(seconda parte)
Allontanandosi
dall'ospedale, Lewis incontra il cappellano militare.
“Siete
andato a trovare i feriti, capitano?” gli chiede il
reverendo stringendosi come sua abitudine il messale al petto,
“un'attività molto commendevole.”
“Ho
fatto visita al tenente Grosvenor, padre,” risponde Lewis.
“Povero
giovane,” sospira il prete.
“Sì,
una brutta ferita.”
“Oh,
non alludo certo alle piaghe della carne,” risponde il
cappellano. “Un ragazzo davvero sfortunato.”
Il
capitano lo fissa incuriosito. “A cosa vi riferite,
reverendo?”
“Non
dev’essere facile crescere senza l’amore dei
genitori, non
credete? Senza un padre che vigili su di te, che mostri orgoglio
quando ti comporti bene e ti faccia capire quando stai sbagliando
perché ti ritiene degno di migliorare.”
“Come
sapete della famiglia di Grosvenor?”
“È
stato lui a parlarmene. A suo modo, s’intende, ma io dico
sempre che bisogna andare al di là delle apparenze e saper
ascoltare
col cuore, più che con le orecchie.”
Sospettando
che stia per arrivare una predica su buoni sentimenti e
amore per il prossimo, il capitano nasconde a fatica un moto di
fastidio. Quando il reverendo ci si mette sa essere piuttosto
prolisso, e senza neanche qualcosa di fresco da sorseggiare mentre
parla diventa difficile sopportarlo.
Ma
il religioso non sembra intenzionato a concionare. “Povero
giovane,” ripete invece con fare rassegnato,
“quanti talenti
sprecati.”
Guarda
in direzione delle capanne pomposamente definite ospedale,
quindi torna a voltarsi verso il capitano e dice:
“È intelligente
e coraggioso, avrebbe tutte le potenzialità per essere un
ottimo
ufficiale.”
“A
giudicare dal suo fascicolo personale, sembra che la cosa non
gli interessi molto,” risponde cautamente Lewis.
“Non
fatevi ingannare anche voi, capitano,” replica il reverendo,
“quel ragazzo è un incompreso. Tutto
ciò che chiede è un po’
di considerazione.”
“Non
mi sembra che abbia scelto il modo migliore per ottenerla.”
“Non
gli si può fare una colpa se non avendo mai ricevuto amore
non sa come fare a chiederlo, non vi pare?” Sospira di nuovo,
guarda il breviario come alla ricerca di ispirazione. Infine
prosegue: “Tutte le sue bravate, come
vengono con spregio
definite, sono in realtà dei tentativi di ottenere quella
considerazione paterna che non ha mai ricevuto. Se solo trovasse
qualcuno in grado di capirlo, credo che gli darebbe anche
l’anima.”
“Come
Bucefalo con Alessandro Magno?” chiede ironico il capitano.
“Una
cosa del genere.”
§
Lewis
guarda il cappellano procedere verso l’ospedale traballando
sul terreno irregolare. L’idea del mite religioso che cerca
di
portare conforto al tenente Grosvenor lo fa sorridere. Quel diavolo
di un tenente se lo rigirerà come vuole. Gli farà
due moine, gli
rivolgerà quel suo sguardo da furbetto e riuscirà
a farsi portare
di nascosto persino il brandy che il dottore gli ha così
energicamente proibito.
Mentre
si incammina verso gli alloggi degli ufficiali riflette sulle
parole del religioso.
Ecco
che emerge un'altra faccia del tenente Grosvenor, ovvero il
ragazzino in cerca d’affetto. Certo che se è
veramente così fa di
tutto per dissimularlo: i suoi comportamenti sembrano quelli di chi
è
intenzionato a farsi detestare, piuttosto. Non sarebbe più
facile
essere un bravo ufficiale, rispettoso e capace? Così
sì che
otterrebbe quella considerazione cui tanto sembra anelare.
Ma
forse il cappellano ha ragione, non bisogna fermarsi alle
apparenze.
Così
camminando e ragionando tra sé e sé passa davanti
alla tenda
che funge da circolo
ufficiali e decide
di fermarsi a bere
qualcosa.
Non
che ci sia una gran scelta, ma con quaranta gradi all'ombra anche
un semplice bicchiere d'acqua diventa decisamente piacevole. Basta
poi avvolgere le bottiglie in una pezzuola bagnata e per effetto
dell’evaporazione le bevande in esse contenute diventano
anche
piacevolmente fresche. Trucchi da colonie.
All’interno
ci sono alcuni suoi colleghi: il capitano Ross della
compagnia comando, il maggiore Feldman e il tenente Hogarty delle
neo-costituite truppe cammellate, il capitano Stevens del
diciannovesimo ussari e un tenente dei dragoni di cui non conosce il
nome.
“Capitano
Lewis!” lo accoglie Ross, “Dite, è vero
quel che si
sente ripetere in giro?”
“Cosa?”
chiede il nuovo arrivato.
“Che
state cercando di convincere Turner ad autorizzare l'avvio
delle pratiche per il conferimento della Victoria Cross al tenente
Grosvenor.”
Si
sentono alcune risatine soffocate.
“È
così,” risponde Lewis, come se si trattasse della
cosa più
normale del mondo.
“Decisamente,
capitano, siete una persona cui non fa difetto il
senso dell'umorismo!”
Le
risatine aumentano di intensità, serpeggia persino qualche
commento ironico.
Stoicamente,
Lewis fa finta di nulla. Si siede a un tavolino e si
appoggia all'indietro sulla sedia con l'aria di non dare alcun peso
alla faccenda.
Un'ordinanza
in giacca bianca gli porta un bicchiere di limonata
accettabilmente fresca.
A
questo punto il capitano percepisce intorno a sé un silenzio
innaturale. “Ebbene?” chiede, senza rivolgersi a
nessuno in
particolare.
“Allora
è proprio vero? La vostra non era una battuta?”
s'informa cautamente Ross, che evidentemente non si capacita della
questione.
“Certo
che è vero,” il capitano Lewis è anche
un po' piccato.
“Il tenente Grosvenor ha compiuto un'azione eroica, l'ho
visto io con questi occhi. Ha caricato all'arma bianca un gruppo di
mahdisti per proteggere i marinai dell'Alexandra, e nel
corso
dell'azione è anche rimasto gravemente ferito!”
“L'ho
sentito dire,” conferma il maggiore Feldman.
“E
non credete che sia un'azione degna di encomio?”
“Teoricamente
lo sarebbe,” concede l'altro.
“Anche
in pratica.” Con la solita compunzione Lewis recita i
requisiti per il conferimento della Victoria Cross: “Cospicuo
coraggio o audacia, o importanti atti di valore o auto-sacrificio, o
estrema devozione al dovere in presenza del nemico.”
Silenzio
siderale. Qualcuno tossicchia con fare imbarazzato.
“Il
coraggio non gli manca, in effetti,” ammette il capitano
degli ussari.
“Io
la definirei faccia di bronzo più che coraggio,
signore,”
replica freddamente Hogarty.
Cominciano
a parlare di Grosvenor. La fazione più moderata lo
classifica essenzialmente come un giovane scapestrato che
però
quando c'è da sparare non si tira indietro, mentre i censori
più
severi lo definiscono un cialtrone arrogante e debosciato del tutto
inadatto alla vita militare.
Sono
tutti d'accordo però nel ritenere che la più alta
decorazione
dell'Impero conferita a uno come Grosvenor segnerebbe la fine della
leggendaria disciplina per cui l'Esercito britannico va giustamente
famoso.
“L'unica
sarebbe che morisse in seguito alle ferite,” conclude
Feldman con salomonica equanimità,
“così non ci sarebbe più il
problema di questa benedetta Victoria Cross. Non mi risulta che venga
conferita alla memoria.”
L'unico
a commentare la frase è Hogarty, che freddamente dice:
“Dubito che il Signore Iddio ci farà un dono
così grande.”
§
“Signor
capitano, posso dirvi due parole?” È il tenente
Hogarty.
Lewis
lo fissa perplesso.
“In
privato,” specifica il giovane ufficiale. A giudicare dalla
sua espressione tesa e risoluta, sembra che la sua missione sia
quella di scongiurare il verificarsi di un disastro.
“D'accordo,
tenente, seguitemi.”
I
due si allontanano di qualche centinaio di iarde dall'accampamento.
Hogarty cammina svelto, addirittura superando il capitano. Sembra che
abbia una certa urgenza di parlare con il suo superiore. Continua a
guardarsi in giro, come per essere sicuro che il luogo sia
effettivamente deserto come sembra.
Quando
tutt'intorno ci sono solo sassi bruciati dal sole e sabbia
rossastra, il tenente dice: “Io ho fatto l'accademia con
Grosvenor,
signore, quindi posso dire di conoscerlo meglio di chiunque
altro.”
Fa una breve pausa poi specifica: “ Anche di voi, con
rispetto
parlando, signore.”
“Voi
dite, tenente?”
“Sì,
signore. E perdonatemi se vi dico che il tenente Grosvenor vi
ha ingannato nascondendovi chi è... cos'è
veramente.”
“Che
intendete dire?” chiede Lewis incuriosito.
“Senza
dubbio avrà fatto la parte del giovanotto simpatico,
vero?”
prosegue Hogarty come se non avesse neppure sentito la domanda del
capitano, “sarà stato ironico e signorile, vi
avrà detto delle
battute spiritose, non è così?”
“Sì,
l'ha fatto.”
“Quello
è il suo modo di ingraziarsi le persone. Probabilmente
cercherà di ottenere qualcosa da voi.”
“Un
momento, tenente. Grosvenor non sa nulla della Victoria Cross,
se è questo che intendete.”
“Allora
vorrà qualcos'altro,” replica con sicurezza
Hogarty,
“probabilmente nei prossimi giorni ve lo farà
discretamente
sapere. Comunque non è questa la cosa di cui volevo
parlarvi.” Si
morde il labbro inferiore e distoglie lo sguardo dal capitano come se
di colpo fosse molto imbarazzato.
L'altro
non dice nulla limitandosi a fissarlo.
Dopo
qualche secondo di silenzio, il tenente dice: “Signore,
conferire la Victoria Cross a Grosvenor sarebbe un abominio.”
Sillaba la parola con espressione disgustata, come per assicurarsi
che al capitano sia ben chiaro il concetto.
La
conversazione è privata e informale, quindi Lewis non
dà peso al
modo in cui il subalterno gli ha rivolto la frase.
“Perché,
tenente?” gli chiede invece incuriosito.
“Signore,
il tenente Grosvenor è un...” esita, di nuovo si
morde
il labbro inferiore. “...è un invertito.”
È
come se sputasse fuori la parola perché troppo schifosa da
tenere
in bocca.
“E
voi come lo sapete?” chiede con calma il capitano.
“Tutti
lo sanno,” risponde Hogarty, non accorgendosi, o fingendo
di non accorgersi delle possibili implicazioni della domanda.
Il
capitano deve ammettere a se stesso che in effetti anche lui ha
sentito strane voci sul tenente Grosvenor.
“È
un crimine molto grave,” dice comunque, “come
può essere
ancora nell'Esercito se tutti sanno delle sue tendenze?”
“Suo
padre, ovviamente.”
“Sarebbe
a dire?”
“Il
duca di Westminster ha sempre messo a tacere gli scandali che
la vergognosa condotta di Grosvenor periodicamente sollevava. Non
certo per amore paterno – quale padre degno di questo nome
amerebbe
un figlio del genere? – quanto piuttosto per far
sì che il buon
nome della famiglia non venisse sporcato dalla depravazione di
quell'individuo sordido e corrotto.”
“Siete
sicuro di quello che dite, tenente?” chiede Lewis dopo
aver ascoltato quello che ha più che altro l'aria di uno
sfogo
esasperato.
“Certo
che ne sono sicuro. Pensate forse che sia una mia
invenzione? Grosvenor è un essere spregevole, un pervertito
abietto
e senza moralità.”
“Se
è tutto così chiaro e alla luce del sole,
perché non l'avete
mai denunciato?”
Hogarty
ha un sorriso sprezzante. “A che servirebbe? Tanto suo
padre metterebbe tutto a tacere.”
Lewis
sospira allontanandosi di qualche passo. Dà un calcio a un
ciottolo, che rotola via con un rumore sordo. Nel cielo di smalto
azzurro non si ode nulla, nemmeno il richiamo d'un uccello o il
frinire di un insetto. L'aria è perfettamente immobile.
È
vero? Non è vero? Hogarty vuole difendere il decoro della
Nazione
o è semplicemente invidioso della noncurante
spregiudicatezza del
collega?
Quello
che lo fa parlare è il fiero sdegno dell'appassionato
censore
o l'astio meschino di uno spasimante respinto?
“Conferire
la Victoria Cross a Eldred Grosvenor sarebbe un
abominio,” ripete il giovane ufficiale alle sue spalle.
“Faccio
appello al vostro senso etico, signore. Disonorerebbe le Forze
Armate.”
§
“Caporale
Bruce McKenna a rapporto, signore!” esclama il robusto
graduato della Black Watch, peraltro a voce ben più alta del
necessario.
È
un montanaro delle Highlands grosso come un armadio ed
estremamente fiero del suo kilt.
“Riposo,
caporale,” dice Lewis. “Immagino che sarete curioso
di
sapere perché vi ho fatto chiamare.”
“Con
tutto il rispetto, signore, credo di saperlo!” risponde il
caporale con un tono che vorrebbe essere basso e confidenziale ma
somiglia al muggito di un elefante marino. “È per
quella faccenda
della Victoria Cross, vero?”
“Abbassate
la voce, che diamine! Volete che vi senta Osman Digna in
persona?”
“Scusate,
signore.”
“Come
sapete della Victoria Cross?”
“Ne
parlano tutti, signore, e se volete la mia opinione è una
cosa
dannatamente giusta.”
Il
capitano sospira con fare rassegnato. Per quanto abbia cercato di
fare le cose con la massima discrezione, i misteriosi canali di
informazione della truppa sono stati più efficienti di lui.
“Ditemi
quello che ricordate, allora, così vediamo se riesco a
convincere il signor colonnello a mandare avanti questa benedetta
pratica.”
“Il
problema è nato con quei marinai,” esordisce lo
scozzese. Si
interrompe un istante con l'aria di riflettere su quanto ha appena
detto, quindi con tono che denota una certa familiarità
prosegue:
“Che poi non è che gli si possa fare una colpa a
quelli là se
fuori dalle loro bagnarole non sanno nemmeno tenere un fucile in
mano.”
Dopo
l'inciso si stringe nelle enormi spalle con fare rassegnato e
continua col racconto: “Finché sono riusciti a far
funzionare la
mitragliatrice le cose sono andate per il loro verso, ma poi
l'aggeggio si è inceppato. A quei pecorai non gli pare vero.
Partono
di corsa urlando come invasati e agitando le armi con una gran voglia
di fare usare le frattaglie dei ragazzi dell'Alexandra per
fare lo haggis.”
“Voi
dov'eravate, caporale?” chiede Lewis.
“Lì
vicino, signore. I miei ragazzi ed io ci stavamo guadagnando
la paga.”
“Non
lo metto in dubbio, caporale.”
“Era
per dire che ne stavamo facendo fuori parecchi, signore,”
precisa il caporale.
“Certo,
capisco.”
“Insomma,
ad un certo punto ci accorgiamo che quelli in bianco sono
nella merda fino al collo, con rispetto parlando.”
“Erano
attaccati dai mahdisti?”
“Se
erano attaccati? C'erano più mahdisti su quella collina che
pulci su un cane randagio!”
“Capisco,
caporale.”
“A
questo punto arriva Grosvenor, salta giù dal suo dromedario
e
ci fa: venite,
ragazzi. Andiamo a dargli una mano! Poi tira
fuori la pistola e parte in testa a tutti.” Il tono di voce
del
caporale si alza nel rievocare l'episodio. “Avrebbe potuto
restarsene tranquillo sul suo animale, capite, signore? Avrebbe
potuto mandarci avanti e starsene a guardare lo spettacolo dall'alto,
e invece niente di tutto questo. A piedi e per primo. Uno
così lo si
segue anche all'inferno, dico io.”
“Anch'io
sono del parere che sia un bravo ufficiale,” dice il
capitano Lewis.
“Allora
gliela farete avere?” chiede il caporale McKenna dopo una
pausa.
“Ci
proverò, caporale. Ci proverò.”
§
Il
capitano congeda lo scozzese con la sensazione che il tenente
Eldred Grosvenor abbia più avatar di una
divinità indù.
Ne
ha appena scoperti altri due: il sodomita vizioso e il condottiero
carismatico.
Certamente
nella Storia non mancano esempi di personaggi che
assommavano in sé entrambe le caratteristiche, ma ormai
conciliare
in un uomo solo tutte le versioni del tenente Grosvenor di cui
è
venuto a conoscenza sta diventando complicato.
I
suoi passi meditabondi lo conducono all'ospedale.
Là
c'è il dottor Owen con un diavolo per capello.
“Volete per
caso vedere il vostro caro tenente,
Lewis?” ringhia
vedendolo arrivare.
“Beh,
sì. Sarebbe la mia intenzione,” risponde
cautamente il
capitano. Lanciandogli un'occhiata preoccupata chiede:
“Qualcosa
non va?”
“È
ubriaco fradicio!” sbraita il dottore, “qualcuno
gli ha
portato una bottiglia di brandy e lui se l’è
scolata fino
all’ultima goccia! Con questo caldo e nelle sue
condizioni!”
“E
come sta adesso?” chiede Lewis preoccupato.
“Come
sta? Benissimo, che Dio lo strafulmini!”
Non
è chiaro se il medico sia più arrabbiato
perché Grosvenor ha
bevuto di nascosto o perché nonostante abbia bevuto non
è morto e
non manifesta particolari aggravamenti delle sue condizioni.
“Posso
vederlo?”
“Ma
certo, vedetelo finché volete! Portatevelo anche via,
già che
ci siete!”
Lewis
ritiene più saggio non insistere e raggiunge autonomamente
la
capanna dove è ricoverato Grosvenor.
Il
tenente è molto allegro.
Non si riesce a capire quanto sia
ubriaco, perché dissimula con consumata abilità.
Solo l’umore
garrulo e lo sguardo ancora più brillante del solito fanno
sospettare una generosa assunzione di derivati della Vitis
Vinifera.
“Caro
capitano!” lo accoglie, “siete venuto a farmi un
po’ di
compagnia?”
È
in piedi accanto al buco pomposamente definito finestra. Indossa
una vestaglia di seta blu recuperata chissà dove e ha il
braccio
destro al collo.
“Come
state, tenente?” gli chiede Lewis.
“Molto
bene, signore.”
“Per
caso avete… ehm… bevuto, tenente?” La
bottiglia vuota
troneggia al centro del tavolino tra le garze e l’ovatta per
le
medicazioni.
“Certo,
signore,” risponde Grosvenor con la massima naturalezza.
“Ma
il dottore ve l’aveva proibito.”
Il
tenente sorride. “È la ferita. Da quando mi hanno
colpito sono
terribilmente smemorato, non so perché. Sicuramente
sarà colpa
dell’indebolimento legato alla perdita di sangue.”
Fissa
il suo superiore con un’espressione che probabilmente
instillerebbe anche in San Francesco d’Assisi un prepotente
desiderio di prenderlo a sberle.
“Ma
tenente! E se vi avesse fatto male?”
“Ma
no, era solo un sorso per buttare giù meglio le
medicine.”
“La
bottiglia è vuota!”
“Beh,
diciamo allora due o tre sorsi. Ma
vi assicuro, non è
niente di così terribile, e se il dottor Owen non fosse
così
apprensivo lo riconoscerebbe lui stesso. Comunque lo capisco,
è un
tipo molto affezionato ai suoi pazienti.”
L’ultima
frase suona ferocemente sarcastica, e forse lo è anche,
ma al solito è impossibile capire se Grosvenor stia parlando
sul
serio o stia scherzando.
“Vedo
che siete in piedi, tenente,” dice Lewis cambiando
discorso.
“Ormai
quella branda mi aveva ammaccato tutte le ossa, signore.”
“Non
vi sentite debole?”
“No,
non particolarmente.”
Il
giovane ufficiale muove qualche passo per dimostrare al suo
superiore che non ha alcun bisogno di riposo a letto, ma barcolla
miseramente e si affloscerebbe al suolo se il capitano non si
precipitasse a prenderlo fra le braccia.
Rimangono
teneramente avvinti al centro della piccola stanza.
“Che
irruenza, signore,” sussurra Grosvenor con un sorriso
impertinente, “ma non vi sembra una cosa un po’
prematura? In
fondo ci siamo appena conosciuti.”
Lewis
fa un salto indietro come se di colpo avesse scoperto di essere
abbracciato a un serpente velenoso. Lo fissa torvo, incapace di
trovare una risposta adeguata. Dannato tenente, anche su quello
deve fare battute?
“Non
prendetevela, signore, scherzavo,” gli dice Grosvenor con la
più grande tranquillità.
“Scherzi
di cattivo gusto, tenente,” non può fare a meno di
replicare Lewis.
Grosvenor
lo guarda con un’espressione che sembra voler dire allora
anche tu sei come gli altri.
“Intendevo
dire che mi avete colto un po’ alla sprovvista,”
brontola il capitano, come se di fronte a quello sguardo sentisse il
bisogno di giustificarsi in qualche modo.
“Naturalmente,
signore.”
Ma
l’atmosfera in certo qual modo confidenziale che si era
creata
sembra essersi incrinata irrimediabilmente. Il capitano ha la
sensazione di aver rovinato qualcosa, come se dopo aver abituato un
animale selvatico a mangiargli dalla mano l’avesse fatto
scappare
colpendolo senza motivo.
“Sarà
meglio che vada,” dice.
“Sono
certo che abbiate innumerevoli cose da fare.” Il tono del
tenente gronda letteralmente di spocchia aristocratica. Ecco un altro
dei suoi avatar: il rampollo con otto secoli di nobiltà nel
gentilizio.
§
Quando
si allontana dall’ospedale, il capitano è
stranamente
scombussolato.
Brutta
esperienza deludere una fiducia così spontaneamente concessa.
Ripensa
alle parole del reverendo: Grosvenor desidera considerazione,
ma non avendone mai ricevuta non sa come chiederla.
Raccoglie
le sue carte e va dal colonnello Turner con insolita
trepidazione. È tutto pronto: ha scritto una relazione di
suo pugno,
ha la testimonianza di McKenna e quella di Larkin. Ora basta solo che
Turner dia il parere positivo e la pratica partirà col
prossimo
corriere. Arriverà prima al generale Stewart e poi al Cairo,
da lì
a Londra e a Dio piacendo nelle mani di Sua Maestà la
Regina, che
graziosamente stabilirà se concedere o meno la Victoria
Cross al
coraggioso tenente Grosvenor.
Lewis
ci spera, nonostante tutto quel ragazzo la meriterebbe.
Il
colonnello però non è dello stesso parere.
“Capitano, ora
basta,” dice con tono esasperato. “Ho avuto
pazienza, ho
tollerato la vostra idea stravagante per dieci giorni, ma ora la
misura è colma. Lasciate perdere la Victoria Cross e tornate
alla
realtà.”
Il
capitano è sull’attenti di fronte al suo
comandante. Fissa con
impegno un punto all’infinito dietro di lui, tipico
atteggiamento
del militare che non vuole cedere ad un superiore ma non vuole
nemmeno uscire dai limiti imposti dalla disciplina. “Signore,
mi
permetto di insistere,” dice imperterrito.
Turner
sospira innervosito.
“Riposo,
capitano,” dice per prima cosa, poi pazientemente
prosegue: “Lewis, io non sono il papà di Eldred
Grosvenor, io
comando un Reggimento. Questo significa, come voi potete immaginare,
che non ho solo il vostro tenente a cui pensare, sebbene lui faccia
di tutto per essere sempre al primo posto nei miei pensieri, e non
certo per la sua buona condotta. Ho seicento uomini che si aspettano
da me giustizia, correttezza e imparzialità.”
“Se
posso permettermi, signore, gli uomini vedrebbero di buon
occhio il conferimento di questa decorazione” interviene il
capitano.
Duramente,
il colonnello risponde: “Gli uomini vedrebbero allo
stesso modo una distribuzione straordinaria di liquore o una licenza
a Suakin, capitano. Sono persone semplici e amano le cose insolite e
divertenti. Tocca a noi, come accorti genitori, dare loro
ciò di cui
veramente hanno bisogno, ovvero comportamenti esemplari cui
conformarsi. Una decorazione, come potete ben capire, non è
solo un
premio per chi l'ha meritata, ma anche un esempio per tutti gli
altri. Conferire una Victoria Cross a Grosvenor sarebbe come dire: ma
certo, comportatevi pure da cialtroni, rientrate in ritardo dalla
libera uscita, siate insolenti, ubriacatevi. Basta che poi spariate
quando c’è da sparare e si passa sopra a qualsiasi
cosa.”
Fa
una pausa, fissa il capitano negli occhi. “E come diretta
conseguenza questo non sarebbe più un esercito,”
dice con vago
disgusto, “diventerebbe una banda di predoni. I nostri
nemici,
forse, potrebbero accettare un ragionamento del genere, noi
decisamente no.”
Nella
tenda c’è un silenzio greve, rotto solo dal
marciare
cadenzato di una colonna di soldati all’esterno.
“Fino
ad ora ho tollerato la vostra iniziativa, capitano,”
prosegue Turner, “siete un bravo ufficiale e tutti abbiamo
bisogno
di svagarci un po’, ma ora basta. Questo scherzo è
durato anche
troppo, e sta già avendo un effetto negativo sulla truppa e
sugli
ufficiali. Datemi le vostre carte e consideriamo chiusa la
questione.”
Tende
la mano.
“Signore,
mi permetto di insistere,” ripete Lewis.
La
mano non si muove.
“Signore…”
la voce del capitano ora suona vagamente implorante.
“Datemi
quelle carte e facciamola finita,” dice il colonnello.
§
Quando
esce dalla tenda del colonnello Turner, il capitano Lewis sta
fremendo di rabbia impotente. È furibondo, fuori di
sé, avrebbe
solo voglia di prendere a pugni qualcuno e ubriacarsi, non
necessariamente in quest’ordine.
Ce
l’ha col suo superiore, che non ha voluto concedere a
Grosvenor
la possibilità di ottenere un’onorificenza che gli
spettava di
diritto, ce l’ha con se stesso per non aver resistito con
maggiore
fermezza alle pressioni del colonnello e ce l’ha anche col
tenente,
che col suo comportamento da stupido si preclude una carriera che
date le sue indubbie capacità sarebbe senz’altro
rapida e
smagliante.
Entra
nella tenda che funge da circolo ufficiali e chiede un doppio
whisky.
Lo
sorseggia cupamente, nessuno osa rivolgergli la parola. Persino
Hogarty, che con ogni probabilità ha intuito il motivo del
suo umore
plumbeo, evita saggiamente di avvicinarsi per godersi il trionfo
della virtù sulla perversione.
Lewis
finisce di bere ed esce.
“Qualcuno
sa cosa gli sia accaduto?” chiede il capitano Ross
seguendo con lo sguardo le spalle rigide del collega che si
allontanano.
“Niente
Victoria Cross,” spiega il tenente Warren, segretario del
colonnello Trurner.
“Manco
l'avessero dovuta conferire a lui,” commenta Ross
scuotendo la testa.
§
Il
capitano Lewis si dirige per l'ennesima volta verso l'ospedale.
Sta calando la sera e le capanne immerse nella penombra acquisiscono
un aspetto quasi gradevole. Spira anche una brezza relativamente
fresca, che mormora gentilmente tra le foglie delle palme.
Stavolta
Eldred Grosvenor è confinato a letto, proibite le
passeggiate in vestaglia di seta. La medicazione è stata
rifatta di
recente, probabilmente la sua ultima prodezza gli aveva fatto
riaprire la ferita.
Ma
come sempre il tenente dice che sta benissimo. Mai stato
meglio.
Il
capitano si siede sul solito sgabello. Si sente piuttosto
infelice. Colpa dell'alcol a stomaco vuoto, probabilmente. Forse non
è stata una grande idea scolarsi quel doppio whisky. Forse
neppure
la questione della medaglia è stata una grande idea.
“Qualcosa
non va, signore?” gli chiede ad un certo punto
Grosvenor.
Lewis
sospira. “Soliti problemi coi superiori, sapete
com'è.”
“Se
c'è qualcuno che lo sa sono proprio io,” risponde
il tenente
con un sorriso.
“Già,
avete ragione.” Il capitano sorride a sua volta.
I
due rimangono in silenzio per un po', infine con il consueto tono
noncurante Grosvenor dice: “Non datevi pena per quella
decorazione,
signore. Sono piuttosto allergico alla retorica, per cui temo che
sarei arrivato alla cerimonia completamente ubriaco e Turner non me
l'avrebbe mai perdonato. Inoltre Sua Maestà sarebbe dovuta
salire su
una predella o qualcosa del genere per arrivare ad appuntarmela sul
petto. Una cosa decisamente antiestetica.”
Le
parole di Grosvenor giungono talmente inaspettate che Lewis non
può fare a meno di esclamare: “Cosa?”
“La
Victoria Cross, signore,” spiega il giovane ufficiale col
tono svagato di una conversazione da salotto, “apprezzo i
vostri
sforzi, ma è una decorazione piuttosto inadatta a me, non
credete?”
“Ma
cosa... come sapete della Victoria Cross?”
“Non
esiste categoria umana meno discreta dei militari. Buffo, no?
Dal momento che teoricamente dovremmo vivere nella
segretezza.”
Fa
un teatrale sospiro come di esasperazione.
“Mi
dispiace, tenente,” dice il capitano dopo una pausa.
“Davvero,
non datevi pena,” risponde Grosvenor, “sono certo
di
poter fare a meno delle dieci sterline annuali della rendita, e di
sicuro l'aspirazione della mia vita non è farmi salutare
anche dai
generali quando passo per la strada. Poveri generali, vi immaginate?
Costretti a salutare uno come me.”
Rivolge
al capitano uno sguardo ironico.
“La
meritavate, tenente” dice Lewis con convinzione.
“Meritare
e ricevere sono due concetti che raramente coincidono,
signore. Almeno nel mio caso,” risponde Grosvenor, serio
forse per
la prima volta da quando il capitano lo conosce.
Lewis
lo fissa esterrefatto, ma lo spiraglio si è già
richiuso
ermeticamente e il tenente gli mostra di nuovo la sua espressione da
guascone sfrontato.
“Volete
rendermi davvero felice, signore?” chiede con un sorriso,
“assolutamente, perfettamente felice?”
“Lo
farei volentieri, tenente.”
“Vi
prego, allora, fatemi avere un gin tonic decente. Non pretendo
il ghiaccio, per quello temo che dovrò aspettare di essere
al Cairo,
ma se fosse anche solo accettabilmente fresco, e con la sua bella
fetta di limone, sarebbe già una gran cosa.”
(FINE
– e un grande grazie a chi si è sobbarcato la
lettura fin
qui^^)
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