capitolo XVIII
CHI NON MUORE SI RIVEDE! Grazie a tutti, non odiatemi troppo!
CAPITOLO
XVIII
A
cervello spento e col gelo nel cuore Joseph sorpassò l'ormai
minuscola sagoma di Katrina e coprì a lunghi passi la breve infinita
distanza tra lui e la sua fine. Spalancò la grande porta ad occhi
chiusi, pregando un dio in cui nemmeno credeva affinché riaprendoli
potesse vedere solo il sorriso della sua ragazzina.
Non
appena le sue palpebre si sollevarono la sua vista fu subito ferita
dall'immagine di William, vivo e vegeto, che gli dava le spalle.
Stringendo i pugni e prendendo fiato lasciò scorrere gli occhi verso
il pavimento e proprio lì, nell'angolo destro, le sue peggiori paure
presero vita nella sagoma sdraiata di Cara. Senza troppa grazia se ne
stava prona sul pavimento gelido, il viso addormentato e la pistola
abbandonata poco distante. Sotto il suo corpo la pozzanghera di
sangue carminio andava allargandosi nel silenzio più totale.
Joseph
lasciò che lo shock del momento risucchiasse tutta l'aria dai suoi
polmoni ed il sangue dal suo cervello. A stento riuscì a voltare di
nuovo il capo verso l'altra persona viva nella stanza. William si
voltò impassibile come sempre, le mani impegnate a lucidare l'arma
che aveva appena usato per sparare, scrutò il viso pallido di Joseph
e sollevò il sopracciglio
“Ti
senti bene figliolo?”
Quella
parola lo graffiò come una lama in viso ed i suoi occhi tornarono a
fissare la pace di Cara sul pavimento. William seguì pigramente la
traiettoria del suo sguardo e ripose l'arma sulla scrivania
“Era
roba tua?”
Chiese
atono, parlando di lei come fosse una cosa qualsiasi gettata a terra.
La prima ondata di sangue bollente si riversò nelle mani tremolanti
di Joseph, mentre l'altro proseguiva, osando addirittura un sorriso
sardonico
“Avrei
dovuto immaginarlo. Tutti i miei figli hanno pessimo gusto in fatto
di donne.”
Stavolta
fu un rigurgito di bile ad affacciarsi alla bocca di Joseph, amara
com'era amaro e pungente l'odore in quella stanza. William abbandonò
la sua posizione di trionfo e raggiunse il carrello degli alcolici
per versarsi due dita di whisky.
“Ne
vuoi?”
Domandò,
ma non ottenne risposta. Il figliastro era ormai una statua al centro
dello studio, il viso bianco come la maglietta sudata che indossava.
“Bella
ragazza senza dubbio... Troppo giovane... E sicuramente troppo
lenta...”
Continuava
a parlarne come se non fosse davvero lì, sdraiata a morire sul suo
prezioso parquet, come se non avesse alcuna importanza.
“Sei
stato tu a mandarla qui?”
Ancora
niente.
“Avresti
potuto almeno insegnarle qualcosa di meglio.”
Joseph
si lasciò ferire anche da quel subdolo mascherato tentativo di
addossargli la colpa. Le vene del collo iniziarono a pulsargli forte
fin dentro le orecchie ed il fischio acuto nella sua testa coprì
finalmente la voce fastidiosa di William.
“Ti
ho addestrato meglio di così.”
Scolata
l'ultima lacrima di liquido dorato il più anziano poggiò il
bicchiere e finalmente si voltò con l'indice puntato al cielo. I
suoi occhi scuri incrociarono lo sguardo in fiamme del killer che
aveva cresciuto. Scuro in volto come pece, Joseph digrignava i denti
ed espirava fumo invisibile dalle narici. Le mani strette tremavano
visibilmente ed il petto andava su e giù, veloce sotto la chiazza di
sudore che gli si stendeva sul petto. Le pupille divenute puntini
fissavano la meta come un toro fissa il telo rosso prima di caricare.
William sollevò nuovamente le sopracciglia, sul suo volto spento
campeggiò per un secondo un velo d'autentica ammirazione.
Un
ringhio profondo e spaventoso vibrò nella gola di Joseph mentre le
sue nocche si facevano bianche. Un urlo di puro disprezzo eruppe
dalle sue labbra rimbombando nella stanza chiusa, i suoi piedi si
mossero senza controllo ed il suo pugno serrato si scontrò senza
remore contro il volto dell'uomo che l'aveva cresciuto. William
barcollò cadendo contro la libreria di sinistra. Vetro e legno si
frantumarono a terra, mischiando il loro fragore alle urla disperate
di Joseph. Un cazzotto ed un altro. Ed un altro ancora. William
incassava in silenzio come un vero boss, appiccicandosi in viso il
più autentico ed inquietante sorriso divertito. Joseph gli colpì il
naso mentre l'altro gli rideva in faccia, deciso a trattarlo come
feccia fino all'ultimo.
“Questo
è per mamma!”
Gli
urlò contro assestando l'ennesimo colpo allo zigomo. Ormai non
riusciva più a vedere il volto di suo padre sotto la maschera di
sangue che andava dipingendo coi suoi pugni, ormai la sua testa era
occupata solo dall'andirivieni di immagini, ricordi e fantasie che
per quasi trentatré anni aveva represso. Il viso di sua madre, le
carezze nascoste, le ronde notturne, il braccio spezzato e l'ipocrita
torta delle domenica. Il vestito blu che Cara indossava sull'aereo,
lo shampoo all'albicocca e le sue lacrime addosso. Ogni pensiero
rifiutato andava riprendendosi il proprio posto, scansando a calci
gli ultimi brandelli di rispetto rimasti per quel figlio di puttana
che gli aveva dato nulla più che un nome altisonante. Le sue nude
mani facevano male, ma non abbastanza da volersi fermare. L'avrebbe
ucciso lì e adesso, con le sue sole dita.
“E
questo è per lei!”
Ancora
un altro pugno, ancora le sue nocche contro qualcosa di viscido e
croccante allo stesso tempo. Tutto il resto non esisteva più, il
suo sogno finalmente si stava realizzando, il suo demone si stava
scatenando ed i suoi occhi, i suoi occhi stanchi non avrebbero più
visto quel brutto muso. Trattenendo William per il collo della
camicia, respirò a fondo sollevando il pugno. Non si sentiva più le
dita e tutto il braccio parve dolergli di colpo. L'unico padre che
avesse mai conosciuto respirava ancora, l'occhio destro, appena
aperto, lo guardava con più rispetto di quanto non ne avesse mai
avuto in una vita. La sua folta barba grondava del sangue che aveva
sputato ed il suo petto andava su e giù senza sosta
“Bravo
figliolo...”
Raspò
tra sangue e saliva
“...Ecco
cosa ti ho insegnato.”
Joseph
strinse i denti caricando l'unica arma a sua disposizione. Un ultimo
colpo ben assestato e gli avrebbe spezzato il collo, liberandosi per
sempre dell'uomo che ancora una volta si era preso tutto. Sua madre,
la sua gioventù, la donna di cui si era innamorato. Solo un ultimo
colpo...
“Fermati.”
Elia.
La straziante, terribile voce di Elia. Il braccio gli si bloccò a
mezz'aria nonostante non volesse
“Fermati
Joseph.”
La
voce lenta, ferma, tranquilla quasi. Il sangue gli ribollì nelle
vene ancora una volta.
“Merita
di morire!”
Urlò
in faccia a William, ancora stretto e barcollante nella sua presa
“Lo
so... Ma non così.”
Joseph
voltò il capo senza mollare la stretta, gli occhi atterriti e
disperati rivolti al fratello. Elia si fece strada nella stanza e
raggiunse le sagome ansimanti degli altri due. Suo padre indossava
una maschera sanguinolenta, ma, come sempre nel suo stile, non
lasciava trapelare alcun dolore o sentimento.
“Credo
che abbiamo tutti bisogno di un drink.”
Si
avvicinò al carrello degli alcolici, mise tre bicchieri in fila e
lentamente li riempì dando le spalle alla scena. Due dita precise in
ognuno. Poggiò il primo drink nel disordine della scrivania e poi,
calpestando vetri e polvere, arrivò fino a Joseph. Cercò gli occhi
di suo fratello e con tutta la calma possibile gli porse il secondo
“Lascialo.”
Intimò.
Una scintilla gli percorse le pupille, mentre il suo sguardo
percorreva la breve strada tra il viso di Joseph e le sue dita
strette attorno al collo di William. Tornò a guardare suo fratello
con lo stesso fuoco negli occhi. Joseph ingoiò a forza l'adrenalina
che ancora gli scorreva dentro. C'era qualcosa in quell'occhiata
fiera e decisa, qualcosa che non poteva ancora decifrare, ma che lo
spinse comunque a mollare la presa.
William
si abbandonò con un tonfo sul legno e, curvo su sé stesso, prese a
tossire sangue e bava.
“E
adesso bevi.”
Joseph
afferrò con disdegno il bicchiere dalla mano di Elia e, senza
mollare i suoi occhi, digrignò i denti un'ultima volta prima di
mandar giù. Il maggiore annuì in maniera impercettibile e tornò
indietro per recuperare il proprio scotch. Non voleva darlo a vedere,
ma i suoi muscoli fremevano di rabbia ed incredulità, ancora
tramortito dalla storia di sua moglie. Avrebbe mai potuto mentire su
una cosa del genere? Come poteva fidarsi di lei? Davvero suo padre
aveva distrutto la sua famiglia? Davvero aveva ucciso la mamma?
Perché Katrina aveva parlato solo ora? Era forse l'ultima disperata
mossa del suo piano?
William
si tirò finalmente su e si riempì i polmoni a fatica. Gonfio e
livido, non mancò comunque di sorridere vittorioso
“Ce
ne hai messo di tempo Elia...”
Si
schiarì la voce cercando di ricomporsi
“...Il
mio figlio migliore.”
Joseph
sentì le mani tremare di nuovo e poco mancò che di nuovo partisse
all'attacco, stavolta per finire l'opera
“Fermo.”
Nuovamente
Elia lo bloccò, avanzando verso di loro. Squadrando le spalle cercò
gli occhi dell'uomo che gli aveva dato la vita
“Hai
ucciso tu nostra madre?”
L'altro
sembrò per nulla colto di sorpresa dalla domanda diretta, si passò
il dorso della mano sulla bocca
“Dopo
il modo in cui mi ha mancato di rispetto?”
Il
suo occhio buono guardò Joseph con disprezzo
“In
cui ha disonorato la famiglia?”
Si
tirò su all'altezza del suo figlio prediletto
“Sì.
L'ho uccisa. Ho vendicato il mio nome... ed anche il tuo.”
Elia
chiuse gli occhi per un istante o due, ascoltando nel silenzio solo
il ringhio di Joseph. Ogni secondo diventava più difficile star
fermo e comunque, qualsiasi strana cosa Elia avesse in mente, quel
bastardo non sarebbe mai uscito vivo dalla stanza. Mai e poi mai.
“Non
essere arrabbiato figliolo...”
Riprese
William afferrando la poltrona per tenersi in piedi e ridarsi un tono
“...Sai
bene come funziona. Il perdono rende deboli e noi non siamo deboli...
Noi siamo i Michaelson!”
Sottolineò
con fierezza accarezzando la pelle sotto il suo palmo, lanciando
un'occhiata compiaciuta, quasi divertita, al figlio bastardo che
fremeva poco più là. Elia indietreggiò di un passo facendosi più
vicino al fratello
“Giusto.”
Rispose
atono, scatenando ancora una volta il pieno stupore di Joseph
“Ma
che cazzo stai dicendo?!!”
Il
maggiore scrollò le spalle
“Ci
sono cose che non possono essere perdonate Joseph...”
Mollando
lo sguardo del fratello si diresse di nuovo verso William
“...Cose
che nessun uomo dovrebbe sopportare...”
Si
sollevò squadrando le spalle
“...soprattutto
un Michaelson.”
William
storse le labbra livide in un fiero sorriso. Ancora una volta la
ruota girava a suo favore. Sapeva di aver cresciuto bene il suo
secondogenito, ma le sue convinzioni avevano vacillato al sentir
parlare di Amelia, temendo che il ricordo materno potesse oscurare il
suo potere. Quella donna l'aveva reso ridicolo in vita, ma
fortunatamente ogni sua influenza era stata sepolta tra strati di
seta e chiodi d'acciaio. Sollevò finalmente il bicchiere e
l'avvicinò al naso per apprezzare dapprima l'odore della vittoria.
Un'altra guerra vinta.
“Hai
costretto Katrina ad andarsene?”
Le
labbra di William si serrarono appena prima che potesse assaporare il
velluto di quella bevanda pregiata. La puttana aveva cantato alla
fine. Collera e disprezzo si riaccesero tra le sue costole doloranti,
ma sul suo viso si dipinse nulla più che ilarità
“Non
crederai mica a quell'arrampicatrice sociale figliolo?”
Elia
rimase in piedi, facendosi più rigido di prima, ancor più del
fratello sconvolto che gli trafiggeva le spalle con gli occhi
William
tornò allora a sedersi sulla sua amata poltrona e, sollevando le
mani all'aria, decise di giocare la carta dell'onestà. Si trattava
di Elia dopotutto, il figlio placido ed obbediente, quel figlio che
pendeva dalle sue labbra come un leone dalla frustra del suo
domatore. Poteva sì provare a ribellarsi, ma uno schiocco o magari
due l'avrebbero di certo rimesso al proprio posto
“Va
bene, va bene, va bene...”
Incrociò
le mani sullo stomaco
“...Ammetto
di aver detto delle cose che potrebbero averla spinta ad andarsene.”
Di
fronte allo sguardo ancor più vitreo di suo figlio, sbatté i palmi
sulla scrivania
“Ma
l'ho fatto per te figliolo, perché non potevo sopportare che ti
trattasse come un burattino, che ti manipolasse come un patetico
cucciolo innamorato...”
Col
disgusto sulla lingua balzò di nuovo in piedi e puntò l'indice
contro Elia
“...Tu
sei William Michaelson Quarto! Sei l'erede del mio impero, il più
forte, il più intelligente... Il figlio che ho cresciuto con
orgoglio e dedizione... Tu non sei un debole... Nessuna donna vale
più del tuo nome, tanto meno quell'insignificante Pushkina ed i
frutti del suo sporco ventre!”
Nonostante
le carezze del diavolo, il figlio prediletto non si smosse di un
millimetro
“Elia...”
Joseph
tornò finalmente a farsi sentire. Non capiva più di cosa suo padre
stesse parlando, ma doveva assolutamente svegliare suo fratello da
quel coma apparente prima che William completasse il suo incantesimo
“...non
ascoltarlo!”
Come
poteva farsi abbindolare ancora una volta? Come poteva?
Ed
Elia finalmente si mosse. Sospirando abbassò il capo per guardarlo
con la coda dell'occhio
“Perché
no? In fondo ha ragione...”
A
passi lenti, accompagnato dalla sconcerto di Joseph, raggiunse il
carrello ed afferrò il proprio drink, finora ignorato
“...Sono
io, William Michaelson Quarto...”
William
sollevò il sopracciglio, nascondendo in maniera maldestra il suo
reale stupore
“...Ed
è tempo che renda onore al mio nome.”
Detto
ciò si voltò verso suo padre e con la schiena dritta ed il mento
sollevato, innalzò il bicchiere a mezz'aria proponendo un brindisi
silenzioso. William si gonfiò il petto d'orgoglio e contrasse le
labbra livide in un sorriso pieno. Era talmente fiero di sé che
sarebbe potuto scoppiare come la rana dalla bocca larga narrata da
Fedro. Raccolse il drink e rispose al gesto senza pensarci due volte
“A
te figlio mio.”
Tuonò
trionfante guardando non Elia, ma Joseph. Quel brindisi era per lui,
per sottolineare ancora una volta quanto fosse inutile ed
insignificante, quanto ai suoi occhi non valesse nulla. In quella
stanza era piccolo ed invisibile, pietoso come il suo misero piano
fallito, inerme ed irrilevante come il cadavere della sua donna che
si dissanguava sotto i suoi piedi.
Mandò
giù in pochi sorsi decisi, senza nemmeno sentirne il sapore. Ma
anche se si fosse preso tutto il tempo di assaporare sulla lingua le
note di agrumi, mele e vaniglia, fino a scorgere i vaghi sentori di
fumo e spezie esotiche, nemmeno allora avrebbe potuto capire cosa
stesse per succedergli.
Il
tonfo sordo del bicchiere sul legno risuonò nella stanza, forte e
vibrante come il gong dell'ultimo round.
“Noooo!”
Urlò
Joseph pronto a scagliarsi verso William come una furia. Stavolta
niente e nessuno l'avrebbe fermato e se fosse servito avrebbe
massacrato anche Elia senza pietà, tanto forte da spappolargli il
cervello. Non poteva credere che fosse successo, che quella scena
orrida e raccapricciante si fosse davvero svolta davanti ai suoi
occhi. Non era possibile.
Non
era possibile.
Non
era possibile.
Il
corpo di Elia s'interpose di nuovo tra lui e William, fermando la sua
corsa in uno scontro di mani e casse toraciche. Era così che doveva
andare allora, non solo suo padre, ma anche suo fratello. Elia gli
afferrò i pugni e lo spinse indietro con forza
“Deve
morire!”
L'ultimo
urlo disperato di Joseph si scontrò con la mano gelida di Elia che
gli afferrava il volto e lo costringeva a guardarlo
“E'
già morto.”
La
fronte di Joseph s'incurvò di confusione. I suoi muscoli, colmi di
sangue e cortisolo, tentarono di muoversi ancora un paio di volte
prima che il suo sguardo cadesse sulla scrivania di William ed il
cervello ripristinasse il flusso della ragione
“E'
già morto.”
Ribadì
l'altro, scandendo stavolta ogni parola con calma ed un alone di
dolcezza. La sua mano, non più fredda, scivolò dal viso di Joseph e
tornò morbida lungo il suo fianco. L'occhiata che i due fratelli si
scambiarono in quell'istante di realizzazione fu quanto di più
intimo avessero mai vissuto, più potente del primo omicidio e più
profonda di ogni patto di sangue condiviso. Quel momento cancellava
ogni torto, ogni dubbio, ogni gelosia. Quell'attimo li rese
finalmente fratelli, non più solo a metà.
“Che
diavolo stai...”
Le
parole di William perirono a mezz'aria. I suoi occhi caddero sul
bicchiere vuoto poggiato sulla scrivania
“Che
cosa hai fatto Elia?”
Domandò
in un onesto mix di paura, stupore ed incredulità. Elia prese un
lungo respiro ed espirando lentamente osservò per l'ultima volta i
tratti dell'uomo che gli aveva dato la vita. Amore e timore. Rispetto
e paura. Orgoglio ed incertezza.
“Te
l'ho detto padre...”
Sentenziò
muovendosi finalmente dalla sua posizione. Era ormai chiaro quanto
appena successo e quel che ora sarebbe accaduto in quella stanza.
L'acido cianidrico sciolto nello scotch di William avrebbe presto
iniziato a far effetto e nulla avrebbe più potuto fermare i suoi
respiri affannosi, la sua tachicardia e la sua copiosa sudorazione.
Poi forse sarebbe arrivato il vomito, seguito dalle convulsioni e
dall'inevitabile trapasso.
“...
Ci sono cose che non possono essere perdonate...”
Che
fine misera ed ingrata per un grande comandante come William
Michaelson III.
“...Cose
che nessun uomo dovrebbe sopportare. Soprattutto un Michaelson.”
La
consapevolezza innescò nel vecchio i primi colpi di tosse ed il
bruciore in gola, ucciso più dall'incredulità che dal veleno.
“Aiutami!”
Ordinò
William nell'ultimo impeto d'autorità, ma il suo figlio prediletto
altro non fece che tornare a fissarlo, con distacco, mentre si
abbandonava sulla poltrona. Il suo viso non si mosse di un
millimetro. Non provava più nulla, né la rabbia né il rimorso che
temeva. Nemmeno Nathaniel lo preoccupava più anzi, era ormai certo
di avergli fatto il più grande dei favori.
“Elia?”
Di
nuovo Joseph pronunciò il suo nome, gli occhi sgranati e le labbra
vuote di parole
“Pensa
alla ragazza.”
Gli
rispose lui con fermezza e Joseph corse finalmente verso il corpo di
Cara, inginocchiandosi accanto a lei. In quei momenti aveva quasi
dimenticato che fosse lì e Dio sa quanto gli sarebbe piaciuto poter
ancora credere che quel corpo fosse da tutt'altra parte, caldo e vivo
come lo era stato tra le sue braccia. Le mani gli tremavano ancora,
fosse per i pugni o per la sceneggiata che aveva appena vissuto, ma
sentiva di non aver il coraggio di toccarla. Aveva le guance pallide
ed una ciocca di capelli scomposta che le cadeva sulle labbra
violacee. Senza nemmeno rendersene conto, allungò la mano e scostò
la ciocca ribelle per scoprirle il viso. Era fredda, ma non gelida
come un morto. Aveva il viso rilassato, ma non l'espressione di pace
assoluta di chi ha già varcato l'estrema soglia. Facendosi coraggio
le poggiò i polpastrelli sulla carotide e pregò ancora una volta
con tutte le sue forze di sentirla pulsare.
Stavolta
Dio l'ascoltò, facendo battere il cuore di Cara contro le sue dita,
debole ed incostante, ma d'improvviso più forte di ogni straziante
lamento alle sue spalle. Un sorriso del tutto spontaneo s'impossessò
del suo viso. La sua ragazzina dell'aereo era viva, più forte della
pistola di William e d'ogni pronostico a suo svantaggio. Più dura e
determinata di quanto non avesse mai creduto. “Non ho molte
ragioni per vivere” Così gli aveva detto durante il loro primo
turbolento incontro, ma evidentemente qualche buona ragione l'aveva
trovata.
Fece
per girarla e cercare il foro d'entrata il più in fretta possibile,
provando a sorreggerle la testa per non peggiorare in alcun modo le
cose. Non appena fu sulla schiena le palpebre di Cara si mossero in
maniera quasi impercettibile e le sue labbra si schiusero in cerca
d'aria. Joseph le sollevò immediatamente il capo, continuando con
l'altra mano a tastare l'origine di quella copiosa emorragia. Il blu
profondo dei suoi occhi s'affacciò sbiadito tra le ciglia umide , il
viso immediatamente sconvolto dalla ritrovata coscienza
“Shhh...
Andrà tutto bene.”
Cercò
di rassicurarla lui, premendo con forza all'altezza del fegato. Ecco
perché sanguinava tanto
“Mi...”
La
voce le uscì di bocca più rauca di quanto ricordasse
“...Mi
dispiace.”
Era
un suono basso e spiacevole che gli graffiava le orecchie. Per la
prima volta guardava il viso morente di qualcuno che non aveva ferito
con le sue stesse mani. Per la prima volta non desiderava che quei
lamenti strazianti finissero il prima possibile, bensì che
continuassero all'infinito. Per la prima volta il sangue sulle mani
gli dava la nausea ed il cuore gli si stringeva nel petto,
desiderando di poter vincere contro la morte in persona. La ragazzina
dell'aereo non poteva morire, non ora, non proprio adesso che il
vecchio bastardo andava crepando. Che si prendesse lui la morte.
Il
più delicatamente possibile le poggiò un dito sulle labbra perché
non si sforzasse di parlare ancora. Era bella anche in quel momento,
innocente ed onesta, sbiadita dalla paura, ma accesa dall'innata
inevitabile voglia di vivere che le scalciava dentro.
Poteva
capirla la morte. Chi avrebbe scelto il brutto muso di William
potendo avere lei? Spinse più forte sulla ferita ignorando la sua
smorfia di dolore. Non gliel'avrebbe lasciata prendere, non ora che
conosceva bene il sapore di quelle labbra ed il calore di quella
pelle. Non gliel'avrebbe lasciata prendere.
“Shh...Ci
penso io.”
Annuì
nei suoi occhi socchiusi e le infilò un braccio sotto le ginocchia
per sollevarla. Non l'avrebbe lasciata dissanguare in quella stanza.
Elia
si voltò ed incontrò lo sconforto negli occhi del fratello. Reggeva
quel peso morto come fosse un inestimabile tesoro, determinato e
terrorizzato allo stesso tempo. Il sangue gocciolava dalle sue mani
sul pavimento, come il ticchettio di un orologio che gira troppo
veloce. Quanto avrebbe voluto poter semplicemente chiamare
un'ambulanza o precipitarsi all'ospedale sfrecciando a duecento
all'ora sulla statale. Come l'avrebbe spiegato ai medici? Come alla
polizia? Per la milionesima volta Joseph maledì il suo nome e la sua
vita, oggi con più disprezzo che mai.
“Portala
di sotto. Chiama Gregory.”
Il
tono autoritario di Elia lo riportò alla realtà. Non poteva più
permettersi di tremolare come un ragazzino, non aveva più un solo
secondo da sprecare.
Suo
fratello lo guardò sfrecciare via e tornò presto ad osservare gli
spasmi di William sulla sua preziosa poltrona, coperta di sudore.
Iniziava a sputare bava bianca dalla bocca ed il suo sguardo, fisso
sul figlio, andava perdendo lucidità. Per un attimo soltanto sentì
qualcosa di simile al rimorso nascergli dentro. Avrebbe d'ora in poi
vissuto da parricida, da traditore, da ingrato... Ma non avrebbe più
ricevuto ordini, mai più straziato tra l'obbligo di ubbidire e la
voglia di urlare, mai più schiacciato dal peso di dover essere
perfetto ad ogni costo, di doversi meritare il regno, quello stesso
regno che adesso gli si inginocchiava davanti, pronto a gettarsi
nelle sue mani. Avrebbe finalmente smesso di abbassare il viso in
vergogna davanti alla tomba di sua madre, davanti al fratello che non
aveva difeso abbastanza, davanti alla moglie che aveva trascurato e
deluso. Avrebbe avuto Katrina. Avrebbe forse anche avuto il figlio
che aveva perso per colpa sua, per colpa del padre tanto onorato, che
proprio a lui aveva tolto tutto.
Si
mosse verso William, gli occhi lucidi, ma lo sguardo fiero
“Lo
so che non dovrei dirlo, perché noi Michaelson non diciamo certe
cose...”
Nemmeno
le sue regole avrebbero più avuto importanza
“...ma
ti ho voluto bene padre. Davvero.”
Lui
gli rispose con un rantolo biascicato. Chissà cosa stesse tentando
di dirgli, probabilmente che era un debole, una delusione, un figlio
irriconoscente. Magari lo stava solo sonoramente mandando a quel
paese. Forse però, quell'ultimo guizzo nei suoi occhi, era invece
un'ondata di orgoglio pieno e sincero, così come in vita non l'aveva
mai guardato.
“Se
solo potessi capire...”
Si
passò la mano sugli occhi per un momento, cercando di cancellare
quella vista
“...Perché
non ci hai mai voluto bene? Perché...”
Abbassò
gli occhi per contenere l'improvvisa ondata d'imbarazzo
“...Perché
mai, nemmeno una volta, sei riuscito ad essere fiero di noi?”
Il
bambino rifiutato e l'adolescente insicuro presero posto accanto a
lui in quell'ultimo confronto, tornando alla luce dopo tanto, troppo
tempo. Quel dolore premeva ancora alto nello stomaco, quella perenne
sensazione di insufficienza che accompagnava ogni sua decisione,
quell'insensato bisogno d'approvazione che nessun uomo della sua età
dovrebbe trascinarsi dietro come un macigno.
“Posso
capire perché odi tanto Joseph, ma io... io... Ho sempre fatto ciò
che mi hai chiesto, obbedito ad ogni ordine... Ho provato in tutti i
modi papà...”
Ancora
una volta guardò il pavimento in un sospiro, sentendo scoppiare nel
petto quella parola tanto semplice eppure così estranea alle sue
labbra
“...Perché
hai fatto questo a me?”
Il
viso di suo padre andava ammorbidendosi, ancora gonfio e paonazzo
mentre le rughe sulla sua fronte si distendevano lentamente,
accompagnate da un respiro lento, debole e prolungato. I suoi occhi
socchiusi sbatterono le palpebre un paio di volte, fissandolo dritto
nelle orbite. Non più arrabbiato, non più deluso, non più
spaventato.
Si
sarebbe tenuto il dubbio.
Ecco
come muore un vero Michaelson.
Elia
cadde sulle ginocchia, restando ad osservare quel corpo esanime. Suo
padre. Il cuore gli ballò tra le costole ancora una volta e delle
lacrime non richieste gli bagnarono silenziose le ciglia. Quella
voragine che gli si apriva dentro non aveva il sapore della vittoria,
bensì graffiava forte come fa il rimorso, come fanno i rimpianti,
come fa l'anima macchiata delle persone per bene. Lui non sarebbe mai
stato una brava persona, mai dopo questo, eppure quella dolce
consapevolezza ne affievolì il dolore. Nonostante tutto c'era ancora
un uomo dentro la sua corazza gelida, un uomo vero e capace di
soffrire, non il mostro che tanto aveva temuto di essere diventato.
Asciugò
quella sola pesante lacrima con un gesto veloce della mano, di colpo
conscio della presenza silente alle sue spalle. Guardò la silhouette
sfocata di Katrina con la coda dell'occhio, senza nemmeno chiedersi
da quanto fosse lì.
“E'...?”
Morto.
Non vi fu bisogno di pronunciare la parola, le bastò guardare le
spalle di suo marito cadere giù in silenzio. Katrina ingoiò in un
sol boccone la voglia di saltare dalla gioia e si fece strada verso
Elia. Incerta gli posò una mano sulla spalla, un tocco appena
accennato. Non si sarebbe stupita affatto di vedere quella stessa
mano scacciata in malo modo, era anche colpa sua dopo tutto,
soprattutto colpa sua. Ed Elia amava quel padre freddo e crudele,
probabilmente più di quanto amasse lei.
Sorprendentemente
la sua piccola mano rimase lì, indisturbata su quella matassa di
muscoli, nervi e dolore che era suo marito. Katrina respirò
quell'aria pregna di sangue e morte, accovacciandosi piano al suo
fianco, guardandolo fissare quel cadavere scomposto. Con la mano
libera decise allora di interrompere quell'insopportabile trance e
raggiunse il viso di Elia, costringendolo con un accenno di forza a
rivolgerle lo sguardo. Guardavano in basso i suoi occhi, i suoi occhi
stanchi e lucidi, la scia di una lacrima nascosta sui sui tratti
stanchi. Col pollice la cancellò, perché non c'era motivo di
piangere, e allora lui finalmente la guardò, limpido come mai prima
di quel momento, quasi un bambino tra le sue dita affusolate. Venne
da piangere anche a lei, ma scansò quel desiderio con lo spettro di
un sorriso. Ancora una carezza e poi non riuscì più a resistere,
spinse le sue labbra contro quelle di Elia, la sua bocca asciutta, ma
ancora morbida come ricordava, il suo respiro caldo, denso di alcool
e rammarico. Gli strinse forte il viso tra le mani e da ultimo lo
sentì accettare quel bacio, casto all'apparenza, ma carico di
passione e significato. Erano liberi. Il re e la regina del regno
finalmente liberi dal maleficio dell'orco cattivo.
Elia
si staccò piano, le loro labbra ad accarezzarsi per un istante
ancora, le sue mani, ora bollenti, finite non si sa come a cingere
la vita sottile di quella moglie tanto odiata e tanto desiderata,
come se fosse appena tornata da un lungo, lunghissimo viaggio. Si
perse nei suoi grandi occhi scuri e di colpo la morte in quella
stanza smise di esistere.
L'era
di William Michaelson III era finita. In quel caos di vetri, sangue e
saliva, iniziava il suo momento. Iniziava la sua vita.
///////////
Qualcosa
di caldo e pesante l'avvolgeva completamente. Ciononostante sentiva
freddo, un freddo profondo che le attraversava le ossa e le faceva
tremare le interiora. I suoi occhi non vedevano altro che buio. I
suoi occhi chiusi, realizzò. Cara tentò di muoversi, ma non ci
riuscì, un peso enorme all'altezza dello stomaco la teneva giù,
incollata come un adesivo a quella superficie liscia. Il suo indice
destro si mosse appena accarezzando un tessuto tiepido e levigato.
Una netta ed improvvisa sensazione di dejavu la colpì come un
macigno. L'aereo. Joseph e la sua nave. Joseph. Il pensiero
confortante del Lupo svanì però immediatamente. William. Il suo
sorriso che la sfotteva. Le sue mani paralizzate dalla paura. I
colpi. Il dolore. Il freddo ancora una volta. La sconfitta.
Con
un respiro mozzato si tirò su di colpo, trascinando qualsiasi
barriera la stesse trattenendo. Spalancò gli occhi cercando ancora
quell'uomo ed i suoi occhi vuoti, ma un dolore improvviso e
lancinante le spezzò il fiato. Si portò le mani alla pancia. Era
ancora viva? Perché era ancora viva?
“Hey,
vacci piano.”
Joseph,
la sua voce, era lui. Lo cercò immediatamente coi suoi occhi secchi
e spalancati, costringendo le pupille a contrarsi finché la sua
sagoma sbiadita divenne l'immagine netta e nitida dell'uomo che aveva
tradito. Subito il sollievo divenne paura mista a vergogna. Evitò i
suoi occhi sentendolo avvicinare, cercò di ritrarsi, ma non ci
riuscì per via di quel maledetto pulsante dolore.
“E'
già un miracolo che tu sia viva, cerca di non strafare.”
Sentì
le sue mani calde spingerla giù con delicatezza e di nuovo la sua
testa si abbandonò su quel morbido cuscino. Deglutì un po'
dell'amaro ferroso che sentiva in bocca e prese a guardarsi intorno.
Quella stanza da letto le era del tutto sconosciuta, a differenza
dell'odore dolciastro che le accarezzava le narici. Tuberosa. Le
pareti beige circondavano una stanza non troppo ampia, di fronte a
lei un comò bianco sormontato da un grande specchio incorniciato,
uno sgabello in finta pelle e una libreria semivuota. Voltò gli
occhi alla sua destra, dove un grande armadio laccato brillava nella
flebile luce dell'abat-jour accesa sul comodino. Dietro la sua testa
un'enorme testata capitonné, quasi incombente nella freddezza della
sua pelle color testa di moro. A sinistra non osò guardare, sentiva
gli occhi di Joseph trafiggerla ad ogni mossa e non era ancora pronta
ad affrontare le conseguenze della sua debolezza. Strinse gli occhi a
quel pensiero cocente. Aveva fallito. Non era stata abbastanza forte.
Né abbastanza brava. La sua sconfitta era anche quella del Lupo e,
se lo conosceva almeno un po', adesso gliel'avrebbe fatta pagare,
così come in fondo meritava.
“Come
ti senti?”
Lo
sentì parlare di nuovo e, a malincuore, voltò il capo verso di lui,
evitando ancora accuratamente il suo sguardo. Avrebbe voluto
rispondergli, ma in tutta franchezza non aveva idea di cosa dire, a
parte le continue coltellate al fianco destro. Si morse le labbra e
cercò quel poco di coraggio ed amor proprio che le erano rimasti
“Mi
dispiace.”
La
voce le uscì roca, le corde vocali raspavano l'una contro l'altra.
Le fu subito chiaro che non parlava da un po'. Quanto tempo era
passato? Di nuovo deglutì
“Ho
fallito.”
Cercava
di parlare con il più assoluto distacco, ma dentro le si muoveva
tutto, come fosse una gelatina accanto al fuoco
“Volevo
fare tutto da sola, ma è abbastanza chiaro che sono troppo
debole...E stupida...E...”
A
quel primo accenno di autocommiserazione intervenne lui
“Hai
finito?”
Il
suo tono rilassato, quasi divertito, uccise gli insulti per sé
stessa che ancora serbava tra le labbra. Da sotto le ciglia buttò
una prima occhiata verso Joseph. Aveva il viso riposato, un bel
colore roseo sulle guance, una linea appena di barba sul viso e le
labbra strette in un accenno di sorriso. Sorriso? Dal collo in giù
il suo torso era avvolto in una t-shirt blu, pulita, non troppo
scura, ma abbastanza blu da accendere i suoi occhi. Non era certo la
faccia di un assassino deluso.
“Che
è successo?”
Domandò
allora Cara, di colpo conscia di non aver la benché minima memoria
di cosa fosse accaduto dopo gli spari. Il suo sguardo si fece
lentamente più coraggioso e raggiunse quello del Lupo.
Stavolta
Joseph non trattenne quel già malcelato sorriso, i suoi denti
bianchi si scoprirono appena
“E'
morto.”
Lei
aggrottò le sopracciglia cercando di capire chi, come e quando.
Joseph si sedette al suo capezzale
“William
è morto.”
Precisò
e di nuovo Cara si tirò su di colpo, ignorando la botta allo
stomaco, il pallido viso ora alla stessa altezza di quello di lui
“Tu?”
Il
sorriso di Joseph si spese mentre, abbassando gli occhi, scuoteva la
testa
“Elia.”
Le
ci vollero un paio di secondi per rimettere a fuoco l'immagine di
quel fratello in giacca e cravatta, lo stesso che avrebbe voluto a
tutti i costi fermare il loro piano. Ma allora perché proprio lui?
“Come?”
Domandò,
candidamente sorpresa. Lui sembrò cercare le parole per qualche
istante, poi scrollò le spalle e sospirò
“E'
una lunga storia, ma non ha importanza. Ciò che importa è che sia
finita.”
Davanti
all'evidente perplessità dipinta sul volto di Cara, decise di
sorridere ancora, stavolta fissandola dritta nelle orbite
“E'
finita...”
Ribadì
“...William
non esiste più. Siamo liberi.”
Allora
perché continuava a sentirsi intrappolata? Perché il cuore nel suo
petto non aveva preso a battere all'impazzata? Perché quegli occhi
azzurri che le brillavano addosso non riuscivano a sciogliere il
freddo terribile che la paralizzava dall'interno?
Perché
non era stata lei. Nessun festeggiamento e nessuna danza della
vittoria avrebbero cambiato quell'unico fondamentale fatto. Non era
stata lei. Non l'aveva ucciso. Non c'era riuscita.
Cara
inspirò a pieni polmoni, ma il suo viso freddo ed immobile non passò
inosservato. Joseph si bagnò le labbra cercando altre parole per
dirlo, ma lei lo scavalcò, tornando a concentrarsi
sull'insopportabile dolore che le contorceva le viscere.
“Che
mi è successo?”
Lui
si scostò di colpo, raffreddato a sua volta dall'algida reazione di
Cara
“William
ti ha sparato. Il proiettile ti ha lacerato il fegato e sei quasi
morta dissanguata. C'è voluto un po', ma alla fine Gregory è
riuscito a rattopparti.”
“Chi
è Gregory?”
Come
se avesse importanza. Joseph trattenne l'istinto e decise di porle
cortese risposta. La ragazza aveva dormito per giorni, probabilmente
era del tutto normale quello stato d'alienazione
“Il
nostro medico a domicilio.”
Di
nuovo Cara si guardò attorno, stavolta volgendo la testa da un capo
all'altro della stanza
“Dove
sono?”
“Siamo
a casa di Elia, nella stanza degli ospiti.”
“Per
quanto tempo ho dormito?”
“Dodici
giorni. Dodici giorni e nove ore per l'esattezza.”
Cara
annuì distrattamente, passando ad esaminare le coperte tra cui
giaceva. Raso di cotone, certamente costoso. Anche il pigiama che
aveva addosso non era suo, come vi fosse finita dentro un mistero.
Gli ultimi abiti che ricordava erano neri, attillati e scomodi. Gli
abiti della missione. La missione. Di nuovo quel colpo allo stomaco.
Riportò
gli occhi su Joseph, adesso in piedi, di spalle, affacciato alla
finestra. Era sera e si potevano vedere solamente le vibranti luci
della città in lontananza.
“Sei
felice?”
Gli
domandò. Lui le gettò un'occhiata senza voltarsi
“Non
userei proprio quella parola. Direi più sollevato, leggero...
Libero.”
Di
nuovo quel termine. Ma come si sente la libertà?
Cara
rimase ferma ad osservare le linee nette e decise della sua schiena,
le lunghe gambe muscolose appena divaricate. C'era davvero qualcosa
di diverso in lui. Quella tensione continua, quell'aspetto guardingo
e minaccioso, quell'aura di timore e violenza, tutto sembrava
svanito.
Finalmente
Joseph si girò a guardarla
“E
tu? Come ti senti tu?”
Era
chiaro dai suoi occhi che non parlava dello stato di salute. Voleva
sapere se anche lei si sentiva liberata, se anche lei stava
assaporando la morte di William in un dolce boccone, se anche lei
avrebbe presto sorriso. Cara fissò il vuoto cercando qualcosa dentro
di sé, qualcosa che non riuscì a trovare
“Niente.
Non sento niente.”
Joseph
riuscì a mascherare la delusione di quelle parole, ma non di meno si
sentì frustato. Cosa voleva ancora? Cosa diavolo voleva ancora
quella donna da lui? Che fosse davvero fatta di gesso e sabbia? Che
fosse davvero vuota, asciutta, ed insipida? Dov'erano finiti la
passione ed il tormento? La rabbia e la sfida? Dov'era la ragazzina
dell'aereo?
Tum.
Tum.
Due
colpi leggeri alla porta lo sollevarono dall'incombenza di quei
quesiti. Elia si affacciò alla porta con un vassoio in mano, buttò
un'occhiata al fratello accanto alla finestra e decise di entrare.
Poggiò le vivande sul comodino e rivolse un sorriso di circostanza
alla sua ospite
“Vi
ho sentiti parlare...”
Si
giustificò
“...Bentornata
tra noi signorina Phillis.”
Cara
lo guardò con la stessa incredulità con cui un bambino fisserebbe
un babbo natale dalla pancia imbottita e dalla barba artificiale.
Anche lui odorava di pulito nella sua camicia bianca, anche lui
composto e rilassato come nulla fosse.
“Katrina
ha preparato del brodo...”
Afferrò
la scodella e gliela porse
“...Mangia.
Devi rimetterti in forze.”
A
metà tra l'ordine e la premura, Cara accettò immediatamente
l'offerta. Le sue mani gelide ringraziarono non appena avvolsero quel
piatto caldo che odorava sorprendentemente di buono.
“Katrina?”
Le
uscì di bocca senza controllo, sbalordita e malfidente allo stesso
tempo. Elia sollevò il sopracciglio destro
“Non
sai che cucina? Credevo foste amiche.”
Amiche.
E chi ha mai potuto permettersi un'amica?
La
questione fortunatamente morì lì ed Elia rivolse subito
l'attenzione a suo fratello
“Vieni
Joseph. Lasciamo che Cara si riposi.”
Lo
voleva fuori di lì, era chiaro. Evidentemente anche lui aveva notato
lo sbalzo d'umore. Il più giovane sospirò rivolgendole lo sguardo
ancora una volta, lei tutt'intenta ad analizzare la sua pietanza.
Annuì e lo seguì fuori, senza dire una parola.
“Finalmente
si è svegliata. Dirò a Gregory di passare domattina.”
Elia
prese le scale verso il salotto, suo fratello una sagoma silente alle
sue spalle
“Dovresti
riposare anche tu.”
L'altro
scrollò le spalle
“Sto
bene.”
“E
sta bene anche lei. Smetti di preoccuparti.”
Non
era più la sua salute a dargli pensiero, bensì il vuoto con cui
aveva accolto la dipartita di William. Nelle sue più infantili
fantasie l'aveva vista saltare sul letto e poi saltargli addosso,
ridere di gusto come non l'aveva mai sentita. Nella razionalità
aveva poi immaginato di vederla almeno sorridere, le spalle più
leggere ed i suoi grandi occhi blu limpidi e luminosi. Nell'intimità
della solitudine aveva infine sperato che la ritrovata libertà li
mettesse insieme, uno accanto all'altro verso nuove mete, lontano per
sempre da New Orleans e dai Merli.
Che
stupido.
Nell'incastro
dei suoi pensieri non si accorse che Elia gli era di nuovo davanti
“Dalle
un po' di tempo.”
Da
dove veniva quell'improvvisa capacità di leggergli la mente? In
quale preciso momento della sua vita era diventato così trasparente?
Quasi si vergognò.
“Basta
parlare di lei.”
Sentenziò.
Elia acconsentì senza insistere, riprendendo le scale verso il piano
di sotto
“E
di cosa vuoi parlare allora?”
Joseph
fece per seguirlo, ma rimase sul pianerottolo, la mano stretta
attorno alla fredda balaustra
“Di
te. Di quello che hai fatto.”
Il
rumoroso respiro di suo fratello lasciò intendere che non fosse
argomento gradito
“Ne
abbiamo già parlato abbastanza. Non c'è più niente da dire.”
Raggiunse
il salotto, mirando dritto alla poltrona. Sul tavolino fumavano
silenziose due tazze di caffè bollente. Dalla cucina arrivava
ovattato il rumore delle stoviglie maneggiate da Katrina.
“C'è
ancora molto di cui parlare invece.”
Joseph
gli si sedette di fronte ignorando le bevande, mentre il maggiore
afferrava la sua tazza per portarla al naso e respirare quel
rassicurante odore di casa.
“Te
l'ho già detto, ho fatto quel che dovevo...”
Abbandonò
il caffè sul tavolo
“...Non
l'ho fatto per te. Non hai motivo di sentirti in debito.”
Joseph
drizzò la schiena
“Non
mi sento in debito... Mi sento in colpa.”
A
quelle parole Elia scossa la testa. Quel peso era suo e di nessun
altro. Ed era già abbastanza pesante.
“Non
devi...”
Lo
guardò negli occhi
“...E'
stata una mia decisione e dovrò conviverci io. Non tu.”
Stavolta
fu Joseph a dissentire
“Ho
dubitato di te Elia. Ho davvero dubitato di te. Le cose che ho
detto...”
“Avevi
ragione.”
Lo
interruppe
“Non
sono stato un bravo fratello. Ho lasciato che nostro padre ti
trattasse come spazzatura, che sfogasse su di te e sulla mamma la sua
frustrazione. Avrei potuto difendervi e non l'ho fatto. Avevi
ragione, avevi ragione su tutto.”
Quelle
parole lo spiazzarono, così dirette ed inattese. Avrebbe voluto
anche lui svelare il proprio cuore con così tanta facilità, ma per
quanto si sforzasse non ne era ancora capace. Fosse colpa della
rigida educazione, fosse colpa dei troppi colpi presi, probabilmente
non lo sarebbe mai stato.
“Hai
fatto abbastanza.”
Per
spezzare il momento si interessò al caffè, affogando una zolletta
nella tazza. Il cuore gli pompava veloce nel petto. Voleva dirlo.
Aveva bisogno di dirlo.
“Ora
lo so...”
Riprese
senza spostare gli occhi dal cucchiaino
“...Non
avrò il sangue dei Michaelson, ma di certo ho un fratello.”
Una
botta improvvisa di calore gli raggiunse le guance, quasi fosse un
ragazzino alla prima cotta che sperava di non arrossire in pubblico.
“Ne
hai due!”
Il
sorriso sbiancato di Nathaniel illuminò la stanza, lasciandoli
sbigottiti. Il più giovane dei Michaelson non aveva infatti preso
bene la notizia delle gesta di Elia. Dopo aver ribaltato tavoli,
maledetto tutti i santi del paradiso e lasciato di fretta la tenuta
di famiglia, nessuno aveva più avuto sue notizie per i seguenti
dodici giorni. Nel rombo delle sue imprecazioni non era stato
neanche facile capire se fosse più incazzato per la morte del padre,
della madre o per non esser stato coinvolto nello scontro tra i
fratelli.
Ad
ogni modo eccolo lì, splendente come non mai nel suo cardigan di
Gucci
“Ho
fatto un giro in Giappone.”
Esordì.
Elia drizzò la schiena perdendo ogni residuo interesse per il caffè
“Hai
visto Caspar?”
Nathaniel
prese posto vicino a loro attorno al tavolo, accavallando le gambe in
una posa scomposta, ma rilassata
“Pare
che le carceri di massima sicurezza non concedano permessi per lutto
familiare.”
Scrollò
le spalle e tutti e tre piombarono in un religioso silenzio. Erano
soli adesso. Niente più ordini dall'alto, niente più urla dal fondo
del corridoio, niente più insulti per la loro inettitudine.
Ma
nonostante tutto il male, ad ognuno di loro William sarebbe mancato,
per un motivo o per l'altro.
Joseph
non aveva perso un padre, ma avrebbe dovuto trovare una nuova
motivazione. Elia non avrebbe certo sentito la mancanza del confronto
continuo, ma anche volendo, non aveva più un “perfetto”
capofamiglia con cui specchiarsi. Nathaniel avrebbe continuato a
vivere nella sua bolla di lusso e comodità, sapendo però stavolta
di non aver più le spalle poi tanto coperte.
Per
quanto fosse stato crudele, stronzo o svilente, William era comunque
l'uomo che li aveva cresciuti e plasmati. Se si trovavano lì,
insieme, ancora vivi, ricchi e potenti, in fin dei conti lo dovevano
solo a lui.
Il
minore scattò per primo
“Caffè?
Davvero?”
Balzò
in piedi e raggiunse la vetrinetta alla sua sinistra. Tirò fuori una
bottiglia dalla collezione di Elia. Rum scuro, distillato alle
Barbados ed invecchiato settant'anni almeno. Lo stappò senza
chiedere il permesso, prendendo con sé tre bicchierini da shot.
Sbattendoli sul tavolino li riempì fino all'orlo e li fece scivolare
verso ognuno di loro.
Sollevò
il suo a mezz'aria
“Ai
fratelli Michaelson!”
Elia
guardò quella mano alzata con indecisione. Cosa aveva lui da
brindare? Era il peggiore degli assassini. Passò lo sguardo su
Joseph e di nuovo su Nathaniel. I suoi fratelli erano ancora lì, a
brindare col peggiore degli assassini. Sbatté il suo pesante
bicchiere contro quello del più giovane
“Ai
fratelli Michaelson.”
Ripeté
ed i loro occhi si posarono dritti su Joseph. Voleva ancora quel
nome? Voleva ancora essere uno di loro? La vita misera e violenta che
aveva vissuto gli passò davanti in pochi flash. Ad ogni insulto, ad
ogni colpo, ad ogni sconfitta e ad ogni vittoria quei due c'erano
sempre stati e se non poteva essere il dna a tenerli legati, allora,
suo malgrado, sarebbe stato quello stramaledetto cognome a farlo. Il
suo drink colpì gli altri
“Ai
fratelli Michaelson.”
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