Kenjiro
aveva sempre avute poche certezze - forse qualcuna in più da quando si era
sposato con il suo fidanzato del liceo, Ushijima Wakatoshi, il primo e unico
amore della sua vita - ma gli piaceva pensare che, sebbene poche, quelle
certezze fossero radicate nel profondo, ferme e incrollabili.
Aveva quasi
trent’anni. Era uno scrittore. Lui e suo marito erano sposati ormai da sei
anni.
Suo marito lo amava. I suoi amici gli volevano bene.
Ushijima
Kenjiro aveva visto buona parte di quelle certezze sgretolarsi davanti ai suoi
occhi in un giorno come tanti, a colazione, davanti a una tazza di caffè e un
giornale ancora chiuso; suo marito non lo amava più.
Ed era così
ovvio, davvero così ovvio!
Aveva colto
i segnali da settimane, ma solo in quel preciso giorno era riuscito a unire
quei punti sparsi e separati, e finalmente vedeva il filo che li univa tutti, e
che conduceva a un’unica, terribile verità: Wakatoshi non lo amava.
Certo, doveva averlo amato, una volta - e a Kenjiro piaceva pensare che
l’avesse amato sul serio, senza una singola ombra di dubbio, senza ‘se’ e senza
‘ma’, com’era solito far tutto Wakatoshi - ma era ormai evidente che quei tempi
fossero finiti.
E davvero
gli dispiaceva che tutto dovesse finire così, una domenica mattina davanti a
una tazza di caffè, ma quali alternative aveva al riconoscere quella semplice,
orribile evidenza?
Avrebbe
dovuto capirlo prima, la colpa era sua; avrebbe dovuto capirlo da tutte quelle
serate passate in ufficio, da quelle chiamate troppo lunghe, e dagli sguardi
prima preoccupati, poi colpevoli di Wakatoshi.
L’aveva
intuito da come Wakatoshi e Satori l’avessero infine convinto a lavorare da
casa, a non uscire se non di giorno, se non accompagnato da suo marito o da uno
dei suoi amici, e da tanti, tantissimi altri ‘se’ che Kenjiro era infine giunto a detestare.
O forse il
suo sospetto era nato da quel commento sprezzante e altezzoso di Oikawa Tooru,
l’uomo più talentuoso e insopportabile che Kenjiro avesse mai avuto la sfortuna
di conoscere.
Ma, doveva
ammetterlo, era formidabile nel suo lavoro: pur lavorando nello stesso ambito
di suo marito, Oikawa poteva realisticamente e immodestamente considerarsi
secondo solo a Ushijima Wakatoshi stesso, e la loro rivalità non s’era mai
affievolita; così quando la prima volta in cui l’aveva visto, Oikawa lo aveva
chiamato “la bambolina di Ushiwaka”, Kenjiro non ci aveva dato troppo peso.
Erano state parole vane, colme di uno sprezzo grezzo, volto a ferire e nulla
più.
Oikawa Tooru
non lo conosceva.
Ushijima
Kenjiro era molto più che un mero soprammobile, d’altronde - e a dispetto di
quanto potesse pensare Oikawa Tooru, non aveva soltanto un bel visino.
Era sempre
stato un partner impeccabile per suo marito, citando le parole dello stesso
Wakatoshi, e aveva l’intelligenza e la determinazione necessarie a poter
dominare anche l’ambito lavorativo che aveva scelto subito dopo le superiori: i
suoi studi letterari.
E non a caso
aveva già ricevuto numerosi premi ed importanti riconoscimenti per i suoi
romanzi, e i suoi studi e i suoi lavori procedevano a un ritmo costante, quasi
spietato, incurante del tempo e dello sforzo.
Wakatoshi
aveva più volte espresso il suo orgoglio per quei successi, e la gratitudine
d’avere al suo fianco un compagno così incredibile e leale - e Kenjiro,
ravvolto completamente da quelle lodi, ci aveva creduto davvero.
Non poteva
immaginare che quella felicità sarebbe diventata il filo invisibile che ben
presto l’avrebbe strangolato.
Aveva
creduto per molti, molti anni nell’amore di Wakatoshi, almeno finché la
presenza di Oikawa Tooru non aveva corroso le sue certezze, creando mille crepe
nella sua vita di porcellana - o era stata colpa sua? Forse il cuore di Kenjiro
era diventato freddo e spietato, vuoto e fragile; forse Oikawa aveva ragione a
disprezzarlo?
O forse il
punto di rottura era stato Sugawara Koushi?
Kenjiro non
ne era certo... e come poteva esserlo? Ricordava di essersi irritato molto con
suo marito quando aveva chiamato lo psichiatra e l’aveva pregato di fare almeno
qualche seduta, ma dopo qualche giorno l’irritazione era già svanita.
Il dottor
Sugawara non era poi così male, e con lui Kenjiro spesso dimenticava di essere
nel bel mezzo di una seduta; parlare con lui non era diverso dal parlare con un
amico, con i suoi sorrisi gentili e le sue espressioni rassicuranti.
O forse era
successo poco dopo che Semi Eita, uno dei più vecchi e cari amici di suo
marito, aveva cominciato a odiarlo - e nonostante avesse affermato più volte e
con forza il contrario, Kenjiro sapeva che Eita stava mentendo: gli leggeva
l’odio negli occhi, nel modo in cui gli angoli della sua bocca si abbassavano
impercettibilmente ogni volta che incontrava il suo sguardo, e nei sussurri che
si scambiavano lui e Satori quando credevano che Kenjiro non potesse sentirli o
vederli.
Negarlo gli
sembrava ridicolo.
Eppure
ancora faticava a spiegarselo: lui e Semi avevano mantenuto un rapporto di
amicizia stretto, seppur piuttosto singolare, per moltissimi anni - cos’era
cambiato?
Forse aveva
a che fare con il fatto che Ushijima si fosse innamorato di qualcun altro.
Kenjiro
strinse la tazza e chiuse gli occhi, rassicurato dal calore della ceramica
sotto le sue dita, mentre rifletteva sulle ultime settimane.
Wakatoshi
era tornato a casa tardi per tre giorni consecutivi, trovando tutte e tre le
sere il marito già coricato nel letto.
Kenjiro ricordava
di essersi svegliato per un momento soltanto, disturbato dal peso che aveva
mosso l’altro lato del materasso, ma il sonno l’aveva colto di nuovo un secondo
più tardi; per tre notti, Kenjiro si era riaddormentato accompagnato dalla
sensazione di un tocco leggero di labbra che gli sfioravano la fronte.
Durante i
pomeriggi passati insieme, invece, non era riuscito a non cogliere una certa
freddezza negli sguardi di suo marito, un qualcosa di diverso, di cauto, che
poco si addiceva a Ushijima e che Kenjiro non aveva mai visto rivolto verso di
sé fino a quel momento.
Wakatoshi lo
accompagnava sempre più spesso dal dottor Sugawara, e l’odio di Semi nei suoi
confronti pareva ingigantirsi sempre di più, di giorno in giorno.
Wakatoshi
doveva essersi innamorato di Oikawa Tooru; non c’era altra spiegazione.
E non era
così illogico pensare una cosa simile - Oikawa era bellissimo, e pieno di
talento e di dedizione. Era innegabile.
Era
naturale; era ragionevole pensare che Wakatoshi si sarebbe innamorato di lui,
prima o poi, dovendo passare ogni giorno così tante ore insieme per via del
lavoro.
Naturale,
sì, naturale - eppure Kenjiro non riusciva a tranquillizzarsi.
Non era
affatto naturale, era strano. Certo, era strano.
Ma
d’altronde, Ushijima non lo amava più già da qualche tempo.
Wakatoshi
era praticamente un dio, e lui invece non era niente.
No, non era
poi così strano.
Ed era
ridicolo continuare ad ingannarsi, a cercare di sottrarsi al dolore, e ad
ignorare questo semplice dato di fatto - così come lo era anche
quell’espressione di genuina preoccupazione che gli aveva rivolto Taichi quando
gli aveva rivelato la sua angoscia, e quei suoi occhi increduli, stupefatti,
come se davvero non potesse nemmeno concepire quella semplice evidenza.
Eppure
doveva essere reale: Wakatoshi non amava Kenjiro.
Era
semplice, davvero.
Faceva male
da morire.
Per molto
tempo non disse nulla; si limitò a fare ciò che faceva già da un po’ - girare
per le stanze del loro appartamento senza una meta, sfiorando i ricordi
intrappolati nelle foto appese sui muri, rinchiusi in belle cornici, e in ogni
mobile che avevano scelto insieme.
Evitò Semi e
le sue telefonate in ogni modo.
Era
irragionevole causare una scenata, no? Lui sapeva stare calmo anche nei momenti
più difficili - era uno dei suoi pregi, Wakatoshi glielo aveva sempre detto:
era la sua forza.
Si fermò
davanti a uno specchio, e cercò i propri occhi nel riflesso.
Lasciò
cadere lungo il fianco il braccio che reggeva un raccoglitore ricolmo di
fotografie, ma non si preoccupò di raccogliere l’album da per terra; i suoi
occhi rimasero inespressivi, il volto immobile.
Un viso di
bambola.
La voce di
Oikawa Tooru tornò a solleticare i suoi pensieri. Forse non aveva poi ogni
torto.
All’improvviso
il suo volto s’illuminò di rabbia, come colpito da un calore cocente,
insopportabile - Oikawa aveva causato già troppi guai; non sapeva che Wakatoshi
era sposato?
Doveva saperlo: Watakoshi non usciva mai di casa senza fede - la stessa che
Kenjiro gli aveva messo al dito sei anni prima, immerso nella luce di un
tramonto europeo.
Era
difficile prevedere la direzione che avrebbe preso quel pensiero, ma non
riusciva a fermarlo; lo seguì con angoscia, e lasciò che il dubbio gli
annebbiasse la mente.
Che
Wakatoshi togliesse la fede prima di arrivare a lavoro?
E se suo
marito non fosse stato il sedotto, ma il seduttore?
No, no -
Wakatoshi l’avrebbe lasciato ben prima di tradirlo, di non amarlo più. Non
avrebbe mai fatto una cosa simile a Kenjiro: lo rispettava troppo.
Certo, forse
era stato solo l’impeto di un momento soltanto, di una sola sera, forse non
contava alcunché per Oikawa Tooru e Ushijima Wakatoshi; eppure quella sola serata
aveva ribaltato tutte le certezze di Kenjiro, che ora si ritrovava a
galleggiare in un mare sconosciuto e ostile.
Wakatoshi
l’aveva tradito.
Ne era certo.
Non riuscì a
parlarne con il dottor Sugawara - trovò il cuore di confessarlo soltanto a
Taichi, il suo più caro amico. Si fidava di Taichi.
E aveva
fatto bene a rivelarlo a lui soltanto; Taichi non aveva detto nulla, com’era
solito fare, ma aveva chinato il capo e gli aveva stretto forte le mani tra le
sue, più grandi e calde.
Kenjiro
sapeva che quello era il suo modo per dirgli che gli era accanto, che lui era
forte, e che avrebbero affrontato quel dolore insieme.
Fu l’ultima
volta in cui sentì qualcuno così vicino.
Ma quella
peculiare sensazione di alienazione non giunse immediatamente; fu un processo
più lento, pesante di tormenti, e sospetti, e ancora più dolore - e
all’improvviso non riusciva più a fidarsi di Wakatoshi.
La loro casa
era diventata fredda, estranea, piena di fili aggrovigliati e inestricabili:
diffidenza, sospetto, paura, confusione e preoccupazione s’erano ingarbugliati
in una matassa stretta e caotica, fili su fili che legavano le parole, le
azioni, le persone, e tutto quanto.
Kenjiro si
sentiva soffocare.
Era presto.
Wakatoshi era a lavoro, e lui non aveva impegni fino a quel pomeriggio, quando
suo marito l’avrebbe accompagnato dal dottor Sugawara.
Non sapeva
bene che cosa fare, se non vagare come un fantasma nella sua stessa casa: i
suoi libri prendevano polvere insieme ai trofei di Wakatoshi, e Kenjiro non
entrava nella loro stanza da giorni. Non aveva nemmeno aperto le finestre.
Prima di
poter pensare a un piano, a qualcosa da fare, si ritrovò in strada.
Sorpreso,
iniziò a vagare senza riflettere troppo su dove volesse andare - forse non
voleva andare da nessuna parte, ma non usciva di casa da tanto tempo; chissà se
anche il mondo di fuori era cambiato?
Non sembrava
cambiato: la vita intorno a lui continuava a scorrere con la solita fretta,
ignara del caos che agitava il suo cuore.
Lo investì
sul viso un’aria calda, profumata di caffè: da quanto tempo non tornava nella
sua caffetteria preferita, quella vicina al suo vecchio ufficio?
Il barista
lo accolse con un saluto caloroso di chi rivede un vecchio amico, e subito gli
stava preparando la sua bevanda preferita, chiedendogli come stesse, e dove
fosse suo marito, e molte altre domande di cortesia a cui lui non era più
abituato.
Qualcosa di
indefinito in quella situazione riuscì a far scattare un ingranaggio in lui, un
meccanismo nascosto, e all’improvviso Kenjiro sorrideva, inclinava educatamente
la testa, rispondeva con grazia a tutto ciò che gli veniva chiesto, e replicava
a sua volta con altre domande di cortesia; era facile, notava.
Facile come indossare una maschera e recitare una parte.
Non fece in
tempo a prendere in mano il caffè, e nemmeno a finire la frase; s’interruppe
quando percepì un tocco leggero sul braccio, e un esitante: «Ushijima-san…?»
Si stava
rivolgendo lui - era ancora strano sentirsi chiamare con il cognome di suo
marito, ma ci stava facendo l’abitudine.
Era la voce
di Goshiki.
Quando era
arrivato? Era sempre stato dentro la caffetteria? Non l’aveva proprio notato.
Kenjiro si
voltò, e fu sorpreso per un momento: quello non era Goshiki Tsutomu.
No, lo aveva
visto solo pochi giorni prima, lo conosceva,
e ne era certo - non poteva essere lui.
Certo, gli
assomigliava molto, ma c’era un dettaglio, qualcosa… qualcosa che non riusciva
a individuare con precisione, ma che non andava affatto.
Lo guardava
con un’intensità che aveva già visto nelle espressioni di Goshiki, ma era
sbagliata, completamente sbagliata.
Sentì
qualcosa di sottile come un filo sfiorargli il polso quando le loro mani si
avvicinarono di nuovo, ma non riuscì a vedere nulla.
Trattenne
con fatica un sussulto.
«Goshiki,
buongiorno» sussurrò Kenjiro, cercando di mantenere la stessa maschera che
aveva usato poco prima, ma era difficile nascondere la diffidenza dei suoi
sguardi, e il modo in cui s’era impercettibilmente ritratto quando l’altro si
era avvicinato.
Il falso
Goshiki sembrava preoccupato, ma persino quell’espressione d’ansia gli parve
finta, un po’ meccanica, mentre lo incalzava di domande: «Dov’è Wakatoshi? Non
dovresti essere fuori, va tutto bene? Ushijima-san…? Kenjiro, stai bene?»
No, non
stava bene - Kenjiro era uno scrittore: aveva composto due romanzi e
innumerevoli racconti brevi, storie slegate tra loro, legate in giochi
coerenti, e aveva scritto tutto per suo marito.
Ma Wakatoshi
non lo amava. L’aveva tradito.
Quella
sensazione di vuoto al petto iniziò a solidificarsi in qualcosa di più
concreto, ma al contempo artificiale e duro, quasi come plastica.
Fissò il
pavimento per un lungo momento prima di tornare a essere freddo, distante.
«Sì, sto
bene. Wakatoshi è in ufficio» disse.
Aveva paura,
ma mantenne un tono il più neutro possibile.
«Hai
camminato fin qui? Non va affatto bene, sarai esausto… ho l’auto qui vicino, ti
accompagno a casa»
Kenjiro
ricacciò indietro le sue perplessità; non ricordava d’aver camminato poi così a
lungo, ma temeva le reazioni di quello sconosciuto che si nascondeva dietro il
volto del suo amico.
Non disse
nulla, e questo sembrò preoccupare il falso Goshiki ancora di più.
«Casa mia
non è poi così distante» rispose infine Kenjiro, a denti stretti.
Non aveva
camminato molto.
«Veramente
dista quasi due chilometri» disse l’altro, aggrottando le sopracciglia; gli
prese delicatamente il braccio e lo condusse fuori dalla caffetteria, mentre
con l’altra mano digitava un numero sulla tastiera del cellulare.
Un filo
continuava a sfiorargli il polso, invisibile come una ragnatela; lo cercò
ancora con lo sguardo, e poi quasi ossessivamente, ma non vide nulla.
Kenjiro era
diviso tra l’irritazione e il timore - provò a divincolarsi, ma senza alcun
risultato.
Goshiki era
sempre stato più alto di lui, e più forte e robusto: spesso aveva invidiato la
sua presenza fisica, ma ora provava solo paura per quel vantaggio.
Voleva
fargli del male? E che ne era stato di Goshiki? Quell’impostore sembrava in
grado di replicarne le espressioni alla perfezione, e persino la voce, ma c’era
qualcosa di intrinsecamente suo che
non riusciva a imitare - qualcosa che era di Goshiki Tsutomu, e suo soltanto.
E quello non
era Tsutomu.
«L’ho visto
per caso… no, non me l’ha detto. Penso sia una di quelle giornate… già, una
brutta. Sì, lo porto a casa. Tra quanto puoi arrivare?» continuava a borbottare
al telefono il falso Goshiki, mentre gli teneva aperta la portiera del
passeggero della sua macchina.
Erano
arrivati al parcheggio in fretta, troppo in fretta; Kenjiro non era riuscito a
divincolarsi.
Il cuore gli
batteva furiosamente, e sentiva le mani gelide: che fare? L’impostore forse
pensava che Kenjiro non l’avesse riconosciuto - non poteva perdere il suo
vantaggio, rivelando di aver capito l’inganno. Non poteva scappare.
Si sedette
in silenzio, mentre la sua mente lavorava furiosamente su tutti i possibili
scenari: che fare? Che fare?
«No, non è
un problema, resto io, non ho orari rigidi, ma credo dovresti chiamare il do-»
disse l’altro al cellulare, gli occhi fissi sul parabrezza, ma s’interruppe
bruscamente, lanciandogli una rapida occhiata.
Sembrava
allarmato - che avesse capito?
Ma non gli
diede altri segni d’allarme; incastrò il cellulare tra la spalla destra e la
guancia, e mise in moto l’auto senza però partire immediatamente.
«Okay, buona
idea. Manderò un messaggio a Tendo-san. A tra poco» concluse infine Goshiki,
chiudendo la telefonata e concentrando tutta la sua attenzione su Kenjiro e
sulla strada.
Uscì dal
parcheggio; a Kenjiro pareva che si stessero dirigendo proprio nella direzione
di casa sua.
Forse non
voleva fargli del male?
Non poteva
saperlo. Non lo conosceva - chissà cosa stava pensando, e che intenzioni aveva.
Kenjiro si
chiese chi fosse l’interlocutore al telefono; era Wakatoshi? Perché non si era
reso conto che quello non era Goshiki? Che quella voce era simile, ma non era
la sua?
Se n’era accorto lui solo?
Un filo
luccicò per un momento; gli parve che collegasse il polso del finto Goshiki al
volante dell’auto.
Che
assurdità.
«Kenjiro-san,
perché non hai chiamato?» disse l’altro, la voce seria come la sua espressione,
senza distogliere lo sguardo dalla strada, «Sai che mi fa piacere accompagnarti
quando devi andare da qualche parte, se Ushijima-san non può. Sei già stato
male una volta, non ricordi? Non dovresti sforzarti»
Non sembrava
un rimprovero, ma Kenjiro si sentì ugualmente mancare il respiro.
«Non dovevo
andare da nessuna parte» rispose, troppo nervoso per mentire.
Il falso
Goshiki non disse altro, e si limitò ad aggrottare le sopracciglia mentre
svoltava a sinistra, verso la zona residenziale della città.
Lo stava
portando davvero a casa; Kenjiro si chiese il perché.
Forse non
voleva che sapesse… che vedesse?
Che vedesse cosa?
Entrarono in
una strada di villette e giardini recintati, e parcheggiarono nel vialetto di
casa sua; il falso Goshiki non aveva chiesto indicazioni, quindi sapeva dove
abitavano lui e Wakatoshi.
Kenjiro si
chiese quante altre cose sapesse.
Aprì la
porta con mani tremanti, e trovò la stessa casa che aveva lasciato due ore
prima: vuota e fredda. Un po’ come lui.
Si tolse le
scarpe e il cappotto, e lasciò che Goshiki lo conducesse fino in cucina per
farlo sedere.
Kenjiro non
capiva perché insistesse così - era perfettamente in grado di camminare. Le
gambe non gli tremavano più.
Assicuratosi
che Kenjiro stesse bene, Goshiki si allontanò un momento per rispondere al
telefono, lasciandolo di nuovo solo.
Era una
sensazione davvero bizzarra.
Ignorò il
bisbigliare di Goshiki nel corridoio, e sentì appena la suoneria del suo
cellulare, come se fosse sott’acqua - l’aveva dimenticato sul ripiano della
cucina quella mattina.
Aveva
quattro chiamate perse e una manciata di messaggi non letti.
Un senso di
irrequietezza gli si insinuò sotto la pelle: non era mai uscito senza cellulare
prima d’ora, né l’aveva mai dimenticato.
Cercò di non
pensare a quanto fosse strano, e si costrinse a rispondere alla chiamata
nonostante non ne avesse alcuna voglia.
«Pronto?»
«Kenjiro?»
La voce di
Wakatoshi suonava preoccupata e quasi statica, filtrata dal telefono; era così
strano sentire suo marito e non vederlo, parlare alla sua voce senza corpo.
La
sensazione di estraneità che provava Kenjiro non faceva che aumentare.
Da quando
era diventato strano anche quello?
«Sì?»
«Grazie al cielo hai risposto,
Kenjiro, sono sollevato. Ti ho chiamato molte volte, ero davvero preoccupato» continuò la voce di suo marito.
Non sollevò
gli occhi dal tavolo della cucina - cosa c’era di preoccupante? Era solo un
venerdì come altri. Non erano nemmeno le undici.
«Perché?»
era una domanda insolita, ma non riuscì a fare a meno di chiederlo, anche se
forse un po’ temeva la risposta di Wakatoshi.
«Perché in genere non esci mai da
solo, e da quando sei stato male... io mi preoccupo sempre per te, lo sai» rispose l’altro, che non sembrava
trovare la domanda insensata o inusuale.
Che
assurdità - perché preoccuparsi di una cosa simile? Kenjiro non aveva paura, e
non ne aveva avuta mentre girava per le strade senza una meta, avvolto dalla
tranquillità frenetica di quel venerdì mattina. Non era nemmeno stanco.
Forse era
Wakatoshi ad avere paura.
«Non che sia
andato poi molto lontano» replicò, non senza una nota amara nella voce;
probabilmente Wakatoshi lo sapeva già, il finto Goshiki l’aveva di certo
avvisato.
Si chiese
perché si fosse disturbato a chiamarlo, allora.
«Dove dovevi andare? Ti avrei
accompagnato io questo pomeriggio, se avessi saputo, ma non mi hai detto nulla»
«Non dovevo
andare da nessuna parte» disse Kenjiro, ripetendo la stessa esatta frase di
poco prima - una certa frustrazione stava cominciando a ribollire sotto la
superficie delle sue parole: perché non riuscivano a capire? Kenjiro non aveva
ragione di mentire.
Non era lui
ad avere dei segreti, d’altronde.
Ci fu un
breve silenzio, e poi un sospiro.
«Capisco. Mi dispiace non poter
liberarmi prima, temo che potrò tornare a casa solo tra qualche ora - starai
bene? Goshiki resterà con te, se lo vorrai»
Ma Kenjiro
non stava bene, e non poteva promettere che lo sarebbe stato in un futuro
prossimo o lontano.
E
soprattutto non voleva che quell’impostore che indossava il viso di Goshiki gli
stesse vicino più del necessario.
«No. Non lo
voglio» disse, e si accorse che la sua voce era forse suonata più fredda di
quanto avesse inizialmente inteso.
Meglio.
«Kenjiro…?»
«Non lo
voglio più vedere - non ci si può fidare di lui. È pericoloso averlo vicino»
Ma non si
poteva fidare nemmeno di Wakatoshi, tutto considerato - Wakatoshi lo aveva
tradito, e probabilmente non gli importava. Non lo amava.
Lo sentì
inspirare bruscamente, ed eccola: ecco la prova che cercava.
Suo marito
doveva sapere di essere in difetto, e forse temeva che Goshiki lasciasse
trapelare… qualcosa.
Ma quello
non era Goshiki; Wakatoshi lo sapeva? Si fidava di uno sconosciuto?
Tutti quei
fili di indizi e sospetti iniziavano a stringersi.
«Kenjiro, perché dici queste cose?» chiese Wakatoshi, più serio e meno
spaventato di quanto Kenjiro si aspettasse.
«Perché non
lo voglio qui. Forse non dovrei… non dovrei stare qui nemmeno io» disse, più
incerto, e s’interruppe subito - andarsene? E dove?
Kenjiro
fuori da quelle mura non esisteva; al di fuori di quella casa di bambola, non
era altro che fredda, fragile porcellana - perché tentare?
«No, non dirlo mai. Ti scongiuro»
Ed ecco la
paura, la preoccupazione nella voce di Wakatoshi.
Kenjiro
l’aspettava come si attende un qualcosa di spaventoso ma inevitabile: con
grande, smisurato sollievo.
Sarebbe
stato davvero semplice ignorare tutto e tornare a essere vetro e porcellana -
un bellissimo soprammobile, un amato possesso, una bambola - ma quella non era la vita che Kenjiro aveva scelto.
E poi quella
paura era qualcosa di così alieno rispetto alla sua idea di Wakatoshi! Gli era
quasi impossibile associare quelle poche parole alla felicità che avevano
creato insieme anni prima.
«Perché mi
scongiuri? Mi troverai qui» replicò, ed era già stanco.
Era la loro
prima vera conversazione dopo tanto tempo, e Kenjiro non sentiva niente.
Forse
qualcosa in lui davvero non andava.
«Provo a liberarmi - sarò lì al più
presto, capito? Arrivo presto» disse Wakatoshi, e la premura e la preoccupazione nella sua
voce si accompagnavano a un fruscio di sottofondo - un movimento di fogli, e
poi una sedia che si spostava.
Kenjiro
davvero non riusciva a capire il motivo di quella fretta improvvisa.
Non disse
nulla.
Chiuse la
chiamata, e si chiese che cosa avrebbe fatto Taichi al suo posto; avrebbe
aspettato, forse. Taichi era bravo ad aspettare e ad ascoltare.
Alzò lo
sguardo, e vide Goshiki poggiato con la schiena contro lo stipite della porta,
dal lato della cucina.
L’intensità
del suo sguardo lo turbava più di ogni altra cosa - c’era qualcosa di
sbagliato, di vago, di strano; era un’imitazione quasi perfetta, ma restava pur
sempre un’imitazione.
Lo fissava
con occhi di vetro, senza sorridere.
Goshiki non
sarebbe rimasto in silenzio così a lungo.
«Era
Ushijima?» gli chiese il finto Goshiki.
Sembrava che
già lo sapesse.
«Sì. Tornerà
prima, penso» rispose Kenjiro, e non aggiunse altro. Non poteva fidarsi di quel
Goshiki.
«Mi ha
chiesto di restare finché non sarà qui anche lui. Ti dispiace se mi siedo qui?»
aggiunse l’altro con una gentilezza che Kenjiro davvero non si aspettava.
Gli rispose
con un cenno, e Goshiki prese posto non troppo vicino a lui - forse aveva
percepito la sua angoscia, o forse i suoi sguardi erano stati più freddi delle
sue parole; in ogni caso, era grato per quella distanza.
Ansioso di
ritrovare il silenzio e la tranquillità dei giorni precedenti, Kenjiro chiuse
gli occhi, cercando di non pensare alla paura di Wakatoshi, ai fili che
ricoprivano i polsi di Goshiki, che stringevano la sua pelle chiara e il
volante della sua auto, e alle mani di Oikawa Tooru che avevano toccato suo
marito.
No, non
riusciva a fermare i pensieri; si alzò in piedi e si diresse con passo incerto
verso la piccola terrazza della loro cucina.
Il falso Goshiki
non lo seguì; qualcuno aveva bussato alla porta.
Osservò per
un momento la luce del sole contro i vetri, e il vento che faceva ondeggiare
dolcemente gli steli e le foglie delle piante di Wakatoshi.
Quel momento
era reale, era proprio lì, e Kenjiro vi si aggrappò con una disperazione che
non gli apparteneva.
Si appoggiò
contro la ringhiera, e strinse i pugni; il freddo del metallo sotto le sue dita
era qualcosa di solido, qualcosa di vero, qualcosa che poteva sentire e
impugnare contro quello strano, orrendo senso di alienazione.
Era stanco
delle bugie e dei sospetti, delle ombre sfuggenti che lo tormentavano - era
stanco di avere paura.
Voleva
sentire l’aria sul viso e il freddo sulla pelle; voleva ricordare d’essere
carne e sangue, e non vetro e porcellana.
Salire sul
bordo del balcone non fu difficile - l’aveva fatto molte altre volte con Satori
e con Taichi, quelle notti in cui le stelle brillavano su un cielo
particolarmente limpido; vi si sedette, lasciando dondolare le gambe nel vuoto
e appoggiando gli avambracci sulla ringhiera, e rimpianse la bellezza del cielo
stellato.
Per la prima
volta in vita sua, non desiderava altro che poter cadere senza doversi buttare.
Si sarebbe
rotto in mille pezzi?
Due forti
braccia gli circondarono la vita, tirandolo gentilmente per riportarlo
all’interno del terrazzo.
Kenjiro non
fece resistenza.
Non gli
servì girarsi per sapere che era suo marito a stringerlo; anche se ormai era in
piedi sul pavimento del terrazzo, lontano dal bordo, Wakatoshi non l'aveva
ancora lasciato andare.
«Ehi, come
stai?»
Sentiva la
voce di Wakatoshi dietro di sé, e sentiva le vibrazioni del suo torace contro
la schiena; non aveva davvero voglia di girarsi e guardarlo negli occhi, perciò
rimase immobile.
Stranamente,
non si sentiva teso: d’istinto si era rilassato tra le braccia di suo marito, poggiandosi
contro il suo petto senza pensarci troppo - doveva essere un qualche meccanismo
radicato nel profondo, un automatismo che legava Wakatoshi al tepore e al
conforto di casa loro; quando c’era lui, Kenjiro sentiva un’ondata di coraggio,
la sicurezza che sarebbe andato tutto bene.
Ma Wakatoshi
non lo amava più, ed era una vera tragedia - Oikawa Tooru si era già reso conto
di quanto fosse fortunato? Di quanto l’amore di Wakatoshi fosse prezioso,
inestimabile? Si era reso conto di cosa era riuscito a sottrarre a Kenjiro,
dell’immensità del danno che gli aveva causato?
«È presto,
non è nemmeno mezzogiorno. Oikawa non avrà bisogno di te?» disse; sentì la sua
stessa voce distante, indistinta, quasi artificiale, e ne ebbe quasi paura -
sarebbe diventato anche lui come l’impostore con le fattezze di Goshiki, con
gli occhi vuoti e un cuore di vetro?
«Non
lavoriamo nello stesso ufficio» rispose Wakatoshi, e con una calma che irritava
infinitamente Kenjiro - non aveva ancora capito? Non aveva capito che Kenjiro
già sapeva, che aveva già compreso da
tempo?
Era
frustrante, era doloroso e umiliante; Wakatoshi non gli aveva mai mentito,
prima d’ora.
Oikawa Tooru
era davvero una pessima influenza.
«Penso che
avrà bisogno di te lo stesso» sospirò Kenjiro, e per un attimo dimenticò la
rabbia e la frustrazione, e lasciò che la tristezza lo soffocasse.
Aveva il
diritto di essere triste, no? Aveva il diritto di intristirsi se suo
marito…
«Tu hai
bisogno di me, adesso. Nient’altro ha importanza»
Rimase in
silenzio per diversi minuti.
Wakatoshi
non sciolse l’abbraccio: continuò a tenerlo vicino, a mescolare il loro calore
e i battiti del loro cuore.
Forse era
questo il modo per sentirsi di nuovo…?
Costrinse il
suo corpo a muoversi, ignorando quella stanchezza improvvisa, e a voltarsi
verso Wakatoshi; vide la preoccupazione sul suo volto, e un’immensa dolcezza
nei suoi occhi.
Chissà come
doveva apparire Kenjiro riflesso nel suo sguardo - ma forse non era neanche
lui, forse era solo un riflesso vuoto, e non era niente per Wakatoshi, neanche
per i suoi occhi, neanche per il suo cuore, neanche…
Gli strinse
gli avambracci con dita tremanti, e guardò quel volto quasi avidamente; l’aveva
amato, e ancora lo amava.
Lo amava.
Le sue mani
presto si spostarono sulle spalle di Wakatoshi, e poi sul collo, e sulle
guance, e lì si fermarono; accarezzò i suoi zigomi con i polpastrelli, e
finalmente lo guardò dritto negli occhi.
In un’altra
vita, forse… in un’altra vita...
«Che cosa ci
siamo fatti, Wakatoshi?» sussurrò piano, come una preghiera, o forse come un
rimpianto; lasciò ricadere le mani di nuovo sugli avambracci del marito, e
nascose il volto nel suo petto.
Solo
un’ultima volta, si disse; solo quest’ultima volta.
Una mano di
Wakatoshi si posò subito sulla sua nuca, e l’altra lo strinse - forse più per
abitudine che per vero affetto, sospettava Kenjiro.
Ma com’era
nostalgico, quel tocco! Dirgli addio era doloroso, più doloroso di qualsiasi
altra cosa.
«So che
tu stai cercando di dirmi qualcosa, comunicarmi un malessere, ma io non riesco
a capire» rispose Wakatoshi, e anche la sua voce era bassa, e imbevuta di un
qualcosa che sembrava quasi tristezza, «Capisco che qualcosa che non va, e
voglio sistemarlo. Voglio sistemarlo insieme a te e aiutarti, ma prima devo
capire… devi aiutarmi a capire»
Ma Kenjiro
non era tanto ingenuo da illudersi: certo, Wakatoshi aveva imparato a mentire
proprio bene, doveva riconoscerlo - sembrava quasi sincero, genuinamente triste,
genuinamente disposto a sopportare ancora… a sopportare lui.
Non sarebbe
stato meglio un taglio netto, una fine pulita? Non sarebbe stato più semplice
lasciarlo per Oikawa Tooru, buttarlo via come una bambola ormai venuta a noia?
Si divincolò
dall’abbraccio e rientrò dentro casa, e già gli mancava il calore di Wakatoshi.
Non sarebbe
stato meglio andarsene e basta? Che senso poteva mai avere rimanere senza
esserci? Per quanto ancora avrebbe rimpianto la sua assenza?
«Kenjiro, ti
prego»
Suo marito
l’aveva seguito, e lo guardava con una dedizione assoluta che aveva sempre
riservato solo e soltanto a lui.
Non più solo
a lui, ricordò a se stesso. Non più...
«Aiutami a
capire, ti prego» continuò Wakatoshi, cercando di nuovo il suo viso, e i suoi
occhi, ma Kenjiro già gli dava le spalle.
«È andato
via?» disse invece, di nuovo freddo, di nuovo terrorizzato - no, non poteva
fare due volte lo stesso errore: non poteva fidarsi di Wakatoshi, non poteva
abbassare la guardia nemmeno per un minuto.
Non poteva
tornare a essere di plastica, con un cuore vuoto e uno sguardo di vetro.
«Andato…
parli di Goshiki?» gli chiese Wakatoshi, quasi incredulo, e Kenjiro davvero non
riusciva a comprendere come non se ne fosse accorto, come potesse fidarsi.
No, lui
parlava di quella cosa, quell’automa, quell’impostore - e dov’era Goshiki?
Dov’era il vero Goshiki?
«No, lui… quello… non ci si può fidare, non
capisci? È pericoloso. Non lo conosciamo affatto. Tu credi di conoscerlo ma non
è così» rispose, inciampando sulle parole, perso in quella rabbia e in quella
paura che gli avevano annebbiato gli occhi e la mente, e che non erano ancora
scomparse del tutto.
«Goshiki è
andato via non appena sono arrivato io» disse Wakatoshi lentamente, e lo
afferrò per un braccio, costringendolo per la prima volta a fermarsi e a guardarlo
in faccia.
L’ansia sul
suo volto non accennava a diminuire, anzi - sembrava… panico?
«Kenjiro,
cosa è successo? Rispondi almeno a questo, per favore, mi sto preoccupando
davvero molto»
Kenjiro
liberò il braccio con uno strattone - ma com’era possibile che proprio non se
ne fosse accorto?
«Quello non
è Goshiki. È… qualcuno. Sa dove abitiamo, non gli servivano le indicazioni
stradali. È strano. Non lo voglio vicino» disse, e quelle parole sembravano
veleno nella sua bocca; non riusciva a fare a meno di addossare almeno parte
della colpa a Wakatoshi.
Suo marito
fece un passo indietro, e nascose l’orrore dietro un’espressione calma,
concentrata, ed era tutto inutile perché Kenjiro sapeva.
Non rispose
alle sue parole e ai suoi inciampi; gli chiese di sedersi, e anche la sua voce
era calma, e poi poggiò sul tavolo un bicchiere d’acqua e una pillola.
Gli parve
strano - aveva già preso la solita medicina a colazione, e in genere prendeva
la seconda subito dopo cena.
Disse solo:
«L’ho già presa», brusco e irritato dal modo in cui suo marito continuava a
ignorare ciò che diceva, salvo poi affermare di non riuscire a capire.
Avrebbe
tanto voluto avere la maschera che aveva indossato quasi per sbaglio quando era
uscito, ma aveva paura che fosse finita in pezzi insieme a tutto il resto -
doveva essere di porcellana, proprio come lui.
«Penso sia
meglio aggiungerne una, solo per oggi. Il dottor Sugawara poi ci dirà qualcosa
di più nel pomeriggio» rispose Ushijima, che pareva non aver perso affatto la
calma.
Quella sua
pacatezza non faceva che esasperare ancora di più Kenjiro; qualcosa di oscuro
si agitava in lui, un desiderio irrefrenabile di colpire e distruggere.
E mentre si
torceva le dita, sentì qualcosa: per un momento soltanto, gli parve di sentire
un piccolo rigonfiamento sotto la pelle del polso, e un filo...
No, no, non
doveva perdere il controllo - non era mai bello quando succedeva. Era doloroso,
e rimettersi in piedi gli costava sempre troppa fatica.
Ricordò le
parole del dottor Sugawara, e immaginò una bolla intorno a sé: niente poteva
toccarlo.
Regolò
lentamente i respiri finché non si calmò anche il suo cuore, e finalmente
sciolse i pugni e rilassò tutti i muscoli.
Prese la
pillola con due sorsi d’acqua; si alzò e si diresse verso il suo studio con passi
lenti, stanchi.
Non si voltò
nemmeno una volta per guardare Wakatoshi.
**
«Non lo so,
Satori, da qualche tempo si comporta in modo davvero strano. Ho una brutta
sensazione»
La condensa
sui finestrini aveva cominciato a creare minuscole goccioline; fuori iniziava a
fare freddo sul serio, pensò Satori, mentre osservava il mondo ricoperto da
quelle goccioline - la sera che calava presto, le luci delle case che
rischiaravano tutt’intorno, e infine il vero motivo per cui si trovavano lì, a
parlare in macchina con i finestrini chiusi e il riscaldamento acceso.
L’edificio
dove lavorava il dottor Sugawara era un palazzo grazioso ma sobrio; la luce
dello studio era ancora accesa.
Si chiese quanto mancasse alla fine della seduta di Kenjiro - buttò un’occhiata
all’orologio: ancora ventitré minuti. Avevano un quarto d’ora per esaurire
quella conversazione spinosa.
«Pensavo che
quel nuovo farmaco lo stesse aiutando parecchio» considerò Tendo, pensieroso,
invitando Wakatoshi a proseguire con un gesto della mano.
Non aveva
mai visto il suo migliore amico così preoccupato - non dai tempi del ricovero
di Kenjiro, almeno; quelli erano stati mesi davvero terribili, sì, ma li
avevano superati.
Kenjiro ora
stava bene, sembrava stabile: certo, aveva avuto delle brutte giornate nel
corso degli anni, ma nulla di troppo serio, e a detta del suo psichiatra era
perfettamente normale.
«Infatti, ma
ultimamente ha detto delle cose molto strane. E il modo in cui si comporta è
ancora più strano» sospirò Wakatoshi, poggiando i polsi sul volante.
Si fermava
sempre ad aspettare Kenjiro quando lo accompagnava dal dottor Sugawara - e le
sedute stavano diventando un impegno sempre più presente nella loro routine; nell’ultima
settimana lo aveva accompagnato fino allo studio almeno quattro volte.
Satori non
poteva dire di non essere almeno un po’ preoccupato per la frequenza con cui il
dottore aveva rinnovato gli appuntamenti; ricordava che fino a poco tempo
prima, Kenjiro non visitava lo studio dello psichiatra per più di tre o quattro
volte al mese.
«Pensi a una
ricaduta?» chiese a Wakatoshi, con voce seria e greve, appesantita dalla
preoccupazione e da un inspiegabile senso di attesa.
«Sì, lo
temo. E a quanto ha detto il dottor Sugawara, non dovremmo stare tranquilli -
non lo vedeva così da anni, peggiora a vista d’occhio»
Satori
rabbrividì.
«E che cosa
suggerisce? Nuovi farmaci? L’ultima volta che gli ha cambiato prescrizione,
Kenjiro è stato malissimo. Non ha dormito per una settimana»
Wakatoshi si
voltò verso di lui con sguardo sofferente, appesantito di mille pensieri e
troppi timori, e disse: «No, ha detto che potrebbe essere necessario
ricoverarlo di nuovo. Io ho cercato di dissuaderlo, sai bene quanto Kenjiro
abbia odiato il periodo del ricovero…»
«Ricoverarlo?
Addirittura? Santo cielo… è davvero così grave? Grave da ricovero?» replicò Satori,
la voce contrita; sentiva un gemito intrappolato nel petto, e un pessimo
presentimento per il futuro.
Wakatoshi si
strinse nelle spalle, e Tendo si sentì spezzare il cuore mentre lo osservava
farsi piccolo sotto il peso di quel dolore.
Una goccia di
condensa attraversò il parabrezza, e l’orologio di Satori indicava le cinque e
quarantatré minuti.
«Così dice.
Mi ha anche accennato che vorrebbe richiedere la consulenza di un suo amico,
Akaashi Keiji - un medico molto stimato e competente, dice, e io non sono
contrario. E i soldi non ci mancano, però…» iniziò, ma la frase perse vigore e
sembrò morire lì, a metà.
«Però questo
significa che è una cosa davvero seria» concluse Tendo.
Wakatoshi
annuì, e distolse lo sguardo da quello dell’amico per controllare l’ora;
mancavano quindici minuti alle sei.
«Dovremmo
iniziare a entrare, e salire allo studio… potresti accompagnare tu Kenjiro fino
in macchina? Io devo parlare con Sugawara» sospirò Ushijima, e Tendo non lo
aveva mai visto così stanco.
«Ma certo!
Forse dovrei parlargli anche io, una volta o l’altra - sai, per quella cosa di
Eita. Kenjiro crede ancora che lui lo detesti? Cos’ha detto il dottore?»
Wakatoshi
scosse la testa.
«Non molto.
Credo si tratti sempre di percezioni, sai. La sua realtà talvolta è così
lontana dalla mia, dalla nostra…» disse, ed esitò per un momento, perso di
nuovo nel suo dolore.
«Wakatoshi?»
«Lo sto
perdendo, Satori»
Non aveva
mai sentito tanta tristezza nella voce di Wakatoshi prima d’ora - era
straziante, davvero.
«Lo sto
perdendo, e non posso farci nulla. Kawanishi ha detto che Kenjiro crede… anzi,
no, è convinto che io l’abbia tradito. Ne è certo»
Che
assurdità - Wakatoshi amava Kenjiro più di ogni altra persona al mondo, più di
ogni altra cosa, forse più della vita stessa.
«Come può
pensare una cosa del genere…?»
La voce di
Satori esprimeva tutta la sua incredulità, ma non era abbastanza, non sarebbe
mai stato abbastanza: intrattenere una simile idea anche solo per gioco, per
scherzo, era così assurdo da apparirgli sinceramente ridicolo.
«Io davvero
non saprei. Crede che io mi sia innamorato di un’altra persona» disse
Wakatoshi, la voce a metà tra il pianto e il riso.
«E la cosa
più assurda e strana finora è che crede che Goshiki non sia più lui: è convinto
che sia un qualche impostore, o un suo doppio, non lo so. Il dottore sembrava
così allarmato, l’altro giorno… speriamo sia un caso isolato - se non lo fosse,
dovrà richiedere per forza la consulenza di quel suo collega, e fare altri
esami, e le radiografie… Kenjiro odia questo genere di cose»
Era da tanto
tempo che Tendo non sentiva parlare così a lungo Wakatoshi; era inusuale, e
pareva quasi che i loro ruoli si fossero invertiti.
A Satori non
dispiaceva affatto ascoltare, ma come avrebbe voluto che le circostanze fossero
diverse, più felici, e che non aleggiasse su di loro quella sorta di cattivo
presagio...
Mancavano
cinque minuti alle sei.
Wakatoshi
non disse più niente; spense il motore dell’auto in silenzio, e scesero
entrambi soli con i propri pensieri, con le proprie speranze.
Eppure c’era
quella sensazione sospesa, quell’incubo che incombeva su di loro…
La luce
dello studio era ancora accesa - una guida rassicurante nel silenzio di quella
notte invernale.
Quattro
minuti alle sei.
**
Sarebbe
stato inesatto dire che Kenjiro non se lo aspettasse, che non avesse
immaginato… lo aveva persino chiesto a Wakatoshi, un giorno - gli aveva
domandato: cosa farai dopo che sarò morto? Chi altro cercherai, a chi altro ti
legherai?
Ma non si
era chiesto una cosa vitale, l’aveva dimenticata, e non gli aveva posto la
domanda più importante di tutte: aspetterai almeno che io muoia?
E se
Wakatoshi non avesse aspettato la sua morte?
E forse,
forse aveva ignorato un’altra prospettiva fondamentale - aveva ignorato che la
porcellana non è viva, che gli occhi di vetro non versano lacrime, che forse
lui non era vivo da un po’.
Ed ora
c’erano cose più urgenti, misteri da svelare - il silenzio di quel falso
Goshiki sembrava gridare pericolo, e i fili… non aveva rivisto Goshiki, ma
aveva visto quei fili, ed erano ovunque, e ora che avevano preso anche Hayato e
Reon… di chi poteva fidarsi?
Non riusciva
a trovare il coraggio di uscire dal silenzio in cui s’era barricato, dal buio
che lo proteggeva dal mondo esterno - sentiva la voce di Wakatoshi alternarsi
al tono più allegro di Satori, e a quello più basso di Eita, ma aveva paura.
Loro
sapevano…?
Parlare dei
fili con il dottor Sugawara era stato un errore, accennarlo a lui e a Wakatoshi
era stato un errore tremendo, orribile: non sapevano difendersi, ed erano così
vulnerabili.
Kenjiro non sapeva come proteggersi, e come proteggere tutti loro; per il
dottor Sugawara era tardi - l’avevano già preso, e chissà dove, chissà dov’era.
Chissà se Goshiki era con lui.
Non aveva
smesso di partecipare alle sue sedute per paura di destare sospetti.
Il dottor
Akaashi invece era privo di fili, e aveva i polsi liberi, gli occhi limpidi, e
una voce calma e rassicurante anche sopra l’assordante clack-clack-clack della macchina per la risonanza magnetica...
«Ciao,
Kenjiro»
La voce di
Satori lo colse di sorpresa - una lama di luce tagliava la penombra della
stanza, e il suo tono era molto sommesso, e dolce - che strano, pensò. Che
strano.
Lo raggiunse
piano, senza fare rumore né movimenti bruschi, e si inginocchiò accanto a lui.
«Te la senti
di venire un po’ nell’altra stanza con noi?» gli chiese, e non aveva ancora
allungato una mano per sfiorargli i capelli, e anche quello era strano, era
proprio strano; Satori era sempre stato affettuoso. Non gli sembrava giusto.
Ah, già -
erano lì per la promozione di Semi. Wakatoshi si stava congratulando, poco fa…
un’ora fa? Era già passata un’ora?
Anche una parte di lui voleva congratularsi con Eita, e chiedere scusa per
qualunque cosa avesse causato quell’odio, qualunque… ma forse era stato
l’orgoglio a trattenerlo, o forse la consapevolezza che non sarebbe cambiato
nulla - a che sarebbe servito? Oikawa non aveva un cuore di vetro come lui; era
colpa sua se Wakatoshi non l’amava, ma perché scusarsi con Eita? Non sarebbe
cambiato nulla.
Semi avrebbe
continuato ad odiarlo, e Kenjiro avrebbe continuato a provare rimorso per
quell’odio inspiegabile, e rimpianto per ciò che avevano avuto e non avrebbero
potuto avere mai più, e-
«Pensi che…
credi che Semi-san detesterebbe ricevere le mie congratulazioni?» disse Kenjiro
a voce bassa - sperava che non lo sentisse nessuno, neanche Tendo.
Ma Tendo
l’aveva sentito, e gli strinse le mani; gli occhi gli brillavano di gioia e
sorpresa.
«Oh,
Kenjiro, ma certo che no! Lo renderesti molto felice» rispose, e c’era
un’emozione sottesa, qualcosa di vibrante - forse speranza?
«Davvero?»
«Assolutamente
sì. Te lo giuro»
Poteva
farlo: parlare con Semi non l’avrebbe rotto in mille pezzi. No, l’aveva già
fatto tante altre volte.
Eita e
Wakatoshi erano in salotto, e avevano sentito i suoi passi anche se era stato
attento a non fare rumore, a non attirare subito l’odio nello sguardo di Semi;
il cuore gli batteva all’impazzata, e l’eco dei battiti pulsava appena dietro
le orecchie - da quando era diventato così difficile…?
«Congratulazioni»
disse, infine, guardando Eita negli occhi.
In qualche
modo, sapeva che il suo volto era rimasto impassibile, e che la sua voce era
ancora troppo fredda, troppo meccanica per sembrare sincera, ed Eita l’avrebbe
odiato ancora di più, ne era certo.
E forse era
per questo che aveva spalancato un po’ gli occhi, e socchiuso le labbra,
lasciando un “Oh” sospeso, non detto; forse era stato un errore.
«Grazie -
non hai idea di quanto significhi per me… grazie, Kenjiro» gli rispose con voce
bassa, esitante, ricolma di un sentimento che Kenjiro non era riuscito a
individuare con precisione.
Wakatoshi e
Satori erano rimasti in silenzio, ma sembravano brillare - erano raggianti, e
Kenjiro non riusciva davvero a capirne il motivo.
Indietreggiò
subito dopo, ed era già esausto; era stato difficile, e forse anche inutile,
perché Semi non l’avrebbe perdonato per così poco, per… per cosa?
Forse
avrebbe preferito ricevere quelle congratulazioni da Oikawa Tooru in una casa
vera, e non in una casa di bambola.
Satori stava
preparando dei cocktail analcolici per brindare - Kenjiro non beveva, non
poteva bere, e Tendo era sempre stato attento a ricordarsene - ed era in cucina
da qualche minuto; Semi e Wakatoshi avevano ripreso la conversazione di poco
prima, e Kenjiro si accontentava di essere un osservatore silenzioso, un
fantasma seduto sul divano di fronte al loro.
Fissava i
polsi di Semi con timore, come se si aspettasse di vedere dei fili sollevarli
da un momento all’altro, e Semi non lo meritava, anche se lo odiava e lui non
sapeva il perché…
Il suo
sguardo fu catturato da uno stormo che attraversava il cielo, fuori dalla
finestra - fuori dalla quelle mura di carta, da quella casa di bambola.
Chissà
com’era volare.
Forse
avrebbe dovuto riprendere quella sceneggiatura che aveva promesso ad Ennoshita;
il film era solo un’idea, un abbozzo, certo, ma era già inconfondibile il tocco
della sua regia. Kenjiro aveva sempre amato i lavori di Ennoshita, e lavorare
con lui, scrivere per lui; nessuno sapeva animare le sue carte come Ennoshita
Chikara.
Aveva
lasciato il fascicolo nello studio; forse avrebbe fatto in tempo a prenderlo
prima del brindisi, pensò, dato che Tendo era ancora in cucina.
Si alzò dal
divano ma non fece un passo: Satori era tornat-
Un ansito
sfuggì al suo controllo, e le gambe gli tremavano; dovette sedersi di nuovo, ma
non riusciva a smettere di tremare.
Si portò le
mani al viso, e teneva premuta la bocca affinché loro non sentissero il suo
affanno improvviso.
No, no,
com’era possibile? Se n’era andato per un momento, un momento soltanto…!
Due fili
sottilissimi tenevano sollevate le braccia di Satori, che reggevano un vassoio
con quattro bicchieri - ma quello non era Satori, non poteva esserlo: era un
impostore, certo, doveva esserlo, era finto, finto…
«Kenjiro?!»
La voce
allarmata di Wakatoshi lo scosse, ma non riusciva a distogliere lo sguardo da
quelle mani, e quegli occhi, e da quei fili fusi ai polsi di quel dannato
burattino -
Tutto
intorno a lui si era fermato all’improvviso: tutto era sospeso su fili
intangibili, e sulla sua paura.
Le voci e i
movimenti precipitarono di nuovo su di lui in un momento. Kenjiro si sentiva
soffocare.
Nascose il
volto tra le mani, si raccolse su se stesso e cercò di respirare come gli aveva
spiegato il dottor Sugawara - immaginò una bolla intorno a sé, e niente poteva
toccarlo, e poi provò a inspirare piano, e poi espirare, e…
Non c’era
nulla che potesse fare per Tendo, era condannato.
Wakatoshi
gli si avvicinò con una fretta quasi precipitosa, ma la sua mano, sospesa a
pochi centimetri dal suo viso, non osava sfiorarlo.
Kenjiro
aveva i brividi.
Si alzò di
scatto, ignorando il braccio teso di Wakatoshi, e l’espressione confusa,
ferita, meccanica - finta, finta, finta -
di quel dannato automa, del burattino identico a Satori; si voltò a guardare
solo Semi alla disperata ricerca di qualcuno che lo conoscesse, di qualcuno che
forse in fondo al cuore ancora l’amava…
Ma vedeva
solo fili tesi, lunghi, ingarbugliati a quelli di Satori, e uno sguardo vitreo.
Sentiva la
gola stretta da un pianto silenzioso, da un lutto indicibile; aveva perso così
tanto tempo a farsi odiare da Semi, e se solo gli avesse chiesto scusa, se solo
avesse raccolto il coraggio prima…
Quel
rimpianto aveva un sapore amarissimo.
Corse fuori
dalla porta senza prendere il cappotto, e nemmeno la bozza della sceneggiatura
per Ennoshita - l’avrebbe perdonato, non era poi così urgente; si precipitò in
strada, e superò quasi di corsa quella strada infinita di villette, e giardini
recintati, e troppo, troppo rimpianto.
Si fermò
solo quando fu certo di essere solo, e di essere lontano; prese il cellulare in
mano, ancora tremante, e compose il numero di Taichi.
**
L'interno
dell'auto era tiepido, piacevole rispetto al freddo pungente di quella sera;
Wakatoshi però non poteva fare a meno di rigirarsi sul sedile, e ancora non
aveva avviato il motore.
Aveva
lasciato Kenjiro nel loro appartamento, e già dormiva; si era assicurato che
prendesse la solita medicina, e una pillola in più per assicurargli almeno un
po’ di riposo, una piccola tregua per la sua mente sconvolta.
Avrebbe
dormito ancora a lungo: quelli erano gli unici momenti in cui Wakatoshi si
sentiva sicuro abbastanza da poter respirare per un attimo, e lasciar andare la
preoccupazione per qualche ora.
Era uscito
di casa e aveva raggiunto lo studio del dottor Sugawara nel silenzio assoluto
della quiete notturna. C'era la luna nuova, e quell'oscurità faceva risplendere
le stelle.
La luce
dello studio era ancora accesa, e Wakatoshi per un momento pensò di aver
vissuto quello stesso istante già una volta, settimane prima – tuttavia Tendo
non c'era: stavolta era lui solo contro le sue paure e le sue speranze.
Il colloquio
con il dottor Sugawara e il dottor Akaashi aveva superato le sue aspettative
sia in negativo che in positivo; ne era uscito confuso, terrorizzato, ma almeno
ora aveva un nome, un'etichetta da attribuire alla follia delle ultime
settimane – se l'era fatto scrivere su un foglio di carta, e ancora non poteva
crederci.
Ma era pur
sempre un nome a cui aggrapparsi.
Prese in
mano il foglio piegato in due, e rilesse quel nome due, tre, dieci volte: Sindrome di Capgras.
Lo leggeva e
rileggeva, e ne scandiva le sillabe prima in silenzio, poi ad alta voce, ma non
riusciva proprio a capire, a non pensare a quanto fosse assurdo; com'era
possibile? Era semplicemente assurdo pensare che qualcuno potesse scambiare le
persone care per impostori, crederli bambole – era assurdo pensare che suo
marito potesse credere una cosa del genere.
Non riusciva
proprio a spiegarselo, e non riusciva a perdonarsi di non essersene accorto
prima, di non essere riuscito a capire.
D’altronde,
aveva passato anni a cercare di comprendere quell’altra malattia di Kenjiro - e
gli incubi, e le notti insonni, i pensieri che giravano in tondo per tornare su
se stessi completamente cambiati, i pensieri privi di senso, le ossessioni
incomprensibili; dopo anni, finalmente era riuscito a capire.
Che errore
pensare di poter comprendere anche questo, di accorgersene per tempo - che
arroganza; non aveva idea di come affrontare quella spaventosa novità. Avrebbe
impiegato anni a capire anche quella sindrome?
Ed era una
patologia rara, davvero rara, tanto da aver colto alla sprovvista i due
dottori: li aveva costretti a lunghe telefonate con i colleghi, e ricerche
infinite.
Nessuno dei
due aveva mai curato un paziente affetto da tale sindrome, e nemmeno
conoscevano colleghi che l'avevano fatto.
Il dottor
Akaashi tuttavia aveva provato a spiegarne i sintomi con parole semplici e
gentili – a spiegargli il processo delicato di connessione e riconoscimento
reciproco tra la percezione emotiva, quella uditiva e quella sensoriale, e di
come in Kenjiro questo processo si fosse come inceppato, di come tutte quelle
percezioni si fossero scollegate tra loro, trasformando volti familiari e amati
in volti di bambola.
Wakatoshi
aveva ascoltato con attenzione, e aveva compreso alcune cose, e non ne aveva
comprese molte altre.
Era normale,
gli aveva detto il dottore: era tutto normale.
Aveva tutto
il diritto di essere confuso, e di essere sollevato, perché finalmente aveva un
nome, un significato per tutto… tutto quello.
Certo, aveva
perfettamente senso: spiegava il comportamento bizzarro di Kenjiro negli ultimi
tempi, e la diffidenza improvvisa e ingiustificabile nei confronti di Goshiki,
e poi il suo terrore nel vedere Tendo da un momento all’altro, senza ragione e
senza preavviso… adesso il motivo gli appariva almeno un poco più chiaro, ma
c'era ancora un'angoscia che appesantiva il suo cuore, il terrore di ciò che
non si conosce, e che forse non si potrà mai conoscere del tutto.
Wakatoshi
aveva comunque annuito alla spiegazione del dottor Akaashi, sopraffatto da
tutte quelle informazioni nuove che non era ancora riuscito a comprendere
appieno: cos’aveva il suo Kenjiro? Era grave? Incurabile, addirittura? Non
aveva ancora un'idea precisa di che cosa fosse, e forse non l'avevano nemmeno i
due dottori. Ma di qualunque cosa si trattasse, gli faceva paura; aveva un
nome, sì, ma restava ai suoi occhi un qualcosa di vago e inspiegabile,
inafferrabile.
Sugawara
l'aveva guardato quasi con mortificazione, come se la colpa fosse sua e non di
Wakatoshi, della sua disattenzione, della sua incuria nel prendersi cura della
persona per lui più preziosa al mondo - ma no, no, non era colpa di nessuno.
Kenjiro era
malato, e le ricadute erano parte del processo di guarigione.
C’era ancora
speranza.
Presto gli
sarebbe toccato telefonare a Satori e ad Eita, e poi a tutti i loro amici, e ad
Ennoshita, e all’editore di Kenjiro, e spiegare quella situazione così
incomprensibile anche per lui; l’avrebbe fatto ben volentieri e senza battere
ciglio - d’altronde, erano ben poche le cose che non avrebbe fatto per Kenjiro
- ma domani, non prima: quella notte gli pareva già così pesante, così densa di
dolore e inquietudine.
Sembrava
quasi un termine, un ultimo passo avanti che non può non essere fatto: e forse
quel nome, quel foglio che stava stringendo tra le mani… forse era quello il
loro destino, il significato della loro vita insieme.
Qualcosa di
incomprensibile.
Il macigno
sul suo petto diventava sempre più pesante; quel disturbo era qualcosa di nuovo,
mai sentito prima. Wakatoshi non aveva idea di come aiutare Kenjiro.
Nonostante
fosse ormai avvezzo alla malattia di suo marito - sintomi come insonnia,
allucinazioni e un grado molto moderato di pensiero delirante erano ormai
familiari - per la prima volta non sapeva davvero che cosa fare.
Terapia,
farmaci e ospedalizzazione - ma solo se necessaria. Ormai viveva da anni
secondo quel paradigma, e ci aveva fatto l’abitudine. Era routine, e aveva
sempre funzionato.
Per anni
aveva imparato ad affrontare giorno per giorno anche i momenti peggiori della
schizofrenia di Kenjiro, e con gli anni era arrivato persino a comprenderla,
tuttavia non aveva mai visto nulla del genere prima d'ora.
Ma non vi
era traccia né accenno di fastidio, rammarico o amarezza nel suo cuore - la
malattia di cui gli avevano parlato il dottor Sugawara e il dottor Akaashi era
parte di Kenjiro, l’uomo di cui si era innamorato più di dieci anni prima, e
che ancora amava; non avrebbe mai potuto provare fastidio per qualcosa che rendeva
il suo Kenjiro ciò che era, per quanto fosse doloroso o difficile da trattare.
“Farò qualche telefonata e la
chiamerò al più presto, Ushijima-san - domani sera, o tra due giorni al più
tardi. Troveremo una soluzione” gli aveva detto infine Sugawara, determinato.
Sembrava
quasi una promessa.
Wakatoshi si
aggrappò a quella minuscola, flebile luce con tutte le sue forze.
C’era ancora
speranza.
**
Era uscito
qualche minuto prima; lo credeva addormentato.
Non era
stato facile, ma Kenjiro era rimasto immobile mentre dall’altro lato del letto
aveva sentito l’altro spostarsi, sedersi e infine alzarsi; le molle non avevano
cigolato affatto, ma aveva sentito il materasso muoversi.
Aveva avuto
paura. Ne aveva da giorni.
Ogni volta
che incrociava lo sguardo dell’altro, e i fili… i fili…
Wakatoshi
ormai era perduto - preso insieme a Taichi, e lontano, lontano da lui; al suo
fianco, un perfetto sconosciuto, una copia di cera, un burattino.
Credeva
davvero di poterlo ingannare? Kenjiro conosceva Wakatoshi. L’aveva sposato, lo
conosceva, e poteva chiaramente vedere che quello era solo un maledetto falso,
un…
Ancora non
capiva cosa volessero da lui; nessuno l’aveva minacciato.
Gli sguardi
sinistri e vitrei di quella folla di bambole rimanevano solo sguardi. Nessuno
aveva mai tentato un atto di violenza.
Kenjiro si
chiese se non fosse per via dei fili, se non fosse scomodo, se non fossero
impossibilitati a muoversi - che fosse un mero impaccio meccanico? O forse non
avevano volontà propria, forse… forse erano una sorta di risonanza, la
manifestazione di un desiderio represso, o forse di un incubo?
O erano solo
parte di un complesso, crudele gioco - forse si stavano solo prendendo gioco di
lui.
Buttò le
pillole nel cestino dopo averle avvolte in un fazzoletto; non si fidava di
quello sconosciuto, di quel falso Wakatoshi. Non voleva niente da lui.
E non poteva
dormire, doveva stare in allerta, doveva cercarli, trovare suo marito, e i suoi
amici… suo marito gli mancava, gli mancava più di ogni altra cosa, e non c’era
più tempo per essere triste o furibondo per un errore, l’impeto di una sera -
chissà se Oikawa Tooru si era già accorto dello scambio, chissà se aveva capito
che quello non era Wakatoshi.
Forse no,
no: l’impostore che aveva preso il posto di suo marito usciva ancora negli
orari più strani, quando credeva che lui dormisse, e forse aveva deciso di
continuare a vedersi con Oikawa, ad approfittare della sua ingenuità, del suo
non accorgersi…
Ma Kenjiro
non aveva tempo di preoccuparsene: doveva fuggire, fuggire da quella casa di
bambola abitata da impostori e burattini, e raggiungere Wakatoshi, trovarlo,
perdonarlo.
Doveva
dirgli che lo amava, che non aveva mai smesso.
Non sapeva
quanto ancora avrebbe retto sotto la pressione di quegli sguardi vitrei
dell’impostore che gli somigliava, ed era già crollato una volta, ed era stato
un errore, un terribile errore, e la sola memoria faceva nascere in lui e una
paura e un’angoscia mai provate prima; era stato un momento di rabbia, un
momento solo - voleva piangere e urlare e liberarsi dai fili, da tutti quei
fili e dalle crepe sulla porcellana, ormai fitte come una ragnatela, e
ricordava di aver spinto via il falso Wakatoshi, e di aver gridato contro di
lui.
Ricordava di
aver sentito la sua risposta meccanica, e finta, finta, e di aver risposto con
ancora più rabbia: non capisci, gli
aveva detto, che questa è una casa di
bambola? Che siete tutte bambole - e lo sei anche tu, e il dottor Sugawara, e
forse… forse anche io? O io soltanto? Vuoi che vada in mille pezzi, impostore?
È questo che vuoi? Lasciami andare, automa maledetto!
E forse era
davvero lui l’intruso, l’ultimo rimasto, e non sapeva più…
Che fare?
Non poteva neanche rivolgersi a Taichi, ormai; la sua ultima speranza era stata
soffocata dai fili, spenta con facilità, come una fiamma debole e tremula - e
cosa gli restava, poi? Non gli restava più niente, niente: una vita di
porcellana, una ragnatela di crepe - che importanza poteva avere?
Era tutto
sbagliato.
Si alzò in
piedi e si vestì in fretta. Sapeva di non poter riposare, di non essere in
grado di… cosa sarebbe successo, se avesse chiuso gli occhi? Non poteva… era
rimasto solo lui, d’altronde.
Sfogliò la
sceneggiatura che aveva finito di abbozzare per Ennoshita, per quel film, e la
sua promessa; era solo un’idea, solo una trama, una traccia ancora adattabile.
Sigillò il
plico di fogli in una busta, e vi scrisse sopra il nome del suo destinatario e
l’indirizzo.
Adagiò la
busta proprio al centro del tavolo della cucina, ben visibile: doveva
ricordarsi di spedirla.
E forse era
una precauzione inutile, forse avrebbe avuto modo di consegnarla direttamente
tra le sue mani, ma c’era qualcosa, quella sera, qualcosa che gli suggeriva una
certa sensazione di… finalità.
Gli sarebbe
piaciuto poter vedere il cielo stellato.
Sbloccò la
porta scorrevole e uscì sul terrazzo.
Le stelle si
vedevano bene: il cielo era limpido, e l’aria era fredda. Tirava un po’ di
vento, ma non era sgradevole.
Un impulso
inspiegabile gli fece afferrare la ringhiera, e inclinare in avanti il torso -
guardò giù, verso la strada e il vuoto che lo separava dall’asfalto. Era in
alto, ma non aveva paura.
Si sedette
sul muro del balcone proprio come aveva fatto giorni prima - settimane? - ed
osservò a lungo quel vuoto, e quelle stelle.
Era davvero
strano.
Era
bellissimo.
Voleva
muovere le mani, ma non ci riusciva; qualcosa sembrava essersi impigliato alla
ringhiera… un filo, sì, dei fili si erano impigliati alla ringhiera.
Provò a
staccarsi con uno strattone o due, ma era inutile; i fili erano
indissolubilmente uniti ai suoi polsi, fusi alla pelle, e forse… forse era
tardi anche per lui.
Non aveva
detto di non voler diventare una bambola? Certo, quella non era la vita che
aveva scelto, e Kenjiro non era solo quello: non era vetro e porcellana. I fili
non erano ancora riusciti a soffocarlo del tutto: lui era ancora lì. Era ancora
vivo.
Sporgendosi
ancora un po’, notò che i fili sembravano allentarsi, se tirava in direzione
opposta al terrazzo.
Ah, ma
certo: ora era tutto chiaro.
Con un
ultimo, piccolo slancio, portò in avanti anche tutto il resto del corpo, più
vicino a quel vuoto e al cielo trapunto di stelle.
E si lasciò
cadere.
Note
Vi ringrazio per aver letto fin qui!
Come al solito, un ringraziamento più che
dovuto alla mia carissima Chiara, sempre indispensabile per ogni parte del mio
processo creativo, per la stesura e per il betaggio delle mie storie <3
Con questo racconto breve, vorrei
inaugurare un piccolo progetto su cui sto lavorando già da qualche settimana:
una raccolta di racconti fantastici, di cui Casa
di bambola naturalmente fa parte.
Si tratterà di una raccolta di racconti brevi (di lunghezza inferiore o simile
a quella di questa oneshot) che avranno come protagonisti una coppia di
personaggi di Haikyuu!! sempre diversa (più o meno nota - ho scelto di
cominciare con due personaggi “inusuali”, ma intendo coinvolgere anche i più
noti!), e il tema conduttore è il genere a cui appartengono - il fantastico,
per l’appunto.
Adorerei davvero sentire i vostri
commenti, cosa vi è piaciuto e cosa no: chiedete pure tutto ciò che volete
nelle recensioni, se ne avete voglia, e io le leggerò e risponderò con molto
piacere!
Grazie ancora, e a presto con i prossimi
racconti!
Luna.