Il sicario che voleva diventare uno scrittore

di violaserena
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PROLOGO

Non si può scegliere il modo di morire. O il giorno. Si può soltanto decidere come vivere. Ora.
John Baez

 
Il cielo era grigio.
Le persone correvano da un lato all’altro della strada.
A ogni angolo spuntava qualcuno che vendeva ombrelli.
Stava piovendo.
Un ragazzo, seduto da solo in un piccolo bar del centro cittadino, leggeva con attenzione.
«Leggi sempre quel libro, ragazzo? È così interessante?» domandò un uomo sulla quarantina con uno strano cappello a cilindro.
«Lo è. L’ho già letto tantissime volte» rispose educatamente il giovane.
«Ci sono molte storie nel mondo che sono di gran lunga più interessanti di quella. Comunque, dov’è la terza parte?».
«Non ce l’ho. L’ho cercata e ricercata, ma non l’ho mai trovata».
«Ora torna tutto. La terza parte di quella storia è il peggio del peggio. Dovresti considerarti soddisfatto con solo le prime due parti. Lo dico per il tuo bene».
Il ragazzo guardò stupito l’uomo e poi scosse la testa: «Temo di non poterlo fare».
«Allora scrivila tu».
«Scriverla io?».
«È l’unico modo per preservare la perfezione di quella storia. Scrivere una storia significa scrivere di una persona e di come quella persona dovrebbe vivere e morire. Da quello che ho visto, hai i requisiti adatti per farlo».
«Tu chi sei?» domandò con una strana punta di interesse. Quell’uomo sconosciuto aveva risvegliato in lui qualcosa, anche se non sapeva cosa.
«Io? Il mio nome è…».
Aprì gli occhi.
Si alzò lentamente dal letto e guardò l’orologio. Erano le 8:30.
Ripensò a quello che aveva appena sognato o sarebbe meglio dire ricordato. Erano passati dieci anni da quel giorno. All’epoca aveva solo ventidue anni. Il tempo era passato davvero in fretta.
Non aveva più rivisto quell’uomo, ma le sue parole si erano impresse per sempre nel suo cuore. Non avrebbe mai più potuto cancellarle. Mai.
Si portò le mani alla testa.
Come si chiamava quell’uomo?
Cercò di far riaffiorare i suoi ricordi, ma per quanto si sforzasse proprio non riusciva a ricordare il suo nome.
Forse non era quello il momento giusto.
Si lavò e si vestì rapidamente, poi uscì.
Notò con piacere che dopo una intensa settimana di pioggia era finalmente uscito il sole. La temperatura era più alta del solito, tanto che non sembrava di essere a fine novembre.
Comprò il giornale e dopo aver letto rapidamente i titoli – dalla morte di Fidel Castro alle discussioni sul referendum alla vittoria del Torino sul Chievo – guardò le pagine dedicate alla cronaca cittadina. In particolare fu attratto da un articolo, quello riguardante l’inabissamento del battello Valentina.
Forse era stata la parola “sognare” riportata nel titolo a spingerlo a leggerlo:
A prima vista, ormeggiata ai Murazzi, Valentina strappava un sorriso, per via di quei cartelli piantati sul molo in pieno stile burocratese GTT che te la facevano equiparare a un qualsiasi autobus terrestre. Ma con tutta evidenza, chi prendeva Valentina non doveva né voleva andare da nessuna parte: sperava solo di perdersi in un’avventura urbana, cullato dalla corrente. Perché alla fine il miracolo consisteva in questo: potersi immaginare la realtà quotidiana da un altro punto di vista che solo il fiume ti consente, con la sua lentezza e la sua alterità rispetto al ritmo metropolitano. In questa chiave, il naufragio dei battelli per la navigazione sul Po assomiglia alla cancellazione di un sogno o quantomeno della possibilità di sognare. Chissà cosa stabilirà l’inchiesta: se si appurerà una colpa specifica o se si ascriverà il disastro all’ineluttabilità delle forze naturali. Ma in fondo non importa. Comunque sia, sarà la sanzione di una sconfitta. Ci è stato tolto uno strumento di fantasticazione, la chance di una fuga innocente. Oppure, se vogliamo questo evento come una metafora, le implicazioni sono ancora più inquietanti. […] Naturalmente le metafore sono immagini da interpretare. Questa città (chiunque la governi) ha le risorse per venire fuori dalla sua crisi. Ma sembra evidente che un ciclo nella storia di Torino si è chiuso. E la fine sta lì, nella fotografia di quella barca a pancia all’aria che prima si è ribellata alle ancore che la trattenevano; poi a chi la voleva ingabbiare in un salvataggio mal congegnato; e che infine ha sceso libera il fiume, valicando quel limite che non le era mai stato consentito oltrepassare. Un naufragio che è anche un gesto di ribellione. E in questo senso la metafora diventa anche l’ipotesi di un’utopia liberatoria. Forse anche noi, prima o poi, dobbiamo strappare gli ormeggi. Arrivederci, Valentina. E grazie.
Finito di leggere l’articolo, provò una strana sensazione, uno strano senso di identificazione con Valentina. Forse, dopo tanto tempo, era arrivato il suo momento. Forse anche lui sarebbe stato libero.
Proprio in quell’istante suonò il cellulare. Guardò il numero e subito l’euforia che aveva provato si spense.
Voleva bene a quella persona. Era probabilmente uno dei pochi amici che aveva. Ma era anche l’incarnazione della sua prigionia, il simbolo di quella realtà da cui voleva allontanarsi per poter essere quello che – dall’incontro avvenuto dieci anni prima con quell’uomo – aveva desiderato diventare: uno scrittore.




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