VICTORIA CROSS
Abu Klea,
Sudan, 17 gennaio 1885. Ore 09,30.
La
Gardner si è inceppata di nuovo. Dannato aggeggio, non vuol
saperne di funzionare.
Se
ne sta lì sul suo affusto, sfacciatamente lucida sotto il
sole
cocente, come una specie di principessa viziata.
I
suoi serventi, marinai della HMS
Alexandra, si danno
da fare
come matti per convincerla a ripartire, ma con tutta la polvere che
c’è in giro sarebbe come avere la pretesa di
persuadere un gatto a
farsi una nuotata in un fiume.
Tutt’intorno
c’è l’inferno.
Un
groviglio rabbioso di uomini e bestie, pallottole che fischiano,
urla, nitriti, fumo, detonazioni. Ufficiali che gridano ordini, il
fanatico acclamare di dervisci spiritati.
Allahu
àkbar!
Giubbe
color kaki, tuniche bianche, bandiere nere e naturalmente
ovunque il rosso del sangue.
Momentaneamente
disarmati, i marinai dell’Alexandra vengono
attaccati con violenza. Uno sciame di mahdisti armati di lance e
pugnali piomba su di loro, schizzi vermigli imbrattano la neghittosa
principessa, che ancora non si decide a rientrare in funzione.
Il
tenente Grosvenor assiste alla scena dall’alto del proprio
cammello.
Smonta
dalla cavalcatura, per prima cosa. È un fuciliere, e quelle
bestie dinoccolate e imprevedibili non gli hanno mai dato un grande
affidamento. Si trova maggiormente a suo agio col terreno solido
sotto i piedi.
Si
guarda rapidamente intorno, adocchia un gruppo di scozzesi della
Black Watch. Li chiama e si dirige di corsa verso gli ormai esausti
marinai.
Lo
scontro è furioso. Il tenente ha la rivoltella
d’ordinanza, ma
strada facendo ha raccolto anche un moschetto con la baionetta
inastata e dopo aver scaricato la pistola assalta i nemici all'arma
bianca.
Quello
che segue è solo un magma di sensazioni a tratti confuse e a
tratti spaventosamente vivide.
Un
servente si accascia a terra con la gola squarciata, roche urla di
guerra, due dervisci gli si scagliano contro brandendo micidiali
scimitarre. Para, scivola, c'è sangue dappertutto. Si
rialza, un
uomo dagli occhi di folle gli si avventa addosso. Cadono, corpo a
corpo violento, il tenente riesce a rotolare via, la polvere imbevuta
di sangue è una fanghiglia fetida che prende alla gola.
Si
rialza, ha ancora il moschetto. Si terge il sudore dal viso, para
un colpo quasi d'istinto, replica con un affondo.
La
principessa nel
frattempo si è decisa a funzionare di
nuovo.
Il
tenente sorride, abbassa il fucile, vede che si sta avvicinando di
gran carriera il capitano Lewis. Brav'uomo Lewis.
Tutto
a posto, i serventi sono salvi.
Il
colpo alla spalla sulle prime sembra solo un pugno particolarmente
forte. Lo fa barcollare all'indietro alla ricerca di equilibrio. Non
sente dolore.
“Santo
cielo, tenente!” esclama Lewis precipitandosi verso di
lui.
All'inizio
Grosvenor non capisce cos'abbia il suo superiore da urlare
tanto, poi abbassa gli occhi e si accorge di avere la spalla destra
trapassata da una lancia.
Riesce
addirittura a stirare le labbra in un sorriso stentato, come
se in definitiva si trattasse solo di uno scherzo estremamente
originale.
Un
rivolo di sangue gli scende da un angolo della bocca.
“Signore,
credo di avere un problemino...” dice faticosamente. E
si accascia al suolo.
§
Il
colonnello Turner alza gli occhi dal documento che ha appena
terminato di leggere e rivolge al capitano Lewis uno sguardo a
metà
fra l’incredulità e lo sdegno.
“State
scherzando per caso?” gli chiede con voce tagliente.
“No,
signore.”
“Quindi
devo dedurre che avete seriamente proposto
il
tenente Grosvenor per la Victoria Cross?”
“Sì,
signore.”
Alcuni
secondi di silenzio, sembra che il colonnello semplicemente
non si capaciti di quanto ha appena udito.
“E
come avete maturato questa vostra decisione, se posso
chiedere?”
domanda poi in tono sarcastico.
Senza
lasciarsi smontare, il capitano risponde: “Signore, il
tenente Grosvenor è un eroe.”
“Nientemeno!”
Manca poco che Turner scoppi a ridere.
“Signor
colonnello, Grosvenor ha impedito che la mitragliatrice
Gardner cadesse in mani nemiche e ha reso possibile il salvataggio
della maggior parte dei suoi serventi. Nel corso dell'azione
è
rimasto gravemente ferito.”
L'altro
continua a fissarlo scettico.
“Come
vedete, i criteri per il conferimento di una Victoria Cross
ci sono tutti,” aggiunge Lewis. Poi compuntamente recita:
“cospicuo
coraggio o audacia, o importanti atti di valore o auto-sacrificio, o
estrema devozione al dovere in presenza del nemico.”
Il
colonnello fa un sospiro infastidito. “Il vostro tenente
Grosvenor, che voi definite eroe, non
è altro che un
cialtrone debosciato. È un insolente e uno spaccone, non sa
stare al
suo posto, non ha alcun senso della disciplina né rispetto
per
l'uniforme che porta. Conferire una decorazione come la Victoria
Cross a un elemento del genere sarebbe il peggiore esempio che
potremmo dare alle truppe.”
“Signore,
il tenente Grosvenor merita quella decorazione,”
risponde caparbio il capitano.
“L'unica
cosa che Grosvenor merita
è di essere radiato
dall'Esercito.”
§
L'ospedale
da campo è un gruppo di capanne di terra e paglia
ombreggiato da qualche palma e circondato da una zeriba. Il posto
è
piuttosto lontano dall'essere confortevole, ma i dintorni sono troppo
pericolosi per spedire una carovana di feriti a Suakin o in altri
centri più attrezzati.
È
il dottor Owen, il capitano medico, che si occupa delle cure
assieme ai suoi assistenti. Ha ricavato una sorta di sala operatoria
e un'infermeria nella più grande delle capanne e usa le
altre come
luogo di degenza per i pazienti.
Eldred
Grosvenor è da solo, non si sa se per riguardo al suo
blasone, dal momento che è pur sempre un nobile, o per
evitare la
sua nefasta influenza sugli altri feriti. La capanna dov'è
sistemato
è un po' isolata, anzi, ed è dotata di una specie
di tettoia di
foglie di palma che la rende leggermente meno torrida delle altre.
È
sdraiato su una branda militare, qualcuno gli ha premurosamente
sistemato un paio di cuscini dietro la schiena per consentirgli di
leggere, e infatti il tenente ha un libro aperto in mano.
Lewis
si ferma a guardarlo qualche secondo prima di dar segno di
sé.
Un
bel ragazzo dall'aria spavalda, con occhi di un azzurro
indubbiamente particolare e il profilo di un cammeo classico.
Si
chiede se sia vero quello che alcuni dicono di lui, ovvero che non
gli piacciono le ragazze, per usare
un eufemismo.
“Salve,
tenente,” lo saluta.
Grosvenor
si volta, gli sorride. “Capitano Lewis! Scusate se non mi
alzo per accogliervi come si conviene, ma al momento temo di essere
impossibilitato.”
Accenna
al bendaggio che gli immobilizza la spalla destra quasi con
noncuranza, come se si stesse scusando perché un precedente
impegno
gli impedisce di prendere parte a una partita di bridge.
“Non
datevi pena, tenente,” risponde il capitano sedendosi su uno
sgabello lì vicino. “Come vi sentite, piuttosto?
“Benissimo,
signore.”
Il
capitano fa una certa fatica a capire come sia possibile sentirsi
benissimo in una capanna di fango in cui regna un caldo soffocante,
con un buco largo un pollice in una spalla e due galloni di sangue in
meno, tuttavia non indaga.
“Ve
la sentite di parlare un po'?” gli chiede.
“Ne
sarei felice, signore. Qui ho davvero poche distrazioni.”
“Parlare
della battaglia, intendo.”
“Certo,
perché no? Per caso il signor colonnello sta cercando di
scoprire se mi sono nascosto da qualche parte e incidentalmente sono
inciampato su una lancia mahdista?”
Rivolge
al capitano uno sguardo di vaga complicità, come per dire:
io
e voi lo sappiamo com'è fatto, vero?
Lewis
non può fare a meno di sorridere. “A dire la
verità la
faccenda interessa a me, tenente. Come siete finito nel British Camel
Corps, per esempio?”
“Intendete
il Circo del Nilo? Un grande colpo di fortuna del mio
precedente comandante, il colonnello Davis. Quando ha scoperto che
tutta l'alta società di Londra stava facendo carte false per
entrare
nel reparto, si è improvvisamente ricordato delle mie
ascendenze
aristocratiche e non gli è parso vero di rifilarmi al
colonnello
Turner montato su un bel dromedario.”
Fa
una breve pausa e sorridendo con aria vagamente sorniona aggiunge:
“Gli ha fatto una bella sorpresina, non credete?”
“So
che avete cambiato molti reparti,” dice Lewis evitando
diplomaticamente di rispondere.
“Di
continuo, signore. Sembra che i miei comandanti non gradiscano
certe mie innocenti e del tutto inoffensive stravaganze.”
Il
capitano rimane di nuovo in silenzio. La lista delle punizioni di
Grosvenor, arrivata insieme alle sue note caratteristiche, è
un tomo
che sembra il Libro di Kells.
“I
duelli, per esempio?”
“Un
gentiluomo avrà pure il diritto di difendere il proprio
onore,
no?”
Come
sempre la risposta è tra il serio e il faceto. Non si
capisce
se il tenente sia davvero convinto di ciò che dice o se stia
solo
bonariamente prendendo in giro il suo superiore.
“E
dite...” ancora una volta Lewis ritiene più saggio
cambiare
discorso, “vi dà molta noia la vostra
ferita?”
“Beh,
se non altro posso ritenermi fortunato. Almeno non sono stato
ferito a El Teb.”
Il
capitano sa a cosa alluda il suo subalterno: durante quella
battaglia i mahdisti hanno ucciso tutti i feriti inglesi che non
erano stati immediatamente tratti in salvo.
“Avete
combattuto anche lì, tenente?”
“Sì,
signore.”
“Anche
a Tamai?”
“Sì.”
“Perbacco,
tenente, siete stato in parecchie battaglie.”
“Ritengo
che sia un’attività consona ad un militare,
signore.
Del resto i circoli ufficiali da queste parti sono talmente
deprimenti che ci si risolve ad affrontare i mahdisti anche solo per
disperazione.”
L’impertinente
battuta, che avrebbe senz’altro mandato in bestia
il colonnello Turner, strappa invece un sorriso divertito al capitano
Lewis. Se quel Grosvenor finirà mai all’inferno,
la prima cosa che
farà sarà prendere in giro il diavolo. E la
seconda andare in cerca
di qualcosa da bere.
“Dov’eravate
prima di finire qui in Sudan, tenente?”
Grosvenor
sorride. “In luoghi quanto mai vari e pittoreschi,
signore. La mia prima assegnazione è stata Colonia del Capo,
nel
1882.”
“Buon
Dio! Cos’avevate combinato di così orribile per
finire in
quel posto disgraziato?”
“In
quell’occasione niente, signore. L’ho chiesta
io.”
“Voi?”
“Sì.
Diciamo che volevo mettere un paio di continenti fra me e la
mia famiglia.”
Lewis
lo guarda stupito. “Io… temo di non
capire.”
“Non
ci amiamo particolarmente,” risponde Grosvenor con la sua
solita aria noncurante.
“Mi
spiace, tenente.”
“Ci
sono guai peggiori,” replica il giovane con filosofia.
Sorride al capitano. “Per esempio qui in Sudan non
c’è verso di
trovare un gin tonic accettabile. Questa sì che è
un’autentica
tragedia.”
Il
capitano sta per rispondere quando si affaccia alla porta
l’ufficiale medico dicendo: “Per oggi basta con le
visite. Il
tenente Grosvenor deve riposare.”
Lewis
si alza obbediente.
“Peccato,”
sospira il giovane. “Tornerete a trovarmi,
signore?”
“Certo,
volentieri,” gli assicura il capitano con calore, poi
prende commiato. Mentre si allontana capta lo svolgersi del seguente
dialogo:
“Tenente,
è l’ora della vostra medicina.”
“Oh, no. Di
nuovo?”
“La dovete
prendere tre volte al giorno se volete rimettervi in
fretta.”
“Ma
è orrenda! Non la si potrebbe almeno sciogliere in un
bicchiere di Brandy?”
“Tenente!”
“Chiedevo.”
Se
ne va sorridendo fra sé e sé.
§
I
marinai se ne stanno per conto loro. Ufficialmente con la scusa di
occuparsi della Gardner, ovvero la loro beneamata quanto neghittosa
principessa, in realtà perché nel bel mezzo di un
deserto non si
sentono per niente a loro agio.
Nella
moltitudine in kaki e grigio che li attornia le loro casacche
bianche appaiono in effetti grottescamente fuori posto.
“Signor
Larkin, avrei bisogno di farvi qualche domanda” dice il
capitano Lewis avvicinandosi al nostromo dell’Alexandra.
Il
sottufficiale abbandona ciò che stava facendo e si mette
sull’attenti. “Aye
aye, sir!” esclama
secondo l’usanza
della marina.
“Cosa
ricordate della battaglia, nostromo?”
A
giudicare dall'espressione del marinaio, la domanda conferma in
pieno il suo sospetto che i terrazzani siano gente decisamente
strana, tuttavia
prontamente risponde: “Ogni dannata cosa, con
rispetto parlando, signore!”
“Potreste
raccontarmi cos'è successo quando si è inceppata
la
Gardner, per favore?”
A
quelle parole il nostromo si rabbuia, probabilmente pensa che le
domande abbiano a che fare con un'inchiesta per accertare eventuali
responsabilità nell'incidente.
“Niente
di ufficiale,” si affretta allora a chiarire il capitano,
“Ho solo bisogno di sapere come sono andate le cose
esattamente.”
L’espressione
franca di Lewis evidentemente convince il signor
Larkin che non ci sono tiri mancini in agguato, per cui
l’uomo
prende a narrare coloritamente l’episodio:
“Ebbene,
signore, ci siamo io e i miei uomini a riva, voglio dire
sulla cima di quella collinetta laggiù. Abbiamo il nostro
bel tubo
da stufa, lucido come alla rivista della domenica mattina, e
aspettiamo quella banda di gran figli di buona donna pronti a
scaricargli addosso le nostre bordate, per così dire.
Quando
comincia la buriana, per un po’ ci diamo da fare come matti,
consumando pallottole come alla notte di Guy Fawkes, poi ad un certo
punto il nostro macinino si pianta. Niente, nemmeno più un
colpo.
Non che gli si possa dare torto, con tutta quella sabbia in giro si
sarebbe inceppato anche un cannone prodiero dell’Alexandra,
ma la bambina è troppo bollente per metterci le mani sopra.
Come
certe ragazze di Suakin, con rispetto parlando. A quei dervisci
dannati non gli pare vero e ne approfittano per saltarci addosso a
prua e a poppa. Da tutte le parti, volevo dire,” precisa
notando
l’espressione perplessa del capitano.
“E
poi cos’è successo, nostromo?” chiede
Lewis.
“Beh,
signore, siamo lì che stiamo dicendo le ultime preghiere,
non so se mi spiego, quando vediamo questo tenente che si avvicina a
tutto vapore a bordo di un cammello. Salta giù con la
pistola in
mano e chiama degli scozzesi che sono lì in giro. Quella
è gente
che non ha paura di nulla, ve lo dico io, signore. Quasi come i
marinai. Hanno la gonnella, ma diavolo se picchiano!”
“Andate
avanti, signor Larkin, prego. Cos’ha fatto il
tenente?”
“Un
demonio dell’inferno, signore! Avrebbe fatto paura anche a
Satana in persona, parola mia d’onore. Scarica la pistola
sulla
massa di leccapalle fottuti, poi raccoglie da terra un moschetto con
la baionetta inastata e quanto è vero Dio li carica
all’arma
bianca! Campassi mille anni, non vedrò mai più
una scena del
genere.”
“Avete
avuto l’impressione che quel tenente fosse un vile?”
Il
nostromo trasecola. “Vile? Un coraggio del diavolo, signore!
E
sono pronto a prendere a pugni chiunque osi sostenere il
contrario!”
Lewis
ha un vago sorriso al pensiero del rissoso nostromo che fa a
cazzotti con il colonnello Turner.
“Secondo
voi agiva per secondi fini?”
“I
fini non li so, signore. So soltanto che se adesso io e voi
stiamo parlando lo devo a quell'ufficiale.”
“Sareste
disposto a mettere per iscritto quello che mi avete
raccontato, nostromo?”
“Si
capisce! Questa qui è tutta sacrosanta verità
peggio della
dannatissima bibbia del reverendo, signore!”
§
“Capitano,
questa vostra iniziativa sta cominciando a diventare
decisamente fastidiosa,” dice il colonnello Turner.
Ha
davanti a sé la deposizione del nostromo Alfred Larkin, e
seppure
con qualche fatica per il linguaggio non esattamente convenzionale,
ha appena terminato di leggerla.
“Signore,
non vi farebbe piacere che un vostro ufficiale venisse
insignito della Victoria Cross?”
“Tanto
per cominciare, quello non è un mio
ufficiale,”
dice schifato il colonnello. “È uno scarto del
colonnello Davis,
che il diavolo se lo porti. Garantito che la prossima volta mi
informerò meglio quando mi parlerà di un brillante
giovane
ufficiale proveniente dalla migliore società di
Londra.”
“Se
posso esprimere un parere, signore, mi sembra una descrizione
abbastanza obiettiva del tenente Grosvenor.”
Il
colonnello sbuffa. Quel vecchio filibustiere di Davis si era
comportato esattamente come un sensale di cavalli che deve vendere un
brocco: gli aveva nascosto accuratamente tutti i numerosi difetti
dell'esemplare e si era inventato dei pregi inesistenti per
convincerlo ad accollarselo.
“Quello
è uno scapestrato senza principi morali, altro che
brillante giovane ufficiale,” brontola Turner risentito.
“In
battaglia ha avuto una condotta decisamente eroica, signore,”
insiste imperterrito il capitano Lewis.
“Sarà
stato un caso.”
Il
capitano tace.
Sotto
lo sguardo di muta riprovazione del suo subalterno, il
colonnello Turner si sente in dovere di portare ulteriori elementi in
favore della sua tesi. Va ad uno schedario ed estrae il famoso Libro
di Kells delle
punizioni di Grosvenor.
Lo
apre a caso.
“Colonia
del Capo,” legge, “8 novembre 1882. In un locale
denominato La sirena
ubriaca situato a
Cape Town nei pressi
del porto l'allora sottotenente Eldred Frederick Grosvenor, Visconte
di Belgrave, attacca
briga con un gruppo di Royal Marines
sostenendo, testuali parole, che si
spacciano per fucilieri ma non
sanno neppure trovarsi il buco del culo con due mani. Un
linguaggio decisamente consono ad un ufficiale e ad un aristocratico,
direi. Naturalmente risulta essere in stato di grave ebbrezza
etilica. Viene arrestato da una pattuglia della polizia militare e
trascorre il resto della notte in cella.”
Lewis
si stringe nelle spalle.
Turner
gli rivolge un'occhiata in tralice, sfoglia il Libro di Kells
e spietatamente prosegue: “Colonia del Capo, 27 novembre
1882. Il
sottotenente Grosvenor si presenta all'adunata in costume locale.
Sostiene di non sapere dove sia la sua uniforme. La stessa viene
ritrovata alcuni giorni dopo tra gli effetti personali di un oste di
dubbia reputazione che gestisce la sua mescita in un sobborgo di Cape
Town. L'oste in questione, un indigeno che risponde al nome di
Nkosana Mbali, riferisce che l'uniforme gli è stata offerta
in
pagamento di svariate bevande alcoliche che sono state consumate dal
tenente e da un gruppo misto di civili e militari impegnati in una
gara di braccio di
ferro.”
La
vicenda è così comica che a Lewis viene spontaneo
sorridere.
“Capitano,
il vostro entusiasmo mi pare del tutto fuori luogo,”
lo ammonisce Turner con voce tagliente.
“Scusate,
signore.”
“Volete
sentire altro?” chiede il colonnello. Poi senza attendere
risposta sfoglia qualche altra pagina e legge: “Lagos, 15
gennaio
1883. Invitato con alcuni colleghi ad una cena presso l'abitazione di
un delegato della Royal
Niger Company, il
ventenne
sottotenente Grosvenor sfida a duello il quarantacinquenne fratello
del suo ospite per una non meglio specificata questione
di onore.
Lo scontro si svolge la sera stessa e termina con entrambi i
contendenti feriti, tra scene di panico delle signore presenti e
imbarazzo dei colleghi di Grosvenor.”
Nuovo
fruscio di pagine.
“Il
5 luglio 1883, a Calcutta, il tenente Grosvenor nasconde un
giovane esemplare di tigre del Bengala nello studio del suo
comandante. L'animale, che pesa circa duecento libbre, per prima cosa
divora l’amatissimo Fox Terrier e i due gatti siamesi
dell'ufficiale, quindi sfonda la finestra, balza in strada e fugge
per la città seminando il panico tra i civili. In stato di
ebbrezza
etilica, il tenente non è in grado di motivare le proprie
azioni in
maniera coerente.”
Il
colonnello chiude il fascicolo con un gesto secco che quasi fa
sobbalzare Lewis. “Questo è il vostro eroe,” dice con
una
sfumatura di disprezzo nella voce. “Un cialtrone vanaglorioso
e
debosciato. Potrei leggervi decine di episodi del genere. Risse,
duelli, atti di insubordinazione, insolenze, provocazioni fini a se
stesse. Nell'arco di due anni è stato a Città del
Capo, a Lagos, a
Calcutta, a Galle e a Hong Kong. Vi siete domandato come mai abbia
cambiato tante destinazioni in così poco tempo?”
Il
capitano non risponde, il motivo è fin troppo evidente.
Tutti
trasferimenti punitivi.
“Davis
ci aveva già provato una volta a disfarsene,”
prosegue
Turner. “Dopo la battaglia di Tamai l'ha trasferito ad Aden.
All'inizio il comandante della guarnigione se l'è preso,
là ci sono
i pirati e un ufficiale in più fa sempre comodo. Nel breve
volgere
di tre mesi l'ha rispedito al mittente, pirati o non pirati.”
Il
Libro di Kells viene allontanato con vago disgusto.
“Questo
è il personaggio di cui stiamo parlando, capitano
Lewis,”
dice Turner fissando il subalterno negli occhi, “un
bellimbusto
borioso e depravato convinto che le Forze Armate siano il suo parco
giochi personale. Premiare con una decorazione questo individuo
equivarrebbe ad insultare tutti i bravi soldati del Regno che invece
fanno il loro dovere con disciplina e dedizione.”
§
Il
sole picchia.
Sotto
il casco coloniale di sughero, al capitano Lewis sembra di
avere una fornace al posto della testa.
Chi
è dunque Eldred Grosvenor? Un combattente feroce animato da
un
coraggio che va ben oltre l'incoscienza? Uno scanzonato e simpatico
giovane ufficiale? Un arrogante figlio di papà che pensa di
potersi
far beffe di regole e convenzioni a suo piacimento?
L'ha
visto coi suoi occhi rischiare la vita per salvare i marinai
dell'Alexandra. Gli ha
parlato, traendone l'impressione di un
giovane cortese, dalla conversazione gradevole e spiritosa.
Ma
c'è il Libro di
Kells.
In
tutta la sua carriera non gli era mai capitato di vedere una
sfilza di punizioni come quella. Anzi, non pensava nemmeno che fosse
umanamente possibile collezionarla, prima di imbattersi nel tenente
Grosvenor.
Così
ragionando arriva all'ospedale del dottor Owen.
Il
luogo gli pare ancora più inospitale della volta precedente,
più
caldo e con più nugoli di mosche.
“Capitano
Lewis!” lo accoglie il tenente, placido come se fosse
sdraiato sulla sua chaise
longue in una
spiaggia della Costa
Azzurra.
Contro
la zanzariera della finestra ronza un compendio di
entomologia. L’aria torrida che proviene dalla piccola
apertura dà
l’impressione di trovarsi davanti alla bocca di un forno.
“Scusate
se neppure stavolta mi alzo per accogliervi,” prosegue
il giovane ufficiale con il consueto tono scanzonato, “ma
temo che
se ci provassi mi affloscerei al suolo in maniera indegna di un
militare.”
Lewis
constata che in effetti nonostante la leggerezza con cui gli si
è rivolto il tenente ha l’aria piuttosto provata.
La ferita deve
dargli parecchio fastidio.
“Non
sentite il caldo?” gli chiede sedendosi sul solito sgabello.
“Il
segreto è non farci caso, signore. Se a Calcutta non avessi
fatto così penso che sarei impazzito. Un caldo spaventoso,
faceva
sembrare gradevole persino il clima di Colonia del Capo.”
“A
proposito di Calcutta,” Lewis si schiarisce la voce con fare
imbarazzato, “che mi dite della storia della tigre,
tenente?”
“Oh,
la tigre.” Grosvenor assume l’espressione di chi si
aspettava una stretta di mano e invece ha ricevuto uno schiaffo.
“Il
colonnello vi ha detto di Big Joe, vero?”
“Big
Joe?”
“Sì,
volevo addestrarlo. L’avevo comprato da un fachiro, o
almeno mi sembrava che fosse un fachiro.”
“Ma
perché l’avete chiuso nello studio del vostro
comandante?”
Pausa
meditativa.
“Francamente
non mi ricordo, signore,” ammette infine il tenente,
“probabilmente non ero del tutto sobrio.”
Diciamo
pure che eri ubriaco fradicio.
Per
la prima volta da quando lo conosce, il capitano Lewis prova una
punta di fastidio di fronte all’atteggiamento noncurante del
suo
subalterno. “Non vi interessa proprio la considerazione degli
altri, tenente?” gli chiede.
“Ho
dovuto imparare a farne a meno abbastanza presto, signore.”
“Che
intendete dire?”
Eldred
Grosvenor sorride come chi sta per raccontare una
spassosissima barzelletta. “Volete sapere una cosa
divertente,
signore? Io non sarei nemmeno dovuto nascere.”
“Prego?”
“È
così. Sono uno sbaglio.”
“Intendete
dire… che siete figlio illegittimo?” chiede
cautamente il capitano.
“Niente
di così romantico, signore. Figlio di mio padre al cento
per cento. Però dopo mio fratello maggiore mia madre aveva
stabilito
che la gravidanza non faceva per lei, e così ha fatto del
suo meglio
per non restare più incinta.” Fa un teatrale
sospiro. “Qualcosa
dev’essere andato storto per la pauvre
maman.”
“E
così siete nato voi?”
“Maman ha
cercato in ogni modo di convincere la Natura a
liberarla dell’intruso. Cavalcate, cacce alla volpe,
passeggiate in
posti impervi, balli sfrenati fino all'alba. Purtroppo però
l’erba
cattiva è notoriamente difficile da estirpare, quindi eccomi
qui.”
Lewis
lo fissa esterrefatto. “E voi come lo sapete?”
“Me
l'ha detto lei. A onor del vero l'ha fatto in una circostanza
in cui l'avevo particolarmente esasperata con le mie marachelle. Ero
un ragazzino assolutamente pestifero, per usare
un eufemismo.”
“Capisco.”
“Oh
no, non potete capire. Mi meraviglio di non essere stato ucciso
da piccolo, con tutto quello che ho combinato.” Sorride fra
sé e
sé con vago compiacimento.
“E
vostro padre?” chiede allora il capitano.
“All’inizio
era contento di avere un altro figlio. Aveva già un
erede a cui lasciare il titolo, ma è sempre meglio averne
uno di
ricambio, non credete? Nel caso al primo capiti qualche incidente.
Poi sono certo che abbia cambiato idea.”
“Vostro
padre è il duca di Westminster, giusto?”
“Esatto.
E il mio caro fratello Archibald lo sarà dopo di
lui.”
“Beh,
voi siete pur sempre visconte di Belgrave,” considera il
capitano.
“Sì,
sono fortunatissimo. Fa decisamente un’ottima figura sui
biglietti da visita,” risponde il tenente Grosvenor, e
rivolge al
suo superiore uno sguardo ironico.
“Mi
dispiace, tenente.” Il classico titolo nobiliare attribuito
al fratello minore giusto per non lasciarlo completamente a bocca
asciutta.
“Poteva
andarmi peggio, signore. Potevo nascere brutto e povero per
esempio.”
(fine
prima parte)
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