Camminava
attraverso
il
lungo corridoio di pietra nera, con
la polvere e la cenere che turbinavano nell’aria immobile ad
ogni suo passo. Una fitta foschia ammantava ogni cosa, stemperando e
come assorbendo la luce calda delle torce appese alle pareti.
Airis non sapeva come fosse arrivata lì, né cosa
di preciso la spronasse a proseguire, ma stranamente non le importava,
non in quel momento. In quel luogo, dove riposavano coloro che nel
corso delle ere avevano compiuto la sua stessa scelta, estranei
partecipi del futuro del Mondo Nato dal Nulla, nessun pensiero poteva
perturbare la pace eterna.
Continuò ad avanzare nel silenzio più assoluto,
sotto lo sguardo spento dei guerrieri nelle alcove, uomini e donne in
armatura che sedevano su troni d’onice e ossidiana. Percepiva
i loro occhi sulla pelle nuda delle spalle e, anche se una parte di lei
sapeva che non volevano farle male, non riusciva a non provare timore.
Airis cercò nelle loro figure la presenza di una scintilla
di vita, ma nessuno di loro batté ciglio, cristallizzati,
pietrificati in un limbo in cui il tempo aveva cessato di scorrere.
Alcuni indossavano sontuose cappe d’ermellino, di velluto
scarlatto, di morbida seta; altri portavano armature istoriate
d’oro e d’argento, impreziosite con gemme ed
elaborati arabeschi. I loro volti non erano noti ad Airis, ma sapeva
chi erano, poteva indicare il nome di ognuno di loro, raccontarne le
gesta, gli errori, gli atti eroici. Forse anche lei un giorno avrebbe
seduto in mezzo a loro, su un trono uguale, in quel posto dove solo a
quelli che avevano abbracciato il suo stesso destino era possibile
riposare.
Dopo qualche passo percepì una specie di sussulto alla sua
destra. Si fermò e girò il capo nella direzione
di quel timido suono, eppure così forte da incrinare
l’eterno silenzio che impregnava la pietra. Uno dei
dormienti, un umano seduto su uno scranno di lame smussate e narcisi
sbozzati nell’alabastro, sollevò le palpebre e
incontrò il suo sguardo. Per un fugace momento la guerriera
ebbe la sensazione che la vedesse, che i suoi occhi di un indaco
liquido l’avessero osservata mentre avanzava a testa alta in
mezzo al corridoio. Lui aprì la bocca per dire qualcosa, ma
il suono si congelò nell’aria stantia prima di
poter prendere forma. Provò di nuovo a parlare, ma, ancora,
quello che giunse alle orecchie di Airis fu solo un mormorio inudibile.
Decise di proseguire, lasciandosi alle spalle quegli occhi sempre
più offuscati e la loro disperata invocazione.
Non seppe per quanto impose alle sue gambe di muoversi, forse
un’ora, forse qualche minuto: lì il tempo perdeva
di significato. Di tanto in tanto guardava dietro di sé
cercando di penetrare l’oscurità che, come un
essere vivo, inghiottiva la luce delle torce. Ormai, delle cinquanta
che l’avevano accolta quando aveva cominciato a camminare, ne
erano rimaste accese solo venti. Venti, come i guerrieri allineati
lungo i due lati del corridoio. Un’altra sfrigolò
e si spense in un fruscio quando oltrepassò il trono dove
era seduto un nano, sulle ginocchia un arco d’oro tempestato
di gemme preziose.
Il buio strisciò sul pavimento, allungandosi fino a
sfiorarle i piedi. Airis gettò appena un’occhiata
alla lunga ombra, rendendosi conto di non averne paura. Non
c’era niente, in quel luogo, che le facesse paura.
Un’altra torcia si spense dietro di lei, in risposta a un
altro passo, e la nebbia si sfilacciò come il tessuto di un
vecchio abito, per poi avvolgersi in volute fumose attorno a un trono
di ebano e acero, con venature di ferro e bronzo che si attorcigliavano
sullo schienale, compenetrandosi e allontanandosi in una danza di rune
e disegni intricati. Osservando quelle linee, Airis sentì
l’impulso di sedersi, di abbandonarsi al sonno che le pesava
sulle palpebre, ma sapeva che non era per quello che le era stato
mostrato.
Spostò lo sguardo davanti a sé, sulla nebbia che
le ostruiva la visuale. Ancora una volta, senza che nessuno glielo
avesse detto, capì che non doveva procedere oltre, che non
c’era ragione che lei vedesse quello che si nascondeva al di
là di quel muro grigio. Così si
avvicinò al trono, pulì il seggio dalla polvere e
vi si sedette. Non c’era altro suono se non il suo lento e
quasi inudibile respiro.
- Guardiana. -
Una voce rimbalzò sulle pareti di roccia. Il timbro era
insieme maschile e femminile, come se un uomo e una donna avessero
parlato in coro.
- Figlia mia, finalmente sei qui. -
Airis chiuse appena gli occhi. L’armatura – quando
l’aveva indossata? Non aveva sentito il suo peso mentre
camminava – le gravava sulle spalle, sulle braccia, sulle
gambe, una gabbia aderente d’acciaio e ferro da cui non
poteva scappare. Non fu facile trovare la forza di parlare, dare corpo
a quella domanda che premeva prepotentemente sulla lingua.
- Chi… chi sei? -
- Sono colui che diede respiro a Vita e Morte. -
Una stretta gelata le avvolse le tempie, mentre una mano invisibile le
accarezzava delicatamente la guancia. Era liscia e ruvida al tempo
stesso, in qualche modo le ricordava quella di suo padre e di sua madre
al medesimo tempo.
- Dove ci troviamo? -
- Nel luogo che ti appartiene, dove un giorno, se vorrai, potrai
riposare. - un refolo d’aria tiepida le fece turbinare i
capelli sul viso, - Ora ascolta ciò che coloro che hanno
accettato il tuo stesso destino hanno da dirti. Ascoltali e poi bevi,
abbandonati tra le braccia dell’oblio. -
Nel corridoio di pietra calò di nuovo il silenzio. Airis
attese un momento, il tempo di un battito di ciglia, prima che una
miriade di echi si riverberassero nell’oscurità,
nella sua stessa mente.
“Caillean.”
Sentire pronunciare il suo vero nome la riscosse dal torpore.
Sbatté più volte le palpebre, mentre apriva e
chiudeva i pugni ritmicamente, combattendo contro l’istinto
di alzarsi dal trono.
- Chi… -
La sua voce era poco più di un bisbiglio roco, flebile
persino alle sue stesse orecchie. Perché parlare era
così difficile?
- Chi siete voi? Cosa volete? - formulò con più
forza.
“Noi siamo te.”
Le ombre si agitarono e la nebbia alla sua destra si avvolse in spirali
sempre più intricate.
“Siamo i tuoi antenati. Sei qui per ricevere la
Verità, per vedere i giorni che ancora non esistono e le
cicatrici di quelli che ora non sono più.”
Airis scosse debolmente la testa: - Non capisco… -
“La comprensione è figlia della conoscenza,
Guardiana. Tu hai accettato il destino che era già stato
scritto per te e noi ora ti renderemo partecipe di quello che fu e di
quello che potrebbe essere. Chiudi gli occhi e ascolta, guarda,
ricorda.”
Le voci le martellavano nella testa, si alzavano
d’intensità, senza che nessuna bocca si muovesse
nell’aria immobile, senza che nessun respiro incrinasse il
silenzio che regnava attorno a lei, mentre il suo cuore rallentava
sempre più, così come il suo respiro.
“Questo è il nostro dono per te.”
All'improvviso, davanti ai suoi occhi si spalancò una
visione. Assistette a una battaglia sanguinosa tra due eserciti, uno
capeggiato da un elfo dalla corona d’argento e l'altro da un
uomo dagli occhi di bragia. Udì il loro grido bellico e
subito dopo le prime file si schiantarono le une sulle altre, e il
primo sangue venne versato. Ricordò il nome del condottiero
delle terre libere, Arawan di Llanowar, e per un istante
pensò di sbagliarsi, che quello fosse Ledah. Ma non era
così. L’uomo che cavalcava sul possente baio aveva
i lineamenti delicati dell’elfo, ma i suoi occhi erano
azzurri come il ghiaccio perenne dei picchi a nord, non verde muschio.
Lo scenario cambiò repentinamente. Vide un uomo dalla pelle
bronzea e gli ispidi capelli neri seduto su un trono d’oro e
gemme preziose. Alle sue spalle, ricamato su un arazzo sdrucito, c'era
il vessillo di un leone di fuoco. Udì il suo respiro greve
diventare un gemito gorgogliante, mentre la sua vita si spegnava sotto
le pugnalate di dodici uomini incappucciati, con indosso tutti delle
vesti riccamente decorate, nobiliari. Quando il corpo si
accasciò in una pozza di sangue, Airis ricordò il
suo viso. Era lo stesso dell’uomo che aveva tentato di
parlarle.
“Caillean, Figlia della Morte e Guardiana
dell’Ordine, ascolta le nostre parole.”
La visione mutò di nuovo. Nella penombra di una cripta,
Airis distinse i lineamenti di un vecchio seduto in mezzo a un cerchio
magico, i viso pieno di rughe, i capelli radi e le vene bluastre che
emergevano da sotto la pelle tirata. In mano, stretta tra le unghie
così nere da sembrare marce, teneva una piccola sfera blu.
Risuonarono nel buio dei rumori di passi, un ticchettio seguito dal
rumore strascicante di piedi, e d'un tratto un giovane elfo venne
buttato ai piedi del vecchio. In quel momento, la guerriera
associò gli occhi di bragia del dio delle tenebre a quelli
di quell’essere.
“Venti leghe al sud dovrai andare, oltre il Grande Mare la
nave dovrai condurre fino all’Oceano di fuoco e ghiaccio. La
tua meta è persa oltre l’orizzonte, nel castello
avvolto dalle nuvole e stretto dall’illusione di un
imperituro inverno.”
Sempre più rapide arrivarono le visioni, un vorticoso caos
di voci, suoni, ricordi che la violentavano e la stordivano.
Una bambina con i capelli blu e gli occhi più scuri della
notte correva nell’erba alta.
Un atrio tratteggiato nella calda luce del tramonto risuonava del canto
delle arpe e dei flauti, accompagnando in un valzer fin troppo sensuale
uomini e donne dalle ali sottili come farfalle.
Un drago con le squame lucide e gli occhi come tizzoni ardenti spiegava
le ali, vomitando un inferno di fuoco su due eserciti in lotta.
Airis era lì in mezzo e combatteva senza né scudo
né elmo, armata di una spada dalla lama scintillante di rune
e vene rosse.
“Procedi attraverso il Ponte che unisce i due Mondi e giungi
alla rocca dove giace la principessa eterna. Raccogli le lacrime dello
sposo e inginocchiati al cospetto della Madre della Montagna. Prega con
lei, danza con le sue figlie, odi e ignora il loro canto da
sirene.”
- Basta… basta! -
Provò a tapparsi le orecchie, ma le sue braccia erano
incollate al trono, pietrificate come se fossero anch’esse
delle sculture di legno. Gemette e un’ondata di calore le
percorse la pelle, riducendo le parole a un rantolo affannoso.
Vide un lupo e un falco che percorrevano una rorida prateria, col sole
dell’alba che dorava i pistilli delle neonate primule.
Udì il gracchiare iroso di un corvo e un forsennato battito
d’ali agitò l’aria immobile nella volta
stellata. E, negli occhi verde muschio del falco accoccolato vicino
alla lupa ormai morta, prima che un turbinio di piume nere lo
avvolgesse, rivide lo stesso sguardo disperato di Ledah.
- Ledah! -
Il suo urlo si spense in un gemito di dolore.
“Segui il percorso che scende nel ventre della Madre,
prosegui oltre le paure, oltre i fantasmi. Paga il più
atroce tributo e spendi il sangue di quanto più amavi dopo
che il Cigno ha deposto il suo scudo e prima che la Cerva fugga nel
firmamento.”
Il lezzo di sangue le penetrò nelle narici, invadendole la
gola, il petto. I cadaveri giacevano a mucchi sulla radura del Rashaar,
riversi in laghi di sangue che andava raggrumandosi. Molti erano
mutilati, senza braccia, gambe, gli occhi cibo di vermi e corvi
affamati. Airis fece spaziare lo sguardo in quella landa desolata, dove
assieme al grido degli spettri senza nome echeggiava il coro dei
vincitori, cavalieri dalle armature nere e i capelli bianchi come neve.
Poi un ruggito rimbombò in cielo e davanti a sé
gli steli arrossati divennero pipe d’oro e il sangue vino
speziato in calici luccicanti. Gli invitati giacevano scomposti a un
tavolo imbandito, con le mani ancora strette sulle cosce di pollo e la
faccia annegata nel piatto strapieno. In fondo alla sala, seduta su un
trono rialzato di spade insanguinate e teste mozzate, sedeva
l’uomo dagli occhi di bragia, le labbra arcuate in un sorriso
crudele. Sul capo portava una corona di rubini e teschi.
“Quando l’ultima torcia si spegnerà e il
ringhio del fuoco farà tremare le alte mura del castello
oltre le nuvole, lascia le lacrime dell’Eterna Sposa ivi dove
si posa lo sguardo. Allora estrai la lama del Padre dal cuore di roccia
e la mano che la difende dalla bocca della Madre.”
Airis urlò e stavolta la sua voce rimbalzò nel
corridoio di pietra col fragore di mille tuoni, eppure incapace di
sovrastare il brusio assordante che gli trafiggeva il cervello, un coro
di sussurri e di frasi infrante, confuse in un caos di sillabe e parole
strascicate.
- Basta, basta, andate via! -
Infine tornò il silenzio, denso e schiacciante, improvviso,
che le mozzò il respiro.
La prima sensazione che
strisciò nella sua coscienza, prima ancora che nel suo
corpo, fu il freddo. Poi avvertì qualcosa che spingeva sotto
la schiena, scricchiolando ad ogni suo movimento. Airis
tentò di rotolare via, ma prima che potesse completare
l'azione, l’oggetto che le pungolava le carni si ruppe con un
secco “crack”. Portò una mano dietro di
sé e le dita sfiorarono il legno di un ramo.
Sbuffò e strizzò gli occhi per riprendere
contatto con la realtà.
Si sorprese di quanto le venisse facile pensare ora. Si sentiva ancora
intontita, ma, nonostante un fastidioso ronzio nelle orecchie, riusciva
a mettere insieme una frase di senso compiuto. A fatica, si
tirò su a sedere e abbassò lo sguardo sulle
proprie mani, sulla pelle bianca delle dita trafitte dai raggi del
sole. Inspirò ed espirò per un lungo minuto,
quindi si decise a guardarsi attorno. Un istante più tardi
si impietrì.
Un cadavere, il suo, giaceva riverso a terra in una pozza di sangue
nera, il viso cereo rivolto verso il cielo, le ciocche rosse
sfilacciate nell’erba alta e le dita debolmente chiuse
attorno all’elsa di un pugnale dall’impugnatura in
argento alchemico. La tunica strappata lasciava esposta una profonda
ferita alla destra del cuore, poco sotto il costato.
Un disgusto gelido, accompagnato dalla paura più profonda,
le fluì nel ventre, le conficcò gli artigli nelle
viscere e tirò. Airis si piegò boccheggiando,
l’aria che le bruciava nei polmoni lasciandola senza fiato.
Se avesse avuto qualcosa nello stomaco, lo avrebbe vomitato. Non era
preparata a quella vista e Cyril non le aveva accennato nulla.
Immobile, come paralizzata, rimase per un lungo momento a fissare il
suo vecchio corpo, la testa che le pulsava furiosamente e il ronzio che
le assaliva le orecchie.
“Sarà… sarà per depistare
Lysandra.”
Tentò di convincersi, ma lo shock era stato enorme. Facendo
forza sulle braccia, si trascinò più lontano che
poté, finché la stanchezza non ebbe di nuovo il
sopravvento. Cadde distesa sull’erba, annaspando. Chiuse gli
occhi e tentò di concentrarsi sui suoni attorno a lei, sulla
voce della natura. Focalizzò la sua attenzione sul proprio
respiro, sul fruscio delle foglie mosse dal vento, sul battito
d’ali di uno stormo d’uccelli, che, come un essere
unico, volavano verso lidi più caldi in attesa della
primavera. Il ronzio diminuì fino a sparire e, dopo una
breve esitazione, riaprì gli occhi. I colori avevano ripreso
la loro naturale gradazione e, quantomeno i contorni delle cose
più vicine, avevano smesso di sfarfallare, permettendole di
scrutare il familiare paesaggio. Accarezzò con lo sguardo i
roridi steli d’erba, scivolò su di essi e si
spinse al di là delle cime imbiancate degli alberi, sulla
catena montuosa dei monti Eresse che, imponente come un drago
dormiente, svettava contro il cielo grigio. Alla sua destra riconobbe
il crepaccio, quello dove era precipitata quando…
Sospirò e si sollevò, spazzolandosi via la
polvere dalla tunica di lana e spesso cotone che indossava, la stessa
del suo cadavere. Scosse bruscamente il capo e allontanò
quel pensiero, richiamando alla mente i ricordi che aveva di quel luogo.
Sì, se la memoria non l’ingannava, doveva trovarsi
ancora vicino a Luthien e all’accampamento dei sopravvissuti.
Il ricordo di tutto quello che era accaduto
l’assalì, togliendole il fiato: Felther, il suo
tradimento, Lysandra, Baldur che cavalcava a perdifiato assieme a
Raiza, la viscosità del sangue che le imbrattava i vestiti e
le si attaccava alla pelle. Gemette e si morse le labbra fino a quando
il dolore non fu abbastanza forte da scacciare quelle immagini di morte.
“Devo rimanere calma, lucida. Respira, respira.”
Barcollò fino a un albero, un antico faggio dalle radici che
affioravano dal terreno fangoso, un misto di terra e neve sciolta che
le inzuppò i piedi. Vi si appoggiò con la schiena
e trasse un profondo respiro, lasciando che l’aria fresca,
quasi gelata, le decomprimesse i polmoni.
Le ultime parole di Cyril riemersero dalla memoria.
- Un anno. Un misero anno per salvare il mondo. Un po’ poco
per un’impresa di questo genere. I bardi avranno di che
comporre canzoni. -
Sorrise amara, per poi osservarsi le mani lisce, femminili, senza
più calli. La tunica copriva il suo nuovo corpo, ma
più Airis lo guardava, più non riusciva a
capacitarsi che appartenesse a lei. Non sapeva spiegarsi, ma lo
percepiva come estraneo, non suo. Forse, si disse, doveva solo di nuovo
abituarsi ad essere viva. Rammentava che anche la prima volta, quando
Lysandra le aveva impedito di morire, si era sentita nello stesso modo.
Il solo riportare alla mente il nome della sua vecchia aguzzina le
procurò una fitta allo stomaco. Era lei la causa di tutto
quel dolore, di tutta quella devastazione. Strinse i pugni e contrasse
la mascella così forte da far scricchiolare i denti.
- Ti ho promesso che ti avrei ammazzata, un giorno. Un Cavaliere
mantiene sempre le sue promesse. - sibilò.
Ingoiò la rabbia, imponendosi autocontrollo. Avrebbe messo
ordine nella sua testa più tardi, adesso doveva trovare
qualcosa di più pesante da mettersi e, magari,
un’arma.
Con un ringhio si staccò dall’albero e si
guardò attorno con più attenzione, alla ricerca
di un indizio che l’aiutasse ad orientarsi, ma a parte la
foresta e il cielo coperto di nubi non c’era niente.
Sospirò e si massaggiò le tempie. Da qualche
parte a nord dovevano trovarsi le rovine di Luthien e, probabilmente,
anche l’accampamento. Non sapeva se fosse scampato qualcosa
alla devastazione del drago e, sinceramente, cercava di non pensarci.
Il ricordo di Copernico con il suo sorriso affabile riemerse da un
angolo della sua mente, la ghermì con forza e la
trascinò di nuovo in quel caos di gemiti e urla. Le gambe
tremarono e Airis temette che non ce l’avrebbe fatta a
compiere un passo in più. Invece continuò,
ansimando ogni volta che il dolore le infliggeva una stilettata,
straziandole il cuore; proseguì finché non
riuscì più a trattenere le lacrime. Solo allora
si fermò e lasciò che la loro carezza umida le
scivolasse lungo le guance.
Pianse a lungo, nascosta all’ombra di un abete ricoperto di
muschio e mangiato dall’edera. Pianse per Copernico, per la
sua famiglia, per tutti gli abitanti di Luthien. Pianse in silenzio e
con quelle lacrime regalò la sua ultima preghiera per loro,
per i loro corpi insepolti e mai onorati.
Quando la crisi le diede tregua e fu in grado di ricacciare il dolore
in fondo all'anima, si impose di mettere un piede davanti all'altro.
Aveva un obiettivo ora, doveva salvare Ledah e non poteva permettersi
errori: quello che era accaduto era stato frutto della sua indecisione
e delle scelte sbagliate che aveva compiuto, continuare a rimuginarci
non avrebbe riportato in vita nessuno. L’unica cosa che
poteva fare era andare avanti a testa alta senza mai fermarsi e
adempiere allo scopo per cui Cyril le aveva donato quella nuova vita,
serbando nella memoria le voci, il calore e i sorrisi di quei giorni.
Quei ricordi, a differenza delle ferite, non si sarebbero rimarginati,
mai.
Esalò un sospirò stanco e obbligò la
sua mente a ricordare qualcosa di quel bosco. Il Tabor, il grande fiume
che divideva le regioni di Ferya ed Eleuterya, aveva molti affluenti,
per lo più fiumiciattoli di poca importanza. Quando era
all’accampamento riceveva regolarmente acqua, quindi le venne
spontaneo pensare che nelle vicinanze dovesse essercene uno. Si
guardò intorno e aguzzò l’udito,
controllando persino l’intensità del suo respiro.
Un sibilo di vento le portò all’orecchio un suono
ritmico e scrosciante a circa mezzo miglio da dove si trovava lei.
Prima di avviarsi, Airis raccolse un ramo da terra, quello che le
sembrava il più robusto, e riprese ad avanzare, stando bene
attenta a ogni rumore o fruscio sospetto. Non sapeva quanto tempo fosse
passato da quando i soldati di Felther avevano raso al suolo
l’accampamento, ma si augurava di non imbattersi in nessuno
dei suoi non-morti, anche perché in quel caso ci sarebbe
voluto ben più di un pezzo d’albero per cavarsela.
Con suo gran sollievo non accadde nulla e quando distinse la striscia
argentata del corso d’acqua, trasse un sospiro di sollievo.
Si inginocchiò sul terriccio umido e bevve con
avidità. Non si era resa conto di avere così sete
e, soprattutto, fame, fino a quando il suo stomaco non
protestò.
“Oh, fantastico…”
Raccolse le mani a coppa con tutta l’intenzione di lavarsi la
faccia, quando si pietrificò a guardare il suo riflesso.
Aveva gli stessi capelli, dello stesso identico rosso acceso, e anche
il viso non era cambiato, ma i segni indelebili che la guerra, le
battaglie e il passato le avevano lasciato addosso erano svaniti.
Sbalordita, arrotolò le maniche della tunica e poi quelli
dei calzoni fino al ginocchio. Niente cicatrici, niente segni di
bruciature, nulla.
“Che anche quella sia…?”
Con una certa titubanza, infilò la mano sotto la stoffa,
trattenendo il respiro. Quando le sue dita incontrarono la cicatrice
sul petto, il suo cuore perse un battito. Percorse quel vecchio taglio
per tutta la sua lunghezza, gli occhi socchiusi e le labbra serrate
nella morsa dei denti. Perché quella c’era ancora?
Perché Cyril non l’aveva fatta sparire come tutte
le altre? Domande a cui, per ora, non poteva dare risposta.
Riprese a camminare verso nord, tenendo sempre come punto di
riferimento il muschio che cresceva sul tronco degli alberi. Da quando
si era pugnalata, non ricordava assolutamente nulla, era come se avesse
dormito fino al momento in cui si era risvegliata nella Casa della
Cenere, il luogo dove riposano i vecchi Guardiani. Non sapeva quando e
come avesse acquisito quell'informazione, ma anche tutte le altre, che
si era resa conto di possedere mentre camminava verso il trono in fondo
al corridoio, sembravano essere spuntate dal nulla.
“In linea del tutto teorica, Cyril potrebbe
averle… trascritte nella memoria del nuovo corpo, ma
è pura speculazione. Avrebbe potuto dirmi qualcosa prima di
rispedirmi qui, sarebbe stato molto gentile da parte sua.”
Dopo aver riflettuto un po’, accantonò tutte
quelle domande e accelerò il passo. Il sole era
già alto e avrebbe preferito arrivare e lasciare
l’accampamento prima di sera. Tenendo sempre
sott’occhio il nastro di fumo che si alzava oltre le cime
degli alberi, risalì il fiume.
Pian piano l'astro diurno cominciò la sua parabola
discendente e la luce divenne sempre più tenue al di
là della coltre di nuvole che oscurava il cielo, mentre il
freddo diventava sempre più pungente. Quando finalmente
scorse la sagoma di una tenda rimasta miracolosamente in piedi, era
ormai l'imbrunire.
Solo dopo aver scandagliato l'ambiente circostante, Airis si decise a
entrare con cautela nell’accampamento, o meglio, di quel che
ne rimaneva. I soldati di Felther non si erano nemmeno degnati di far
sparire i corpi, lasciati in balia delle bestie selvatiche. Molti di
questi giacevano nella stessa posizione in cui la morte li aveva colti,
riversi nelle loro stesse interiora o in pozze di sangue ormai
raggrumato, gli occhi e la bocca spalancati invasi dai vermi e dalle
mosche. Sentì la rabbia montare. Scrutava quei volti lividi,
le loro espressioni di terrore, cercando di imprimersele nella memoria,
le dita serrate intorno al ramo e l’espressione del viso
impassibile che celava la tempesta nel suo animo.
Più volte si inginocchiò per chiudere gli occhi
dei morti, racchiudendo in quel gesto, l’unico che potesse
fare, una preghiera perché trovassero la pace in qualsiasi
posto fossero andati. Non distolse mai lo sguardo, nemmeno quando
urtò la testa di un bambino con l’espressione
terrorizzata ancora stampata sul viso e le lacrime gelate sulle guance
cianotiche. Il suo corpo mutilato giaceva poco più in
là, nascosto sotto quello di una donna a cui era stato
strappato un braccio.
Passò oltre tutti gli abitanti di Luthien, oltre i loro
cadaveri dissacrati, fatti a pezzi. Quando arrivò al centro
del campo, si diresse con sicurezza verso la tenda di Felther.
Alzò uno dei lembi e rimase per un lungo momento in silenzio
a contemplare le varie macchie di sangue che annerivano il terreno nei
punti in cui Raiza e Baldur avevano combattuto. Se mai un giorno li
avesse rivisti, si ripromise, li avrebbe ringraziati per averla
salvata. Il suo pensiero andò poi al Cavaliere del Drago,
alla speranza che aveva portato, per poi trascinarla nel fango assieme
alle donne, ai bambini, agli uomini innocenti che avevano creduto in
lui. La pelle sulle nocche della mano che stringeva il ramo si tese
così tanto da farle male.
- Non hai onore, Felther. - mormorò invelenita.
La luce del giorno sfumò nel rosso, per poi scurirsi nel
viola del crepuscolo. Da lontano, le orecchie di Airis colsero
l’ululato prolungato di un lupo e il cupo bubolare di un
gufo. Volse gli occhi al cielo e valutò che le mancassero
circa due ore prima che la notte calasse del tutto. Voltò le
spalle alla tenda e cominciò a setacciare
l’accampamento in cerca di un’arma e di qualcosa di
più resistente da mettersi addosso. Ricordava che, tra i
sopravvissuti, c’erano alcune guardie cittadine.
Sepolto sotto una delle tende al limitare del bosco, trovò
un uomo con un’armatura ancora in buone condizioni. Un
pugnale lungo gli trapassava da parte a parte il collo.
Prima di rivoltarlo di schiena, Airis prese un profondo respiro. Doveva
farlo o non sarebbe sopravvissuta. Sciolse le cinghie e con delicatezza
gli sfilò la corazza e cotta di maglia, stando bene attenta
che i capelli non si impigliassero negli anelli. Le sarebbe stata un
po’ larga, ma non poteva pretendere di più.
Riluttante, infine, tenne ferma la testa ed estrasse il pugnale in un
unico, rapido movimento. Lo pulì come meglio poté
sull’erba e lo infilò nella cintura di cuoio.
“Questo è per le emergenze. Mi serve qualcosa di
meglio per combattere.”
Si guardò intorno e, ancora una volta, dovette obbligarsi
per alzarsi e dirigersi verso il cadavere di un uomo vicino ai resti
del focolare. Una freccia lo aveva colpito alla schiena ed era uscita
dal basso ventre, dopo aver fracassato il bacino e aver squarciato
l’intestino e le arterie. Stretta ancora tra le dita gelate,
teneva una spada dalla lama in acciaio incrostata di fango. Il fodero
pendeva dalla cintura rimasta miracolosamente intatta.
La mano del morto si aprì senza che dovesse fare il minimo
sforzo. Prima di rimettersi in piedi, abbassò il capo,
ringraziando quell’uomo senza nome per il dono che le aveva
fatto, poi rinfoderò la nuova arma.
“Bene, ora… ora devo solo avviarmi verso la prima
città e…”
Non fece in tempo a terminare il pensiero, che le sue orecchie colsero
un fruscio dalla parte opposta del campo, seguito dal tenue lucore di
una torcia.
- Chi va là? Aspetta, aspetta, non scappare! -
Airis non stette a sentirlo. Scattò, correndo verso il
bosco. Scivolava veloce nell’ombra, agile come non si sarebbe
mai aspettata, i piedi che toccavano appena terra e il sangue che
scorreva rapido nelle vene al comando concitato del cuore.
- Maledizione, aspetta! Voglio aiutarti! -
“A morire? No, grazie, semmai faccio da sola.”
Spostò un ramo che si frapponeva sulla sua strada,
saltò una radice particolarmente spessa e si
precipitò verso l’affluente del Tabor. Da
lì sarebbe stato facile far perdere le sue tracce o, almeno,
così sperava. Gettò una rapida occhiata alle sue
spalle e imprecò tra i denti, vedendo la figura del suo
inseguitore alle calcagna. Non aveva più la torcia e
chissà come riusciva a seguirla in quella fitta
oscurità.
Airis si addentrò ancora di più nel sottobosco,
frenò e girò quando colse lo sciabordio familiare
dell’acqua. Con i polmoni che le bruciavano e i muscoli che
protestavano per lo sforzo, si costrinse ad aumentare
l’andatura. Ma il suo inseguitore era sempre più
vicino e guadagnava terreno, a momenti le sarebbe stato addosso.
Quando vide il nastro argentato che tagliava il bosco, si
fermò all’improvviso e sguainò la
spada, descrivendo un ampio semicerchio davanti a sé.
L'altro si fermò poco prima di finire infilzato sulla lama.
- Stai indietro. - ringhiò.
- Va bene, va bene, calmati ora. Non voglio farti del male, solo
parlare. -
- Chi sei? -
Lo sconosciuto sospirò, si morse le labbra e rimase fermo
per qualche secondo, come se fosse indeciso sul da farsi. Poi
alzò entrambe le mani e fece un passo nella sua direzione.
La luce bianca della luna si infranse sul pettorale argentato,
illuminando le due ali dorate che circondavano una spada istoriata con
l’effige di un lupo.
- Sono Arghail, un soldato dell’esercito di Sershet. Ero di
stanza a porto Eamone e, quando io e i mei compagni abbiamo visto
quella luce accecante, ci siamo diretti subito qui. - fece un cenno con
la testa, indicando un punto alle sue spalle, - I miei compagni si sono
accampati poco lontano, ma io sono comunque voluto venire in
avanscoperta per vedere se c’era qualcuno. -
Airis lo scrutò, diffidente. Da quella distanza riusciva a
vederlo abbastanza bene. Era un ragazzo alto quanto lei, se non poco di
più, con i capelli castani che gli si appiccicavano alla
fronte sudata. Aveva le spalle larghe, rese ancora più
possenti dagli spallacci che le ricoprivano, e al fianco portava una
spada lunga, di ferro e acciaio temprato.
- Corri molto veloce per essere una ragazza. - buttò
lì Arghail, le labbra atteggiate in un sorriso
accondiscendente, - Devi avere un’ottima resistenza, visto
che non è di certo facile tenere quell’andatura
così sostenuta con quel peso. Eri per caso una guardia
cittadina? -
Airis fece un passo indietro. La carezza gelida dell’acqua
contro lo stivale le procurò un brivido freddo lungo la
schiena.
- Ascolta, davvero, non voglio farti del male. Siamo… sono
qui per aiutarti. - insisté, poi, vedendo che la sua
interlocutrice non sembrava avere intenzione di collaborare,
sospirò, - Puoi almeno dirmi dove sono i tuoi compagni e se
hanno bisogno di aiuto? Ho visto i morti, siete forse stati
attac… -
- Non c’è niente da salvare. - la voce le
uscì più ostile di quello che avrebbe immaginato,
- Non si è salvato nessuno, purtroppo. Non so cosa sia
successo qui, io… stavo solo cercando delle armi tra i
cadaveri. -
Il ragazzo aprì la bocca, per poi richiuderla senza dire
nulla. Un istante dopo sgranò gli occhi, incredulo e
sconcertato, e un flebile mormorio gli scivolò dalle labbra.
- Generale… -
Sentendosi chiamare con quell’appellativo, Airis si
immobilizzò. Fu allora che la testa cominciò a
girarle e tutto il mondo divenne un miscuglio frenetico di colori e di
sagome senza più contorni. Perse la presa sulla spada e
cadde in ginocchio, mentre il coro indistinto delle voci degli antichi
Guardiani le assaliva le orecchie e le invadeva la mente.
L’ultima cosa che vide prima di accasciarsi al suolo furono
gli occhi di Arghail.
Occhi chiari, di un indaco liquido illuminato da una sincera
preoccupazione.
Occhi come quelli del re nella Casa della Cenere.
Una supplica riecheggiò nel cervello, levandosi al di sopra
delle altre.
“Aiuta mio figlio a diventare re!”