Da piccolo volevo diventare uno scrittore

di Bigio_Phoenix008
(/viewuser.php?uid=965583)

Disclaimer: questo testo è proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.




"Ti sei per caso perso nei tuoi pensieri di nuovo?"

In effetti mi ero addormentato su una di quelle sedioline delle sale d'aspetto: Una di quelle anonime dell'Ikea con un nome impronunciabile e troppe dieresi anche per uno svedese.

La voce che mi aveva svegliato era quella di Prometeo, il custode dell'ufficio collocamento, con il quale avevo costruito un rapporto particolare (niente di omosessuale, ma un amicizia sicuramente più stretta delle viti della porta cigolante del suo sgabuzzino).

Lo ringraziai di avermi svegliato 25 persone prima del mio turno e andai, non volendo riaddormentarmi, a fumarmi una sigaretta. Cosa scontata, fumando la sigaretta sulle scale anti incendio, il freddo autunnale mi ha fatto perdere il gusto del momento.

Odio il freddo. Come il mio lavoro. Ma, dalle mie parti, non è educato lamentarsi: Mica siamo genitori di una scuola italiana. Però giustamente, dopo due anni di un lavoro che non ti soddisfa, ti sale in gola un'autocritica che non immagini; infatti io volevo fare il professore quando ero piccolo. Insegnare ai ragazzi le cose belle, insegnare loro a lottare per ciò che conta, insegnarli il piacere della scoperta e della vita. Invece sono finito qui, a fare la morte.

Già perché nella mia famiglia c'è la macabra tradizione di diventare tutti quanti una o più morti.

Io invece non ho mai sopportato questo stupido lavoro, anche perché mio zio mi racconta ancora di quel tale Nat Ackerman che riuscì a fregarlo con una partita a ramino.

La sigaretta è a metà, ma se qualcuno uscisse troverebbe un tizio incappucciato che scribacchia su di un fazzoletto… che altro non sarebbe quello che stai leggendo.



[…]



Entro. Non è ancora il mio turno.

Ogni mese torno in questo ufficio con la speranza che il prossimo lavoro non sia qualcuno che deve morire. Che sia un vecchio, un politico, un giovane scrittore o una quarantenne ninfomane, ogni volta mi mandano da qualcuno. Ogni volta vedo il mio sogno allontanarsi. Ogni volta vedo la realtà divergere dal le mie speranze.

Torno fuori.

E penso a quanto sia buffo che io, morte, fumi: La morte prende proprio tutti e lei stessa è semplicemente l'ultima.

Ripensandoci mi vengono in mente tutti i miei "clienti"; li ho sempre chiamati così per mantenere le distanze.

Alcuni, però, mi hanno insegnato qualcosa. Qualcosa che voglio appuntare affinché venga trasmesso e ricordato. Perché se ogni mese, in quello stupido ufficio di collocamento, il mio sogno prende pugni e sprangate da bene due anni, ora, con questo scritto, voglio fare quello che piace a me: Dare un senso alla vita; e lo farò… parlando di me e del mio lavoro. Lo farò parlando di morte.

Divertente come paradosso, no?

No. Forse no.

 





Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3625229