La
pioggia scendeva copiosa da ore e secondo le previsione metereologiche avrebbe
continuato ancora per giorni. Uscendo dalla fermata della metropolitana la
ragazza sollevò il cappuccio e aprì immediatamente l’ombrello allo scopo di
evitare anche la più insignificante delle gocce d’acqua.
La
stazione di Baker Street era sorprendentemente trafficata, per motivi che lei non
riusciva a comprendere. Doveva ancora abituarsi all’aria di Londra, così come
al suo caos perenne, alla moltitudine di persone presente ovunque, al clima di
insicurezza che aleggiava delicato ma costante nei luoghi più affollati.
Superato
l’ingresso della stazione ed evitata la folla maggiore, la ragazza e il suo
ombrello giallo proseguirono lungo Baker Street con passo insicuro per i cinque
minuti che separavano la metropolitana dal numero 221B.
Appena
ebbe raggiunto il noto indirizzo si bloccò, osservando la facciata e la porta
d’ingresso oltre l’ombrello. Ripensò mentalmente a quello che avrebbe dovuto
dire; aveva preparato un discorso che secondo lei poteva funzionare, eppure
ogni volta che tentava di ripeterlo qualcosa cambiava e, soprattutto, le
sembrava perdere di senso. Respirò a fondo, eliminò l’aria in eccesso e si
abbassò il cappuccio. I capelli mossi, gonfi, rossi come ciliegie, le
scivolarono sulle spalle del cappotto nel momento esatto in cui lei prendeva
forza e colpiva la porta con il battente.
Aspettò
un po’, sempre sotto la pioggia, con il cuore che le martellava contro il petto
e la convinzione di non avere un’argomentazione sufficientemente valida a suo
favore. Oltre quell’ingresso c’era Sherlock Holmes, qualsiasi cosa lei avrebbe
potuto dire quell’uomo l’avrebbe sicuramente passata ai raggi X e resa
traballante. Sapeva il suo modo di lavorare e sapeva anche alla perfezione che,
quasi sicuramente, sarebbe stata allontanata da quell’indirizzo con un nulla di
fatto.
Finalmente
la porta si aprì. Davanti a lei comparve Mrs. Hudson, che aveva già avuto modo
di intravedere alla televisione o sui giornali – oltre ad aver letto di lei sul
blog di John Watson.
La
signora la guardò, sorrise e chiese: «Hai bisogno di qualcosa?»
I
suoi modi parvero immediatamente garbati alla ragazza. Era come l’amabile
proprietaria di casa, quella che fa trovare il tè sempre pronto e ripiega sul
caffè nel caso fosse rimasta senza. Tuttavia il suo cuore non ne voleva sapere
di calmarsi, benché ad aprirle non fosse stato l’uomo per cui era andata fin
lì.
«Ehm,
sì, grazie. Mrs. Hudson, giusto?»
Attese
il cenno affermativo della donna prima di ricominciare a parlare: «Mi chiamo
Emily, Emily Price. Sono qui perché… ehm…»
La
sua argomentazione cominciò a vacillare fin da subito. Come si poteva spiegare
senza troppi problemi il perché lei era lì? Come poteva fare a illustrare a una
signora come Mrs. Hudson quello che aveva intenzione di fare? Cercò di
riordinare in fretta i pensieri e ci stava quasi riuscendo quando la donna si
accorse che la sua interlocutrice era ancora sotto l’acqua.
«Oh,
vieni dentro cara. Sta piovendo proprio forte. Entra, possiamo parlarne in casa
mia.»
Fece
accomodare Emily, che la ringraziò mentre chiudeva l’ombrello e lo posava
accanto alla porta. La ragazza lanciò un’occhiata alle scale che procedevano
verso il primo piano, immaginando Sherlock Holmes salirle, il cappotto lungo,
suggestivo, ondeggiare a ogni gradino.
«Per
di qua.»
Sentendo
la voce della donna si ridestò dai suoi pensieri e seguì la signora Hudson fino
alla sua cucina, piccola ma accogliente, sedendosi al tavolo, su indicazione
della donna.
«Cosa
ne dici se ti preparo un po’ di tè?»
Emily
la guardò, piacevolmente colpita da quelle premure. Si sentiva umida per colpa
della pioggia ed era anche piuttosto infreddolita, tuttavia non voleva abusare
della cortesia di quella signora.
«Ah,
no, non serve, la ringrazio» disse.
Mrs.
Hudson parve non dar peso a quelle parole. Prese una tazza e vi versò dentro
del tè appena fatto, lasciando al colino il compito di filtrarne le foglie.
«In
casa mia c’è sempre del tè pronto» rivelò alla ragazza, strizzandole l’occhio.
Emily
le sorrise, ispirando l’aroma che saliva dalla sua tazza. Rifiutò il latte e
bevve subito un sorso di tè nella speranza di sentirsi rinvigorire. La signora
Hudson si sedette di fronte a lei, la sua tazza fra le mani e diede una lunga
occhiata a Emily prima di chiederle: «Sei qui per parlare con Sherlock,
immagino.»
C’era
una nota di affetto nel modo in cui lei pronunciava il nome del detective. La
ragazza si sentì rincuorata dall’accoglienza che la donna le stava riservando.
Tuttavia erano tornati alla conversazione iniziale, ovvero al perché lei si
trovava lì in quel momento, al numero 221B di Baker Street.
«Sì,
esattamente» cominciò Emily, cercando di capire da che parte le conveniva
iniziare a spiegare la situazione alla sua interlocutrice. Decise di cominciare
dal principio: «Vede, Mrs. Hudson, mi sono trasferita a Londra solo poche
settimane fa. Mi sono laureata in criminologia e sono venuta fin qui per poter
conseguire un master sempre in questo settore.»
La
signora Hudson la guardò, sorpresa e incuriosita. «Fin qui da dove?»
«Newport.»
«Ho
capito. Ma, tutto questo cosa c’entra con Sherlock? Per caso hanno ucciso uno
dei tuoi professori?»
Emily
la guardò confusa per un momento, aggrottando leggermente la fronte.
Fortunatamente Mrs. Hudson non se ne accorse, troppo intenta a sorseggiare il
suo tè.
«No,
niente del genere. I miei professori stanno tutti bene. Perché… uno di loro
sarebbe dovuto morire?»
La
donna sollevò le spalle. «Oh non lo so. Altrimenti perchè avresti bisogno di
parlare con Sherlock?»
Quella
frase spiegò molte cose a Emily, come il fatto che, con tutta probabilità, ogni
estraneo agli occhi della signora Hudson che entrava in quella casa lo faceva
esclusivamente per portare lavoro a Sherlock Holmes, e anche sulla spiegazione
del motivo per cui, nelle storie di John Watson, la donna parlava sempre tanto
poco. Faceva tenerezza, ma non si poteva ignorare il fatto che fosse piuttosto
ingenua.
«Ho
bisogno di parlare con lui per i miei studi. Il master» precisò infine, a
seguito dell’occhiata dell’altra. Capì che non sarebbe servito a molto
continuare su quella strada e decise di arrivare subito al punto: «In poche
parole, voglio scrivere la tesi di laurea per il mio master su Sherlock
Holmes.»
Si
zittì, in attesa di una reazione. Mrs. Hudson la guardò un momento, prima di
dipingersi un’espressione dispiaciuta in volto, cosa che rese immediatamente
incerta Emily.
«Ma
cara, c’è già John che scrive di Sherlock.»
«Oh,
no, no. Non voglio scrivere dei casi che risolve. Voglio scrivere della sua
psicologia.»
«La
sua psicologia?»
«Sì,
esatto» replicò subito la ragazza, sentendosi rinvigorita. «Mrs. Hudson, io ho
studiato psicologia criminale. Sono in grado di riuscire a comprendere e
analizzare il modo in cui ragionano certi criminali. Anche il signor Holmes riesce
a fare questo e ci riesce mille volte meglio di me. La sua mente è
incredibilmente evoluta, lavora come un computer, forse addirittura meglio. È
la sua psiche ad affascinarmi ed è di questa che vorrei studiare, di cui vorrei
parlare nel mio master. Vorrei cercare di capire in che modo il suo cervello
riesce ad assorbire ed elaborare in così poco tempo molteplici informazioni, di
come riesca ogni volta ad analizzare la moltitudine di scenari che gli si
parano davanti e di come sia in grado di trovare la soluzione giusta al
problema. Ho affrontato la psiche criminale, ora vorrei affrontare quella
dell’eroe. È per questo che sono qui.»
La
sua interlocutrice rimase in silenzio per un po’. Emily bevve un altro sorso di
tè nella speranza di alleviare quella strana atmosfera.
«Dovresti
parlare con Sherlock di questa cosa, io non è che ne capisca molto» disse
infine la signora Hudson.
«Lui
non c’è, quindi?»
«No.
È uscito questa mattina presto e non è ancora tornato. Ma non pranza quasi mai
a casa, quindi non mi sorprende.»
Emily
annuì leggermente con il capo, segnandosi in testa questa informazione.
«Perciò,»
riprese la signora Hudson, «se vuoi studiare la mente di Sherlock dovrai venire
qui spesso.»
La
ragazza puntò immediatamente lo sguardo su di lei, con improvviso interesse.
Erano giunte alla seconda parte del suo discorso, quella che le avrebbe dato il
più importante dei suoi biglietti: quello per andare, o per restare.
«Sì»
cominciò, cercando le parole migliori. Aveva già capito che girare intorno
all’argomento non sarebbe servito, perciò decise di non farlo. «So che il
signor Watson non vive più qui e che, quindi, c’è una stanza vuota.»
«Eh,
già. John adesso vive con Mary. Credo che Sherlock ne abbia sofferto parecchio
anche se si rifiuta di darlo a vedere.»
Emily
segnò un altro appunto mentale a riguardo. Tuttavia si rese conto che la
signora Hudson non aveva abboccato all’amo e, nuovamente, preferì dirle tutto
subito.
«È
stato il signor Holmes a informarmi della cosa. Della camera libera, intendo.»
«Sherlock?
Credevo non lo conoscessi.»
«Infatti
è stato Mycroft.»
«Ah,
conosci Mycroft?»
Mrs.
Hudson parve improvvisamente interessarsi alla cosa, notò Emily sorridendo.
«Già.
È più corretto dire che lui ha conosciuto me. Quando sono arrivata a Londra con
l’intenzione di scrivere su Sherlock Holmes non sapevo bene come muovermi.
Mycroft, in un modo o nell’altro, è riuscito a sapere dei miei progetti e mi ha
informato che al 221B di Baker Street Sherlock non aveva più il coinquilino,
che viveva da solo e che quindi c’era una stanza libera. Mi ha anche detto che
se dovesse servirmi aiuto con l’affitto mi avrebbe potuto dare una mano lui,
purché tenessi d’occhio suo fratello.»
Sentirsi
pronunciare quelle parole le fece uno strano effetto, ma mai come quello che le
provocò la signora Hudson quando dimostrò di aver ignorato completamente tutta
la faccenda chiedendole solo: «Vorresti trasferiti qui?»
Emily
annuì. «Se c’è la possibilità, sì. Significherebbe stare a stretto contatto con
l’argomento della mia tesi, riuscire a…»
Non
terminò la frase. Mrs. Hudson scosse la testa. «Oh, cielo, vivere con
Sherlock.»
Emily
si preparò al classico discorso sul fatto che una ragazza non dovrebbe vivere
sotto lo stesso tetto di un uomo, specie se sconosciuto e così via, ma a quanto
pareva i discorsi convenzionali non erano il genere della donna che aveva
davanti in quel momento.
«Dovresti
vedere in che condizioni riduce sempre casa sua. Nel frigorifero ci sono pezzi
di corpo umano.»
Emily
inclinò leggermente la testa, prendendosi un nuovo appunto mentale.
«E
il disordine, non ti dico. Sai che non mi permette nemmeno di spolverare? “La
polvere parla”, dice, e non posso toccargliela.»
La
donna era in procinto di continuare ancora quando, fuori dalla porta, si
sentirono dei rumori. L’ingresso di Baker Street era appena stato aperto e
richiuso e il rumore di passi lungo le scale non lasciavano adito a dubbi.
«È
tornato. Ti conviene parlarne con lui. Ma io te lo sconsiglio» le sussurrò Mrs.
Hudson.
«Mi
sconsiglia cosa?» domandò Emily, improvvisamente preoccupata.
«Di
trasferirti qui. Non fa bene ai nervi, credimi.»
La
ragazza si alzò, lasciando il tè non ancora finito sul piano del tavolo. Seguì
la signora Hudson lungo le scale, sentendosi sempre più insicura. Cominciò ad
agitarsi molto più di prima, di quando era in strada davanti all’ingresso della
casa. Contò i gradini, ascoltò il loro cigolio sommesso mentre li percorreva
uno dopo l’altro. Arrivati in cima, davanti alla porta lasciata aperta, Mrs.
Hudson bussò un paio di volte contro lo stipite.
«Si
può, Sherlock?»
La
donna entrò nel piccolo soggiorno, seguita dalla ragazza. L’uomo era in piedi
davanti al camino, di spalle.
«È
una cliente?» chiese all’improvviso, senza voltarsi.
Emily
non rispose, fu la signora Hudson a farle capire che il detective parlava con
lei.
«Non
esattamente» disse poi la ragazza, quando ebbe capito che era compito suo dare
la risposta.
A
quelle parole Sherlock Holmes si voltò. Il loro primo contatto visivo fece
fremere completamente Emily. L’uomo era di poco più basso di come se lo era
immaginato, ma rimaneva il fatto che era decisamente più alto di lei. I capelli
spettinati, scuri, facevano risaltare i limpidi occhi celesti, striati di
verde, fissi sul volto di Emily.
Lei
lo sapeva. Sapeva alla perfezione che quegli occhi chiari la stavano
scandagliando alla ricerca di dettagli, informazioni utili, ogni possibile cosa
che potesse svelare la sua presenza in quella stanza. C’era dell’interesse nel
viso di Sherlock e lei intuì che doveva essere nato nel momento esatto in cui
aveva dato la sua prima risposta.
«Lei
dev’essere la ragazza con l’ombrello giallo1» affermò poi l’uomo.
Emily
sorrise, annuendo.
«Mrs.
Hudson di solito in queste circostanze si offre del tè» riprese a dire
Sherlock, senza smettere di guardare Emily, mentre lei era troppo affascinata
all’idea di vedere Holmes in azione per sentirsi a disagio dal modo in cui lui
continuava a scrutarla.
«Gliel’ho
già servito» lo informò la signora Hudson.
«Mi
riferivo a me, infatti. Del tè, per favore.»
La
donna si avviò lungo le scale borbottando qualcosa di molto simile a un “Per
l’amor del cielo”, lasciando Emily da sola nella stanza con Sherlock.
«Galles,
eh?» chiese lui.
La
ragazza sorrise. «Esattamente.»
«Di
dove?»
«Newport.»
«Avrei
detto Cardiff.»
«Ho
studiato là, in effetti.»
Sherlock
distese leggermente le labbra. Invitò Emily a sedersi sul divano, cosa che la
ragazza fece guardandosi intorno.
«Non
ci siamo presentati» le fece notare Sherlock appena lei si accomodò.
«Mi
chiamo Emily Price, Mr. Holmes.»
«E
a cosa devo la sua presenza qui?»
«La
prego mi chiami Emily. Odio tutta questa formalità, mi fa sentire vecchia.»
L’uomo
acconsentì con un rapido cenno, ma prima che potesse fare altro la signora
Hudson ricomparve nel soggiorno, il vassoio con il tè per Sherlock fra le mani.
Lui si servì, infine si sedette sulla sua solita poltrona, mescolando
accuratamente il contenuto della sua tazza.
«Dicevi?»
incalzò poi la ragazza. Lanciò un’occhiata a Mrs. Hudson per farle intendere di
lasciarlo solo con Emily, dopodiché tornò a concentrare la sua attenzione sulla
giovane.
«Vuole
sapere perché sono qui, quindi» esordì lei, cercando di mettere in fila le
parole nel modo migliore.
«Non
ci trovo niente di male. Sei a casa mia e penso che sia tuo dovere informarmi
del perché.»
Emily
respirò a fondo, cercando di riordinare le idee. Sapeva che quel gesto non era
sfuggito al detective, ma non gli diede peso. Ricominciò dal principio. Spiegò
a Sherlock della sua laurea in scienze criminologiche e della sua intenzione di
conseguire un master lì, a Londra. Arrivata al punto cruciale si fermò di
colpo, sentendosi improvvisamente in imbarazzo. Sherlock l’aveva osservata in
silenzio per tutto il tempo; aveva sorseggiato un po’ il tè, poi l’aveva posato
e aveva congiunto le mani davanti alla bocca. Emily lo aveva guardato fare
tutto ciò con inquietudine sempre crescente e, con molta probabilità, tutto
quello aveva contribuito notevolmente a renderla improvvisamente insicura.
Rimase
in silenzio alla ricerca delle giuste parole. Il detective non le diede il
tempo di trovarle, però.
«Perciò
tu sei qui perché vuoi che ti aiuti a conseguire il master? Che ti dia una
mano, magari parlandoti dei miei casi?»
Il
tono della sua voce era serio, il suo volto impassibile. Emily lo guardò a
lungo cercando di capire cosa si nascondesse dietro quell’apparente maschera di
indifferenza, ma non riuscì a individuare un granché.
«No.
Non voglio scrivere dei suoi casi, né di qualcuno degli assassini che ha
aiutato a far arrestare» rispose lei, con sicurezza.
Quelle
parole parvero confondere il detective. Abbassò le mani e sollevò un
sopracciglio. «Allora di cosa vorresti parlare?»
«Di
lei.»
Sherlock
si bloccò, sorpreso. Schiuse le labbra ma non disse nulla; si puntellò con i
gomiti sulle ginocchia, tornando a congiungere le mani.
«Di
me» disse poi, come a soppesare le parole. «Mi risulta strano credere che tu
non sappia che c’è già John Watson a farlo. Pare che il suo blog nutra di un
notevole successo.»
Emily
si strinse nelle spalle, con tranquillità. «Certo che conosco il suo blog. Lo
seguo anche, se è per questo. Ma, come le ho già detto, non sono qui con
l’intenzione di usare i suoi casi. Io vorrei poter scrivere di lei Mr. Holmes, della sua mente e del
perché la sua psiche è in grado di elaborare una tale quantità di informazioni
con simile rapidità e con una percentuale di esattezza costantemente elevata.»
«Spirito
di osservazione e un buon intelletto. Se si impara a osservare e non solo a
guardare si possono capire molte cose» replicò Sherlock, asciutto.
«Sappiamo
benissimo entrambi che c’è molto di più » disse Emily, guardando Sherlock con
improvvisa sicurezza. Era certa di aver scatenato il suo interesse, lo aveva
intuito dal modo in cui il suo volto si era fatto più serio e il suo sguardo
aveva cominciato a rimanere fisso nei suoi occhi. Era perfettamente a
conoscenza, inoltre, che le prossime parole pronunciate da entrambi sarebbero
state le più importanti.
«Hai
detto di aver scritto la tua tesi di laurea sulla psicologia criminale, giusto?
Su cosa, esattamente?» chiese Sherlock, senza apparente motivo.
«Ho
analizzato la mente di alcuni dei più noti serial killer della storia. Da Jack
lo squartatore fino ai giorni nostri, includendo anche Jim
Moriarty.»
Emily lasciò cadere la frase, nella viva
speranza che la cosa scatenasse una qualsiasi reazione nel suo interlocutore.
Sherlock, infatti, strinse appena gli occhi sentendo il nome della sua nemesi e
tornò ad appoggiarsi allo schienale della poltrona, cosa che la ragazza intese
come un leggero disagio; quando non si è perfettamente padroni di sé
significava che qualcosa ha turbato la proprio serenità.
«Moriarty
non si può definire esattamente un serial killer. Non agiva mai direttamente,
dava semplicemente agli altri gli strumenti necessari per mietere vittime»
disse piano il detective.
«Ciò
però sottintende che, se avesse voluto, lui avrebbe potuto essere a capo di ciascuno
di quei delitti. Commissionarli, diciamo così, a qualcun altro non implica
obbligatoriamente che lui non li abbia ideati.»
Prese
una pausa, guardando attentamente l’uomo. «Una mente brillante, la sua. Per
quanto insana, era assolutamente geniale.»
Emily
si zittì, non sapendo come altro proseguire. Non c’era molto da aggiungere a
quello che già aveva detto; non possedeva cose che le avrebbero garantito il
libero accesso al numero 221B di Baker Street. Lodare la nemesi di Sherlock
Holmes era stato il suo jolly, quello che l’avrebbe fatta vincere o l’avrebbe
distrutta.
Fra
i due calò il silenzio, che si propagò lungo e sospeso nella stanza. Sherlock
continuava a tenere i propri occhi fissi su Emily mentre lei, consapevole che
qualunque cosa stesse pensando l’uomo di certo non avrebbe potuto
impedirglielo, prese a guardarsi intorno, soffermando lo sguardo con più
attenzione sui soprammobili della stanza e sui dettagli della carta da parati.
Dopo quella che le parve un’eternità il detective inspirò a fondo, accavallò le
gambe e tornò a rivolgersi alla ragazza: «Dunque, Emily. Ammetto che mi hai
incuriosito. Vuoi scrivere di me, quindi, della mia mente» disse, picchiettando
un paio di volte con l’indice la propria tempia. «Potrebbe essere
interessante.»
La
ragazza spalancò gli occhi, sorpresa. «Sta dicendo che mi permetterà di farlo?»
«Sì»
rispose lui, quasi annoiato.
Emily
ebbe un’esitazione, una leggera incertezza. Come si ringraziava uno come
Sherlock Holmes? Di certo non era uno da abbracci, ma strette di mano?
«Non
so come ringraziarla, dico davvero» si decise a dire infine.
Sherlock
sollevò una mano, senza dare importanza alle sue parole.
«Avrai
bisogno di venire qui spesso» le fece notare lui.
«Beh,
so che Watson non abita più qui. C’è…» ebbe una leggera indecisione, «c’è una
stanza libera, no?»
Sherlock
la guardò attentamente, fece lavorare il suo cervello in fretta, come da
abitudine, dopodiché disse: «Questo appartamento non è esattamente a buon
prezzo. Spero per te che Mycroft voglia aiutarti adeguatamente e pagare la tua
parte d’affitto se decidi di restare.»
«Come
sa di Mycroft?» domandò Emily, realmente sorpresa ora. Sapeva perfettamente di
non aver accennato al fratello di Sherlock nemmeno una volta e benché il suo
interlocutore fosse il famoso detective, le sembrava ugualmente impossibile che
riuscisse a risalire a una tale informazione. Tuttavia l’uomo non si scompose.
Sollevò impercettibilmente un sopracciglio e riprese a parlare: «Non sono molti
quelli che sanno che John non abita più qui da un po’. Mycroft è uno di questi
e sono piuttosto certo che per lui la studentessa intenzionata a scrivere la
tesi su Sherlock Holmes fosse la più indicata a tenere sotto controllo il suo
fratellino. Conclusione? Lui ti ha
messo in testa l’idea di trasferirti qui, ma lo ha fatto in modo tale che tu ti
convincessi che fosse un’idea totalmente tua fin dal principio, ed eccoti.»
Fece
una breve pausa. «Perciò dimmi, si è offerto di pagare la tua metà
dell’affitto?»
La
ragazza lo guardò a lungo, sconvolta e sorpresa dalla capacità analitica di
quell’uomo. Vederlo in azione le metteva i brividi e la intrigava al tempo
stesso.
«Sì,
lo ha fatto» rispose infine.
«Bene,
ottimo. Questo potrebbe essere positivo anche per me. Ho diverse spese
ultimamente che stanno prosciugando le mie finanze più del dovuto» disse
Sherlock, rivolgendosi più a se stesso che alla ragazza. «Immagino tu sia
abituata a vivere con degli uomini in casa, non dovresti sentirti troppo a
disagio a trasferirti qui, sbaglio?» chiese poi.
Emily
aggrottò la fronte, guardando Sherlock sempre più sorpresa. «Come lo sa?»
«Cosa?»
«Del
fatto che vivo con degli uomini.»
Sherlock
sollevò le spalle, con indifferenza. «Oh, beh, si capisce. Innanzitutto il tuo
atteggiamento, il modo in cui ti sei seduta sul divano e il fatto che non hai
mantenuto gli occhi esclusivamente su di me mi fanno capire perfettamente che
sei abituata ad avere uomini intorno, persone che ti hanno permesso di
acquisire una certa disinvoltura con l’altro sesso, quindi non fidanzati, no,
qualcuno che hai più vicino, il padre, ma non solo, perciò hai dei fratelli,
due almeno. Da cosa capisco che sono fratelli? Il tuo orologio. Stona
completamente con il tuo look, con quella camicia e quei jeans non avresti mai
messo un orologio con il cinturino in plastica e probabilmente non lo
indosseresti effettivamente mai, eppure lo hai indosso in questo preciso
momento e a giudicare dai graffi del quadrante e da quanto sia rovinato il
cinturino vuol dire che tendi a indossarlo spesso, forse sempre. È impossibile
che te lo abbia regalato una ragazza, ma un uomo, un uomo sì che potrebbe
sbagliare così bene quello che voleva essere un presente importante. Potrebbe
essere un regalo del tuo ragazzo, vero, ma non lo è, così come non può essere
di tuo padre, che avrebbe certamente speso di più per un orologio da donare
alla figlia. È più probabile che sia un regalo di uno dei tuoi fratelli, forse
anche perché un ragazzo non lo hai. Ti sei traferita da Newport a Londra solo
per un master, chi ha una relazione non farebbe un simile gesto, né tantomeno
andrebbe a convivere di punto in bianco con un uomo più grande di lei. Se ti
senti di farlo è perché non hai simili legami, hai una certa sicurezza e perché
sai come comportarti con un uomo di cui non conosci il carattere. Quest’ultima
cosa è proprio dovuta la fatto che hai avuto intorno maschi adulti a
sufficienza per sapere come comportarti, quindi si torna alla questione
iniziale: gli uomini in casa tua. Devono essere più di uno, perciò solo il
padre e il fratello non bastano, quindi dico che di fratelli devi averne almeno
due, ho indovinato?»
Emily
rimase in silenzio, sorpresa. Aveva appena visto Sherlock Holmes in azione e
non riusciva a crederci. Quell’uomo era sorprendente, non avrebbe saputo
definirlo in modo diverso e gliene aveva appena dato la dimostrazione. Sorrise,
eccitata come non si sentiva da tempo. Finalmente aveva incontrato qualcuno in
grado di scatenare il suo interesse, e non uno qualunque, ma l’uomo per cui era
venuta fino a Londra, l’uomo di cui avrebbe voluto scrivere e parlare.
«Incredibile,
dico davvero» si complimentò.
Sherlock
parve non fare caso al complimento. «Allora, ho indovinato?»
«Quasi.
I fratelli che ho sono tre, io sono la figlia più piccola quindi sì, so cosa
vuol dire avere degli uomini più grandi intorno e so come comportarmi con
l’altro sesso, usando le sue parole.»
«Tre!
Maledizione, avrei dovuto capirlo.»
Emily
era sul punto di dirgli che non avrebbe potuto capirlo, ma lasciò perdere,
limitandosi a sorridere nuovamente. Guardò l’uomo un momento e gli chiese:
«Perciò, Mr. Holmes…» cominciò, ma lui non la lasciò finire.
«Sherlock»
precisò.
Emily
acconsentì, lievemente stupita. «Perciò… Sherlock… ho libero accesso al 221B di
Baker Street?»
Il
detective si alzò di scatto dalla poltrona, come se si fosse improvvisamente
annoiato della conversazione. Afferrò il cappotto – il suo elegante cappotto,
osservò Emily – e lo infilò in fretta.
«La
signora Hudson ha una copia delle chiavi, chiedila a lei. Ti mostrerà
sicuramente anche la stanza. Non stare ad ascoltare quello che dice sul
disordine o presunti resti umani nel frigorifero, per favore. Fino a prova
contraria questo appartamento è casa mia.»
Si
avviò verso l’ingresso, mise la mano sul pomello della porta, poi parve
ripensarci e tornò a rivolgersi alla ragazza: «Sarebbe grandioso se Mycroft ti
desse in anticipo la tua metà dell’affitto di questo mese, diglielo stasera
quando gli racconti cos’è successo. A più tardi.»
Non
aspettò una risposta. Si chiuse la porta alle spalle e uscì di scena, lasciando
Emily basita sul divano di quello che era appena diventato, in parte, il suo
primo appartamento londinese.
Note:
1 la ragazza con l’ombrello giallo: sono
piuttosto certa che quasi tutti abbiate compreso il riferimento. Nella mia vita
– finora – ho amato realmente solo tre serie tv: Sherlock, Scrubs e How I met your mother. Quest’ultima è una delle mie preferite e mi ha
letteralmente aperto il cuore. L’ho semplicemente voluta citare attraverso
l’ombrello giallo, un po’ il simbolo di tutta la serie tv.
_______________
Ciao
Sherlockian!
Ringrazio
quanti di voi hanno letto questo primo capitolo di un mio nuovo lavoro. So che
iniziare a pubblicare una fan fiction su Sherlock a cinque giorni dall’uscita
della quarta stagione potrebbe essere un’idea da fuori di testa – più che altro
perché, conoscendomi, so già che poi vorrò tanto inserire cose relative proprio
alla quarta stagione – ma non ce l’ho fatta. Al momento sono presissima dalla
stesura di questo racconto e non sono riuscita a resistere alla tentazione di
ripresentarmi qui, su Efp.
A
ogni modo, spero che questo lavoro vi piaccia, almeno un po’. Essendo nuova nel
fandom e non avendo mai scritto nulla del genere ci
sono buone possibilità che abbia sbagliato tutto. In quel caso vi prego di
farmelo sapere, saprò farmene una ragione.
MadAka