“Disturbia.”
A volte riuscivo
ad acquistare lucidità, una scarsa cognizione del tempo e
del luogo che mi
permetteva semplici riflessioni sul mio stato nel lasso di pochi minuti
delucidanti.
“Cosa
mi sto
facendo?” mi ponevo quasi sempre domande stupide e
scontate, raccogliendo
il mio cervello dentro un'ampolla di vetro ed osservandolo al
microscopio,
sprecando così quel poco tempo di sanità mentale
che mi veniva concesso. Ma in
realtà non mi sentivo malata. Se qualcuno me l'avesse
chiesto - se solo
qualcuno avesse avuto il coraggio di chiedermi se stessi bene - non ne
avrebbe
sicuramente ricavato niente. Oh, tutti avevano fin troppa paura di me e
di quel
che nascondevo, lo sentivo. Le occhiate di Matteo erano ogni giorno
più
eloquenti ed i suoi baci più dolci, ma in ogni caso ero
preparata a stamparmi
un grosso ed ingombrante sorriso sulle labbra secche; bocca che in
qualche modo
riuscivo a disprezzare perché troppo falsa, e con voce
squillante a rispondere
che sì, andava alla grande. Forse ne ero veramente convinta
- stavo bene, mi
sentivo bene, sarei stata bene. Che
assurda bugia.
A volte non ero sola,
continuamente circondata e piena
di persone attorno; gente che si ostinava ad occupare i miei spazi ed a
violentare la mia anima senza chiedere alcun permesso. Prima di Matteo,
l'odio
verso gli altri era stato una mia prerogativa, poi la sua tenerezza era
forse
riuscita ad addolcirmi, sciogliendo le mura solide del mio stanco
cuore. Senza
di lui arrivavo quindi a desiderare spesso la solitudine, magari anche
solo un
attimo vuoto e nero, completamente nullo.
Ne avevo bisogno.
Mi rinchiudevo solitamente nella mia camera disordinata - un piccolo
scantinato
confortevole ed inizialmente ben arredato, che avevo provveduto a
personalizzare nella peggior maniera - chiudendo con violenza voluta la
porta e
buttandomi a capofitto nel letto disfatto ad una piazza e mezzo che
ogni notte
raccoglieva i miei disturbi. Poi piangevo.
Piangevo perché forse non trovavo altra via di
fuga dal silenzio che,
quella stanza che sentivo fin troppo mia, mi regalava. La odiavo in
maniera
viscerale, riuscivo ad elencarne tutte le crepe ed i difetti di
struttura: la
composizione degli arredamenti confusionaria, il tetto troppo basso ed
i muri
poco opachi. Il mio odio si fermava però ad un livello
minimo, quasi
ignorabile. In fondo tutte le mie attenzioni ed il mio disprezzo si
indirizzavano completamente verso il grandissimo specchio che si ergeva
come
copertone dell'armadio a due ante posto nel bel mezzo della camera,
dove
riponevo da sempre i miei pochi ed usurati vestiti. L'avrei distrutto
perché mi
apparteneva; ed io disprezzavo proprio tutto, di me.
A volte dicevo tante bugie, avevo
imparato a rapportarmi
con gli altri in conseguenza del mio stato fisico e mentale - in
famiglia, con
gli sconosciuti o con gli amici, che differenza poteva fare? Non
distinguevo
più nulla; il bene dal male, il giusto dallo sbagliato. La
mia vista si
offuscava ogni giorno di più, attuando un lento degradamento
interiore che non
riusciva a destabilizzarmi.
“Niente
più
legami. ” mi dicevo, costringendomi a comportarmi
in sgradevoli maniere,
che non mi si addicevano affatto. Tagliare i ponti col resto del mondo
era
stato più facile del previsto, ma a rovinare tutti i miei
piani c'era sempre
stato lui. Matteo che mi sorrideva, Matteo che mi baciava. Matteo che
ritornava
e perdonava con un non nulla. No, non ero malata e continuavo ad
esserne
convinta - non ero malata, anche se il mio pranzo veniva costituito da
una
frutta secca o da qualche schifezza, oppure si evolveva in abbuffate
immani che
venivano poi rigettate dentro ad un cesso lurido insieme a
metà dei miei succhi
gastrici. Avevo oramai imparato a sillabare in modo convincente quelle
poche
frasi che mi servivano per raggiungere il mio scopo; “non
ho fame” oppure “ho
mangiato prima”. Ylenia era quasi
felice
davanti all'ossessionante evidenza delle sue costole sporgenti,
ricoperte da
smilza pelle raggrinzita e continuamente in bilico tra lo spezzarsi o
no.
Nemmeno mi pesavo; il fatto che le mie ossa riuscissero quasi a
trapassarmi la
cute bastava a farmi sentire fin troppo soddisfatta di me stessa.
Però non mi
credevo bella, non ancora.
A volte avvertivo sensi di colpa.
Erano attimi che
riuscivano a trasparire dalla mia mente quando mamma mi scoppiava in
lacrime
davanti, reprimendo a stento urli e gemiti di dolore di fronte al mio
corpo
sfatto. Oppure quando vedevo papà trattenersi nel tirarmi
uno schiaffo, con la
mano destra già alzata e pronta, ma con l'evidente paura
negli occhi di
arrivare a potermi uccidere grazie solo ad un semplice tocco. C'era poi
il
contatto col resto del mondo che ogni giorno scemava insieme alla mia
perdita
di peso ed uno specchio spezzato; c'era sangue sulle lenzuola e c'ero
io,
magari nemmeno più umana, raggomitolata come un piccolo
fagotto dentro a
vestiti di tre taglie più grandi.
Non so, forse non avevo nemmeno
più una forma - ho
evitato di fotografarmi sin dal primo attimo in cui ho deciso di
smettere di
mangiare. Cercavo di migliorare me stessa perché porsi degli
obbiettivi è nella
natura umana, ma mai avrei pensato che potessero essere o divenire
così sbagliati.
In fondo erano i miei, avrei dovuto capirlo dall'inizio; non sono mai
stata nel
giusto.
A volte mi sono sentita felice.
Riuscivo a sentirmi un
po' più calda all'interno quando mia madre, dopo aver
inscenato il suo
personale dramma quotidiano che ripeteva con costanza, tirava fuori un
sorriso
forzato ma tuttavia dolce e tenero, facendomi capire che sì,
stava soffrendo,
ma mi voleva ancora bene. La mia condotta era marcia e perfida, non lo
nascondevo. Riuscivo a pensare solo a me stessa, ai miei problemi ed al
mio
interesse, fregandomene di quel che mi circondava e del dolore che le
mie
azioni scaturivano nel prossimo. Ma ero allegra per davvero, quando
Matteo mi
cercava entusiasta, dopo interi mesi passati ad ignorarlo con il
semplice
obbiettivo di staccarlo del tutto da me - ma non ce l'avevo proprio
fatta, a cancellare
il suo sorriso. Arrivava con una piccola rosa rossa in mano ed un
colorato
pacchetto di cioccolatini incartato con cura; i miei cioccolatini
preferiti, e lui
lo sapeva. Il nostro tempo scorreva tra parlate nella mia camera,
piccoli baci
a fior di labbra ed inconsueti imbocchi di dolci. Poi, verso
metà giornata,
cominciavo usualmente ad avvertire un leggero candore farsi spazio ad
illuminare il nero profondo che mi portavo dentro: bastava un tocco di
labbra, solo
quello. La sua bocca lievemente pigiata sulla mia e magari un'altra
delle sue
risate, macchiate di amaro cioccolato fondente.“Resta
con me per sempre.” avrei voluto e dovuto dirgli.
Quelle
parole che mi premevano nella giugulare; sapevo che mi avrebbe detto di
sì,
eppure non fiatai mai. Fantasticavo a lungo su quei nostri pomeriggi
strani, di
come avrei potuto prolungarli più a lungo - avremo potuto
dormire insieme, mano
per la mano in quel letto insanguinato, se solo avessi parlato. Poi il
sogno
finiva e lui se ne andava, con un'altra promessa cicatrizzata nel
cuore. Ed io
andavo a vomitare il suo - nostro - amore liquido fuso ad amara
coscienza
dentro al cesso.
A volte mi chiedo ancora
perché non ne sono morta. Ho
sempre creduto nel destino, che ogni essere umano avesse un non so che
di
prestabilito. Fondando la mia esistenza su tale pensiero, io me lo
sentivo: sarei
morta in poco tempo. I motivi potevano essere vari; magari per
un'emorragia,
per colpa di uno stupido conato doloroso. Ero arrivata a quel limite
che, se
sorpassato, avrebbe segnato una spessa linea di non ritorno al di
là del mio
cammino. Lo percepivo quando mi svegliavo la mattina - il corpo
indolenzito e
il non riuscire nemmeno più a camminare. Chiari segnali,
credevo.
Anche quel giorno, mentre
rimettevo la mia anima,
sentivo che quella avrebbe potuto essere la mia agognata volta buona.
Molto
probabilmente quel periodo fu il peggiore; avevo una grande voglia di
scomparire e basta - non di morire, solo scomparire. Mi scordavo di
tutto,
dormivo quasi sempre e ingerivo solamente acqua e snack salati. Mi
ricordai
dell'imminente visita di Matteo solo quando un tonfo sordo mi distolse
dalla
mia principale attività; il suo
sorriso che scompariva ed il pacchetto di cioccolatini sparpagliato per
terra.
Mi sentii come una di quelle leccornie rovinate, spiaccicata contro le
mattonelle fredde ed in procinto di essere buttata. A costo di passare
per
pazza, quell'immagine mi ricordò molto me stessa - spezzata,
degradata e da
cestinare. “Non guardarmi, non
guardarmi!” urlavo nella mia testa, senza quindi
emettere alcun suono,
mentre il suo sguardo si faceva sempre più duro e la mia
autostima cascava in
mille pezzi. Il silenzio che lui stesso creò divenne in poco
tempo più
tagliente di qualsiasi altra lama che avesse avuto il piacere di
sbranare il mio
corpo; come un coltello affilato che si divertiva a fare giri
concentrici
dentro al mio polmone sinistro o destro, non poteva fare differenza.
Pensai di
morire solo per mano del suo sguardo, sì. Il suo sguardo che
mi rifiutava ed
urlava disprezzo - urlava così tanto che mi sentivo le
orecchie in procinto di scoppiare.
Lo guardai lacrimante, perché non riuscivo veramente a fare
altro.
<<
I can't remember the last time I've seen my own eyes, or the color of
my skin.
Do you know what it's like to feel ugly all the time?* >>
A volte riesco magicamente a
ricordare il suo volto
rilassarsi di scatto, di fronte a quelle mie parole dettate da
disperazione e
paura. Rivedo quegli occhi che tanto amavo farsi di nuovo dolci,
abbandonando
lo sconvolgimento del momento. Tutto merito delle frasi che mai ero
riuscita a
pronunciare prima - fiele che avevo nascosto sempre, perché
parlare mi avrebbe
sicuramente fatto fin troppo male. Nascondermi era il mio mestiere,
velare i
miei sentimenti una specializzazione.
Ma le dissi; riuscii
straordinariamente a farlo, magari
grazie alla sua espressione arrabbiata - non volevo che mi odiasse, non
avrei
potuto sopportarlo. Io ci vivevo, di lui. Potei quindi avvertire il mio
corpo
rabbrividire, sentendo distintamente le sue mani e lo spostamento
d'aria che
provocarono quando riuscirono a pigiarsi appena sui miei fianchi
striminziti,
ancorandomi con delicatezza e trasportandomi tra le sue braccia senza
alcuna
fatica. A quel punto pensai di poter volare, davvero.
A volte avverto ancora le sue
parole riecheggiarmi in
testa - in quella piccola parte della mia mente tuttora fragile e
malmessa, che
ha costantemente bisogno d'aiuto. Si ripetono spesso, riproducendo a
random il
giusto tono che serve, a mo' di tenera litania. “Torna a casa, Ylenia.” mi
sussurrò lievemente in un orecchio in
quell'istante magico, un suono quasi inudibile.
Ma il suo bisbiglio fu più che recepito. Ylenia ritrovò subito la strada di casa.
Aveva camminato a lungo
tempo per un percorso selvaggio lungo e tumultuoso, costeggiato da lupi
feroci
ed erbacce velenose. Aveva toccato con il piede destro la linea di non
ritorno
- sì, c'era arrivata e non se n'era curata più di
tanto. Ma poi era riuscita a
ritirarlo con cautela, seguendo incantata il mormorio sommesso di
Matteo e sorridendo
appena. Eppure si sentiva debole, Ylenia - forse l'entità
che l'aveva
sostituita era solo un fragile spettro senza sostanza e concretezza. Forse era il niente.
A volte ripenso a quel giorno,
magari annebbiando di
poco gli sgradevoli attimi precedenti e puntando tutta la mia
attenzione su di noi.
Cerco di percepire alla meglio i suoi muscoli guizzanti a contrasto con
il mio
corpo, focalizzandomi sul percorso che per un momento facemmo mentre le
sue
braccia mi stringevano ancora con leggerezza, totalmente attente a non
farmi
male. Riesco soddisfacentemente a rimembrarmi tutto di quell'attimo in
cui
capii quanto fossi stato stupida e totalmente cieca, di quanto avessi
sprecato
il mio tempo e soprattutto consumato il mio cuore.
Perché fu proprio
quando passammo davanti ad uno dei
tanti specchi di casa mia che ancora non ero riuscita a rompere -
proprio
davanti a quello specchio che avevo continuato ad odiare - che ci
riflettemmo,
forse per un secondo o anche meno. Osservai per la prima volta dopo
tanto tempo
la mia figura, la mia fotocopia. Molto probabilmente con remore, forse
con
paura; ma in quell'immagine non vidi me, non vidi un mostro e non
provai
disgusto. Lì
c'ero io, c'era Matteo.
C'ero io e c'era Matteo. C'eravamo noi. Noi, stretti e fusi in qualcosa
che sì,
sembrava essere infinitamente bello. A volte - adesso - ho capito. Ho
capito
che quel che stavo cercando, era sempre stato al mio fianco. Ed io non
me ne
sono mai accorta.
Note:
* “Non riesco a
ricordare l’ultima volta in cui ho visto
i miei occhi, o il colore della mia pelle. Sai
com’è sentirsi brutti tutto il
tempo?”
Citazione
dei “From First To
Last” dalla canzone “Waltz Moore”.
Ascoltatela, perché ne vale la pena.
Ciao,
a chiunque abbia letto.
Questa storia l’avevo già pubblicata nel lontano
2009, con il titolo “Waltz
Moore” e con una trama leggermente diversa. Poi recentemente
ho deciso di
modificarla e ripubblicarla. Ci tengo molto ed ha tematiche personali;
chi ha
vissuto un disturbo alimentare sa quanto sia importante riuscire a
vomitare
fuori tutta la merda che hai dentro. Non è facile.. ma alla
fine può fare star
meglio. Per me è stato così. Grazie di aver
letto, chiunque tu sia, spero di
essere riuscita a smuovere un po’ il tuo animo.
AintAfraidToDie
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