L’alba
in alta montagna è
qualcosa che ti toglie il fiato. È la sola cosa al mondo in
grado di buttarmi
giù dal letto prima del sorgere del sole: del resto, solo
qualcosa di
eccezionalmente bello potrebbe convincere una pigrona come me a
lasciare il
tepore delle coperte stropicciate e ad avventurarsi nell’aria
frizzante del
primo mattino.
A
volte è dura, lo ammetto, ma trovo
che vi sia un che di profondamente commovente nella quotidiana vittoria
della
luce sul buio. Mi piace guardare l’immensa placca che si erge
dall’altra parte
della valle, proprio di fronte al rifugio: è esposta a est,
quindi è tra le
prime ad accogliere il sole. Quando barcollo fuori dalla porticina
rossa,
avvolta in un vecchio maglione che un tempo non avrei indossato nemmeno
sotto
tortura, la montagna pare fatta di grigio metallo, freddo e lucente
come la
lama di un coltello. Tuttavia, bastano solo pochi minuti
affinché si compia il
miracolo: dapprima un puntino luminoso sulla sommità
estrema, tanto piccolo da
risultare quasi invisibile, poi una discesa lenta, ma costante, un velo
di rose
e oro che ricopre la roccia, facendola risplendere come il
più prezioso dei
gioielli.
E
dire che la prima volta in cui
assistetti a questo spettacolo pensai al sangue, al sangue scarlatto
che cola
da una ferita inferta da poco. Riesco quasi a sorridere, nel
ricordarlo: adesso
vedo che è solo luce, è solo sole, è
solo l’alba di un nuovo giorno.
Anche
qui esistono le giornate di
pioggia, naturalmente, e allora mi sento un po’ in balia
degli elementi: ma va
bene così, sono abituata a non avere il controllo totale
sulla mia vita – a
volte penso che se qualcuno venisse e mi dicesse “Ecco,
adesso dipende tutto da
te”, andrei nel panico più completo. Ma alla fine
è meglio sentirsi piccole di
fronte alla Natura, credo, piuttosto che al cospetto di un altro essere
umano:
perché la Natura è indiscutibilmente altro,
ha diritto di fare paura. La Natura è grande nelle sue
manifestazioni di
potenza, inarrestabile quando scatena il temporale e terribile quando
fa
rimbombare il tuono tra le pareti di roccia, riempiendo
l’aria di elettricità e
di odore di zolfo. La Natura è Madre, Matrigna e Padrona
– così mi hanno
insegnato a scuola. Un uomo, invece, è soltanto quello, un uomo; e non dovrebbe mai arrogarsi il
potere di schiacciare un suo
simile, di annullarlo
con le parole e con le azioni.
Solo
adesso mi rendo pienamente
conto di questa verità così semplice,
così intuitiva da essere troppo spesso
data per scontata. Adesso, che ho abbandonato i miei sogni per la
realtà. O
forse me ne sto costruendo di nuovi, chissà.
Nei
miei sogni di un tempo c’era
spazio solo per le cose belle, per le stanze ampie e ariose, per le
giornate di
sole, per le risate, per i vestiti eleganti, per le serate tra amici.
Sì, lo
sapevo, che esistevano la malattia, la solitudine, la tristezza,
persino la
morte: lo sapevo, ma quelle erano cose a cui non pensavo mai. E certo
non
pensavo mai alla violenza: ascoltavo distrattamente i telegiornali,
leggiucchiavo i volantini e i manifesti appesi ai muri della stazione
con la
stessa attenzione con cui avrei sfogliato una rivista di gossip. Erano
cose che
succedevano alle altre, quelle. Non a me. A me mai.
Ecco.
In
quante abbiamo commesso questo
errore? In quante siamo rimaste paralizzate dallo stupore e
dall’incredulità,
quando l’impensabile è accaduto? In quante abbiamo
voltato il capo dall’altra
parte, fingendo di non vedere i primi sintomi del male che presto ci
avrebbe
investite, implacabile?
O
forse sono stata solo io
l’idiota che non si è accorta di nulla. O, peggio:
che ha finto di non
accorgersi di nulla.
Che,
poi, a volte mi chiedo se
sia stata veramente violenza, quella che ho vissuto io. Mia madre
sostiene di
no; ed è per questo che ha smesso di parlarmi. È
per questo che mi ha riempita
di occhiate deluse, di silenzi impenetrabili, fino a spingermi ad
andarmene da
casa. Perché, io, di segni sul corpo non ne ho nemmeno uno.
Marco
non mi ha mai picchiata,
nemmeno una volta. Mi ha urlato contro, mi ha deriso, mi ha sputato
addosso il
suo disprezzo, mi ha fatta sentire una nullità, mi ha
portato via il lavoro, ma
le mani non le ha mai alzate.
Probabilmente
perché non gliene
ho dato il tempo.
I
segnali, dicevo. I segnali li
avrei dovuti vedere molto prima di quanto non abbia fatto. Avrei dovuto
ascoltare Chiara, che mi diceva che, a lei, il mio nuovo ragazzo non
piaceva
nemmeno un po’. Se ci ripenso adesso mi viene addosso una
rabbia incredibile,
perché per colpa di Marco ho perso anche la mia migliore
amica. O forse non è
stata colpa di Marco, perché quella arrogante sono stata io.
Me ne vergogno. Mi
vergogno di aver pensato che una ragazza che conoscevo da
più di vent’anni
parlasse per gelosia, perché io avevo il fidanzato ricco,
mentre il suo era
solo uno studente squattrinato. Che volesse separarmi da lui per non
essere
costretta ad assistere al mio successo; per non sfigurare di fianco a
me,
bella, inserita nella società “bene”,
con una carriera di tutto rispetto.
A
Chiara non glien’è mai fregato
niente di tutte queste cose. Lei studiava agraria, si esaltava per la
nascita
di un vitello e nel week-end andava a spazzare la stalla di suo zio.
Non credo
che i suoi sogni fossero migliori dei miei, ma non posso negare che lei
sia
stata un’amica migliore di me. Non posso nemmeno
rimproverarle di essersi
allontanata. Forse perché, in fondo, sono stata io quella
che ha scelto di
salire su un piedistallo troppo alto e troppo fragile.
Soprattutto,
però, avrei dovuto
ascoltare mio padre. Mamma no, lei è sempre stata troppo
simile a me – o,
meglio, io sono sempre stata troppo simile a lei. Come me, anche mia
madre era
abbagliata dal sogno che mi apprestavo a vivere, da quel giovane uomo
che
inaspettatamente – ma non troppo – si era
interessato a me. Era il figlio del
capo, lui. Aveva dieci anni in più di me, aveva la testa
sulle spalle e, cosa
più importante, aveva anche un’azienda. Per la mia
mamma quella era già una
garanzia. Anche per mio padre era una garanzia: la garanzia che il tipo
che
avevo portato a casa una sera di ottobre era uno stronzo fatto e finito.
Ha
sempre avuto le sue idee, il
mio papà. È strano come un tempo mi sentissi
lontana da lui anni luce e adesso,
mentre aspetto il sorgere del sole, seduta su un sasso freddo di brina
e bagnato
delle lacrime della notte, la sua visione del mondo diventi ogni giorno
un po’
più mia.
Lui
diceva che i tipi come Marco
non sanno dare il giusto valore alle cose, diceva che prendono,
consumano e
buttano senza riguardo. Non so se avesse ragione, a dire il vero, ma di
certo
avrei fatto bene a prendere un po’ più sul serio
la sua diffidenza.
Subito,
però.
Già
quando andava ancora tutto
bene, quando ancora la mia storia appena nata mi sembrava una favola,
troppo
bella per essere vera. E forse lo era veramente. Troppo bella, intendo.
Perché
a me ancora piacciono, le
cose che Marco faceva per me: in un mondo in cui i miei primi ragazzi
mi
chiedevano di dividere anche il prezzo di un gelato, mi pareva
incredibile che
un uomo che frequentavo da una settimana soltanto mi offrisse una cena
in un
ristorante di lusso, senza chiedermi un centesimo e scostandomi
addirittura la
sedia, come un vero gentiluomo. La cavalleria non è morta,
pensavo.
In
azienda lui era più freddo,
più distante. Ma anche la sua freddezza era giocosa,
complice. Il figlio del
capo che se la fa con l’ultima arrivata,
l’impiegata bellina, ma un po’
imbranata. Che la guarda, sperando che i colleghi non lo notino,
perché sarebbe
troppo sconveniente. Che le sorride. Che si innamora di lei. Che le
chiede di
uscire. E poi anche di sposarlo.
Ma
dove succedono, cose del
genere? Solo nei libri, pensavo io, e forse in qualche film. E invece
no, era
tutto vero, tutto reale; e stava accadendo proprio a me.
Dal
mio punto di vista
privilegiato, quello che solo il senno del poi sa offrire, adesso
riesco a
vedere che già allora c’era qualcosa che mal si
adattava al copione da romanzo
rosa che mi pareva di recitare. Uscivamo spesso con i suoi amici,
trascorrevamo
– trascorrevano
– serate
interminabili a parlare di affari e di cose serie, ma quando gli
proponevo di
uscire con i miei, di amici, lui sbuffava e alzava gli occhi al cielo.
È
normale, pensavo. Ha dieci anni in più di noi, i nostri
discorsi devono
sembrargli chiacchiere da ragazzini.
Mi
tenevo uno o due giorni al
mese per uscire da sola, con le mie amiche. Che male
c’è?
Ricordo
il primo, vero litigio.
Non voglio che continui a sfilare, mi aveva detto.
Eh. Sfilare.
Parola
grossa, quella. Il mio era
solo un passatempo innocuo, piacevole, spesso addirittura fatto a fin
di bene.
Anni prima mi ero iscritta a una piccola agenzia di modelle, una cosa
dilettantistica. Era divertente, avevo anche dei piccoli sconti sugli
abiti che
mi venivano fatti indossare. Niente di scandaloso. Niente intimo, al
massimo
qualche costume da bagno. Tanti abiti da sposa.
Ma
a Marco non stava bene. Non
per me, eh: diceva che rovinava la sua immagine. Voleva che smettessi.
Forse è
proprio per questo che, all’inizio, mi sono opposta alla sua
richiesta: mi
costa ammetterlo, ma credo che, se mi avesse posto quel divieto per
gelosia,
avrei obbedito senza battere ciglio. Credo che, stupidamente, mi sarei
sentita
preziosa, bellissima.
E
invece lui non voleva che i
suoi amici pensassero che si fosse fidanzato con una ragazza
facile: come potevo essere così stupida da non
capire
quello che gli altri pensavano di me, quando sculettavo sui tacchi nel
bel
mezzo di una piazza cittadina? Possibile che non mi rendessi conto che,
se
volevo diventare sua moglie, dovevo imparare ad avere un po’
più di classe?
Ecco,
la mise in questi termini:
o smetti di sfilare o ci lasciamo. E io, cretina che sono, smisi di
sfilare.
Cretina, dico, non tanto per il fatto di avere abbandonato il mio
hobby, quanto
piuttosto per l’essere stata incapace di vedere
ciò che veramente si nascondeva
dietro a quello che, all’epoca, mi parve un capriccio, una
paranoia un po’
sciocca: per Marco, io ero e sono sempre stata un accessorio. Non avevo
una
personalità, dei desideri, una volontà: o, se
anche li avessi avuti, li avrei
dovuti sacrificare per omologarmi a lui.
Quando
terminai il periodo di
prova nella ditta di suo padre, il mio contratto non venne rinnovato.
Inizialmente perché, con la crisi che picchiava duro, non
potevano permettersi
di assumere un’impiegata in più. Poi, quando
comparvero delle facce nuove, il
problema divenni io. Non avevo ancora delle competenze abbastanza
specifiche,
non sapevo fare abbastanza cose. Avevano bisogno di un po’ di
tempo, così da
trovare un ruolo più idoneo per me. Nel frattempo, che
restassi pure a casa:
tanto non avrei certo avuto bisogno di lavorare, io. Potevo permettermi
di
dedicarmi ad altre cose, ci avrebbe pensato Marco a guadagnare a
sufficienza
per entrambi. E poi, se un giorno fossero arrivati dei bambini, avrei
dovuto
restare a casa comunque, a occuparmi di loro.
E
qui sta la cosa curiosa: c’è
stato un periodo in cui pensavo che fosse proprio quella, la vita che
volevo. Pensavo
che non ci fosse nulla di meglio di avere un marito ricco, che fosse in
grado
di mantenermi e che mi lasciasse tutto il tempo per dedicarti ai miei
hobby e
alle mie passioni. Quando però mi ci ritrovai davvero, in
quella situazione, capii
che la realtà e i sogni non erano proprio la stessa cosa.
Sono
sola, adesso, la stagione
turistica non è ancora esplosa e il rifugio è
deserto, a quest’ora di mattina:
eppure nemmeno ora mi sento tanto sola quanto in quei primi dieci mesi
di matrimonio.
Di quel tempo ricordo soprattutto una cosa: la disillusione.
L’incredulità,
prima, ma poi la disillusione.
All’inizio
pensavo che fosse solo
questione di tempo e che la sensazione che mi mordeva lo stomaco
quando, la
mattina, mio marito andava a lavorare e io rimanevo sola in una casa
troppo
nuova sarebbe presto scomparsa. Quando capii che non se ne sarebbe
andata, ma
che, al contrario, avrebbe piantato radici sempre più
profonde nel mio animo,
pensai che sarebbe stato utile trovare qualcosa da fare.
Scelsi
il giardinaggio. Mi piaceva
prendermi cura dei fiori, mi allettava l’idea di decorare il
giardino seguendo
un disegno che era solo ed esclusivamente mio. Quando tornai dalla
serra con la
macchina carica di piante, però, Marco andò su
tutte le furie. Pretese di
sapere quanto avevo speso e, quando glielo rivelai, mi diede della
cretina,
dicendo che, con quei soldi – che erano i suoi
soldi, a voler essere precisi – avrei potuto pagare un buon
giardiniere. Che,
per inciso, avrebbe fatto un lavoro infinitamente migliore di quello
che avrei
mai potuto fare io.
Sistemai
comunque i miei fiori e
le mie piantine, ma la cosa non mi diede alcuna gioia. Non sono mai
stata brava
a fare le cose esclusivamente per me stessa.
Da
lì fu tutto in salita – o in
discesa, a seconda dei punti di vista. Piano piano, iniziai a rendermi
conto
quello che ero veramente: una giovane donna di nemmeno
trent’anni che non
viveva più, ma si limitava a esistere, come un soprammobile
di cristallo. Bello
e prezioso, sì, ma, in fin dei conti, inutile.
Poco
alla volta, gli svaghi che
Marco mi offriva persero la loro attrattiva: le escursioni in macchina
divennero routine, le gite in barca un’occasione per
sfoggiare un bolide
costato troppo e usato troppo poco, le cene con gli amici
un’occasione mondana
da cui io, che di finanza sapevo poco, ero sostanzialmente esclusa.
Iniziarono
a mancarmi le mie
amiche e, soprattutto, iniziò a mancarmi la mia famiglia;
quella famiglia che
ormai vedevo solo una volta ogni quindici giorni.
Fu
quando mi ritrovai a piangere
sul divano di pelle, scoprendolo troppo diverso da quello un
po’ liso della
casa dei miei genitori, che capii che era giunta l’ora di
prendere in mano la
situazione. Era giunta l’ora di rendere mie
quella casa e quella famiglia.
Iniziai
a dire i primi no. No
alle vacanze con i suoceri, no
al
tappeto di un colore che odiavo, no
all’annullare l’uscita con mia sorella.
Marco
sulle prime parve divertito
dalla mia presa di posizione, sorrideva accondiscendente, come si
farebbe con
un bambino un po’ buffo, che non si rende conto dei propri
limiti.
Poi
la cosa iniziò a
infastidirlo. Passò al contrattacco; e fu un bombardamento a
tappeto.
Prima
furono i soldi. Era lui che
guadagnava, lui che portava a casa il pane e io mi sarei dovuta
mostrare
riconoscente, invece che avanzare continuamente delle pretese da
bambina
viziata. Che non facessi la vittima, diceva, perché lui non
mi faceva mancare
niente: né l’utile né il dilettevole.
Io, di fatto, non facevo nulla per
portare avanti la baracca: nemmeno i lavori di casa, visto che gli
toccava
pagare una donna che pulisse al posto mio.
Quando
gli feci notare che non
avevo preso una laurea per poi passare la vita a lavare i pavimenti,
lui
ribatté che, a quanto sembrava, la mia laurea era sprecata
comunque, dal
momento che passavo la giornata con le mani in mano, senza mettere a
frutto i
soldi che i contribuenti avevano speso per la mia formazione.
Allora
mi cercai un lavoro, per
mettere a tacere mio marito e la mia insoddisfazione,
perché, al di là di
tutto, la depressione per una vita sprecata iniziava ad avvolgermi
nelle sue
spire. Le cose non migliorarono, però. Anzi, peggiorarono,
perché io un lavoro
non lo trovai mai. E non fu colpa della crisi, della situazione
economica
disastrosa in cui si trovava il Paese: no, ero io che ero una buona a
nulla,
ero io che non riuscivo a convincere nessuno ad assumermi. Neppure suo
padre,
avevo convinto. Per questo mi aveva lasciata a casa.
Mi
sputava addosso il suo
disprezzo; e allora gli chiesi perché mi avesse sposato.
Perché mi pensava
diversa, disse. Mi pensava più divertente, più
intelligente. E invece ero solo
un’arrampicatrice sociale. Volevo i suoi soldi, la sua casa,
ma non volevo
faticare per averli. E, quel che era peggio, non avevo nemmeno la
capacità di
guadagnarmi il rispetto della gente che mi stava attorno.
Ero
inutile.
I
suoi attacchi erano ridicoli,
deliranti, insensati. Mi rimbalzavano addosso, venivano respinti dalla
corazza
di indignazione della quale mi ero rivestita. Ma, rimbalzo dopo
rimbalzo,
quella corazza iniziò ad ammaccarsi e le sue parole
riuscirono a raggiungere la
mia pelle. E poi affondarono, giù, fino al cuore.
Ero
inutile.
Vista
da fuori, ero sempre
sorridente. Mostravo i miei vestiti nuovi, i miei capelli perfetti; e
intanto
mi sentivo come una di quelle mogli-trofeo che ogni tanto si vedono nei
film.
Quelle che avevo sempre disprezzato. Che poi, diciamocelo, non
è che io fossi
esattamente bella come loro. Ero carina, sì, ma niente di
più. Ero solo
vagamente decorativa.
Ero
inutile.
Poi
un giorno Chiara venne a trovarmi.
Ero felice di vederla, ci eravamo perse di vista quasi un anno prima,
da troppo
tempo i nostri rapporti si erano ridotti a una sporadica telefonata qua
e là.
Le offrii da bere, un rosso che Marco teneva in cantina per le
occasioni
speciali.
Lo
feci apposta, oh, sì. Era un
dispetto infantile, una piccola vendetta, che però mi fece
fremere di
soddisfazione. Poi lui arrivò. Rivolse a Chiara uno sguardo
di disprezzo, il
solito, poi vide la bottiglia.
Perché
l’hai aperta, mi chiese.
Era per un’occasione speciale.
Questa
è un’occasione speciale,
gli risposi. Festeggio con una mia amica.
Non
era tua. Avresti dovuto
chiedermelo. Oca.
Mi
infuriai. No, davanti a una
mia amica no. Non mi avrebbe insultato.
Vieni
in cucina.
Vieni
in cucina, allora.
Non
mi ricordo molto, di quello
che accadde in cucina. Ricordo l’improvvisa furia nei suoi
occhi, quella che
non avevo mai visto prima d’allora. Ricordo la rabbia, il
disprezzo. Mi ricordo
contro il frigorifero, con il cuore che esplode di odio e di paura.
Ricordo la
sua voce che urla, il suo viso a un centimetro dal mio, la sua saliva
sulla
fronte. I suoi pugni sul metallo. Io che retrocedo, che mi appoggio
alla
credenza, un coltello dimenticato, sangue sulla mia mano.
Poco
poco. Quasi impercettibile
Ma
rosso.
Il
mondo che gira e,
inspiegabilmente, un presagio.
E
poi la calma.
Non
in lui, in me.
Me
ne vado, gli dissi.
Sì,
vattene. Da me non avrai un
centesimo.
E
così me ne andai. Semplicemente
così, con l’auto di Chiara – anche la
“mia” Cinquecento era, in realtà, sua.
Così
finì quello che, quando era
iniziato, mi era sembrato un sogno. Quando me ne tornai a casa dei miei
genitori, non avevo più nulla. Non solo non avevo gli
oggetti che avevo
lasciato a casa di mio marito: non avevo più niente dentro. Perché, anche se
sapevo che le parole di Marco non valevano
niente, anche se sapevo che gli ultimi quindici mesi di vita non li
avevo persi
da sola, qualcosa era cambiato, in me.
Il
rapporto con un’amica tenuta
lontana per mesi e mesi non si recupera in una notte. Il lavoro perso
non lo si
riacquista magicamente. La solitudine di un anno non sparisce
così, come se
nulla fosse. In più, ho perso mia madre, perché
lei non ha mai capito quello
che ho vissuto. Lei crede che mi sia arresa troppo presto, che non
abbia avuto
la costanza di superare un periodo difficile e portare avanti un
progetto di
vita che io stessa mi ero scelta.
Perché,
se ci pensate bene, la
mia storia è banale: non sono mai stata picchiata, io. Non
sono stata
accoltellata, sfigurata, violentata. Non sono stata uccisa.
Marco
si è solo preso la mia
autostima. I miei sogni. Tutti quello che sapevo di me. Marco mi ha
tolto il
posto che ho sempre chiamato “casa”. Marco mi ha
tolto uno scopo. Marco, forse,
mi avrebbe annientata in un modo subdolo e sottile, se non fosse stato
per mio
padre e per un insperato colpo di fortuna.
Perché,
grazie al mio papà, venni
a sapere che c’era la possibilità di prendere in
gestione un piccolo rifugio
poco frequentato, su in valle, in un posto di cui conservavo solo
qualche
ricordo offuscato risalente a quando ero bambina.
Accettai
d’impulso, pur di
sfuggire alla mia vita in frantumi e alla disapprovazione di mia madre.
E,
chissà, forse quello fu il primo passo verso il mio riscatto.
Non
è stato facile, perché tutto
è così diverso, qui. Tutto è
così differente dalla vita che sognavo per me. So
che non è una soluzione definitiva, questa. Farò
una stagione, forse due, poi
tornerò giù. Però, a volte rido
pensando a quanto sia straordinario che, in
così poco tempo, io sia riuscita a crearmi delle aspirazioni
tutte nuove. Degli
interessi, nuovi.
Non
è forse una vittoria, questa?
Altri
giorni penso che no, non lo
è. Se avessi vinto, non avrei dovuto abbandonare i miei
vecchi sogni. Se avessi
vinto, avrei avuto la costanza di inseguirli, sempre e comunque.
Ma
alla fine penso: quando sono
arrivata, il rosso del sole che sorge mi ricordava quello del sangue
che, una
sera, avevo visto scorrere nel mio futuro. Adesso mi sembra solo la
fiamma
dell’alba che squarcia il velo dell’ombra e
dell’incoscienza.
E
questa, sì, è una vittoria.
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