che ne rimaneva, non fossero stati ridotti a
piccoli brandelli. Come se, appunto, fossero stati lacerati da qualche
animale. Ma perché allora ero illeso?
Le mie guide,
mentre ero intento a farmi queste domande, erano intanto entrate nel
fitto del bosco. Ridussi la distanza tra me e loro per non perdermi,
fino ad affiancarli. I piedi, che solcavano il terreno senza
nessuna protezione, cominciavano a farmi male. Il cammino verso le case
di quelle che io non potevo definire altrimenti che “le
creature” non fu breve; due o tre volte si fermarono a farmi
riposare, offrendomi acqua ed un liquore leggero dello stesso colore
della birra ma più dolce, che uno di loro portava dentro una
grossa borraccia messa a tracolla sulla schiena. Seguivamo il corso di
un fiume di cui sentivo lo scroscio senza vederlo, perché il
letto in cui scorreva doveva trovarsi molto più in basso
del nostro sentiero. Ecco, mi sarebbe piaciuto tuffarmi in quelle acque
fresche, togliermi i brandelli di tessuto che mi pendevano addosso e
dare refrigerio alla pelle. Mi avrebbero vestito come loro? I maschi
del piccolo corteo erano uniti da una strana uniformità,
portavano quasi esclusivamente tessuti di color nero, e quello che
sembrava essere il capo, una collana d’argento con perle
incastonate. Ciascuno dei tre aveva con sé una grossa bisaccia
semivuota, che mi faceva supporre che fossero reduci da una marcia di
alcuni giorni, ma non avevano armi con loro, a parte una lancia
ciascuno. Un arco con faretra pendeva dalle spalle di quello che
esercitava autorità sugli altri due; il ragazzo biondo che
mi aveva osservato con pena quando mi avevano, diciamo così,
“rinvenuto”.
Gli altri due,
che a malapena mi consideravano, erano di ben poco
più anziani, con capelli rossicci, alti e massicci nella
corporatura. L’esiguo corredo di cui si erano muniti per il
viaggio mi faceva intuire che quelle terre fossero pacifiche, e chi mi
accompagnava privo di nemici naturali. La voce del torrente era
divenuta lungo il nostro cammino più forte, come se la distanza
che ce ne separava fosse diminuita: il bosco si era fatto meno fitto,
segno che ne stavamo uscendo. Vedevo una valle profonda alla nostra
destra, monti oltre il suo dislivello ed una montagna altissima in
fondo, con un diadema di ghiacciai sulla vetta.
La strada
iniziò a declinare leggermente; adesso camminavamo
giù per il pendio del monte su cui ci trovavamo, diretti ad una
vicina ansa del fiume piegata a gomito. Laggiù si trovava
un villaggio, tutto racchiuso in un recinto di palizzate. La madre ed i
suoi piccoli erano scomparsi; sicuramente ci avevano preceduto, non
avendo effettuato nessuna delle nostre soste. Io intanto ero riuscito a
recuperare un po’ di forze; affrettai il passo verso quella che
sembrava essere la nostra tappa finale. Avvertivo il fluire di una
tranquilla energia, emessa forse da quelle creature o da qualcosa che
mi circondava; una forza che mi aveva rasserenato. Ero davanti a
qualcosa di sconosciuto, ma adesso le mie reazioni erano quelle
di un bambino, curiosità ed impazienza; condividevo lo stato
d’animo di un animale sempre vissuto in cattività, che si
vede spalancare davanti uno spazio immenso, senza catene od ostacoli.
C’era
qualcosa, in quel mondo ed in quella gente, che ti faceva stare bene
anche quando tu non volevi. Dalla cima del monte scendeva una brezza
dolce, ricordo ancora adesso, un mare di foglie stormiva al suo
passaggio, arrivava veloce, come una carezza tra i capelli.
Chiusi ancora
gli occhi, non più per paura ma per fermare nei miei ricordi
quei momenti. Quando li riaprii altre cinque paia di occhi mi stavano
osservando: cinque creature che sostavano davanti all’arco
d’ingresso al paese, sempre abbigliati con quegli abiti neri con
intarsi d’argento.
Seduti sopra
una lunga panca di pietra ed intenti a scambiarsi da una bocca
all’altra due sole pipe, confabularono con i miei tre
accompagnatori di un argomento per niente misterioso; era della
mia inspiegabile apparizione che parlavano, lo capivo benissimo.
Mi sembrava comunque che la voglia di occuparsi del mio destino fosse
per quelle sentinelle rarefatta come il fumo che soffiavano a larghe
volute dalle narici.
Uno di loro mi
segnò a dito, poi scrollò le spalle ed
indicò una grande casa nera all’inizio del
villaggio, tornando poi a preoccuparsi che la divisione dei turni
per fumare fosse equa.
Così non restava che scoprire chi vivesse nella casa che avevano indicato.
Varcammo la
soglia del grande cerchio ligneo che racchiudeva bellissime dimore,
disposte, come avevo visto dall’alto, senza uno schema apparente.
Le porte si aprivano in diverse direzioni; non si scorgeva né
una piazza né altro luogo che fosse fulcro di vita comune. Tra
le case vedevo soprattutto giardini ed orti, separati solo da sottili
sentieri per il cammino. E tanti, troppi alberi di salice.
Uno di questi
alberi, ad esempio, notevole per imponenza, si trovava nel giardino
della casa verso cui eravamo dove eravamo diretti. Seduto sotto quel
salice c’era un ragazzo intento a leggere un libro.
Quelle creature
sembravano tutte così giovani... dove erano finiti i
vecchi, gli anziani? Il ragazzo aveva uno sguardo attento e sveglio, i
capelli, lunghi e neri, scendevano inanellati fino alle spalle. Mentre
leggeva giocava con le dita con il monile della sua collana, una stella
di perle ed argento.
Quando ci vide
lanciò il libro a terra e corse dall’arciere del mio
gruppo. Si salutarono abbracciandosi e si misero a parlare. Alla fine
il ragazzo con i capelli scuri scosse la testa e mi fissò,
iniziando a tracciare dei segni sulla mia fronte, accompagnati da una
litania ripetitiva. Accostò la sua fronte alla mia, e mi
accorsi che improvvisamente riuscivo a capire le loro frasi.
Lui mi sorrise,
stregato dalla mia presenza. «Tu dunque sei un umano… sei
una creatura leggendaria, lo sai? Credevo che non sarei mai riuscito ad
incontrarne uno in tutta la mia vita!».
«Onoratissimo… ma se io sono leggendario, tu che cosa sei?»
«Io sono un mecharys, un Immortale. Mi chiamo Irkayn» rispose inchinandosi.
«CHE COSA SARESTI TU?».
«Io sono un Immortale, ti ho detto».
Mi tirai su in tutta la mia altezza, con uno scatto.
La mia voce
adesso era stridula ed il mio sguardo irato si volgeva tanto su Irkayn
quanto sulla fila di “creature” dietro di lui, soprattutto
femmine, alcune delle quali arretrarono subito. Una ragazza bionda,
vestita con abiti maschili, si mosse subito nuovamente avanti,
cercando di mostrare un ultimo sussulto di coraggio. Le mostrai
i denti, come una bestia pronta a mordere. Ci ripensò,
sicuramente, perché fece anche lei un altro passo
indietro.
Irkayn mi
fissava severo. I suoi occhi si socchiusero, come se la mente che
vi stava dietro cercasse di sondarmi. Intuivo il suo pensiero; era
convinto che avrei avuto bisogno di essere domato.
Era bene che
capissero invece che non ero assolutamente disposto a farmi
mettere le briglie da nessuno; una necessità vitale, che
mi fece insistere nel mio atteggiamento di sfida ad oltranza.
«ANDIAMO
BENE! SONO PASSATO DA UNA DIMENSIONE ALL’ALTRA, SONO STATO
AFFERRATO DA ESSERI INNOMINABILI CHE MI HANNO QUASI FATTO A BRANDELLI,
SONO PIOMBATO A TERRA CON LE OSSA ROTTE, E TUTTO QUESTO PER FINIRE IN
UNA STUPIDA, DANNATISSIMA FIABA PER BAMBINI!»
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