1- Misteri d'estate
Tutta
questa storia è dedicata a kibachan,
che con la sua fic
“verità velate” ha cominciato a farmi
apprezzare per
prima le Kiba/Hinata
Come il Sole ad Est
Misteri d’estate
“Finalmente!” fu l’unico pensiero che in
quel momento dominò la sua giovane mente di tredicenne.
Basta esami, basta lezioni, basta collegio!
“Almeno fino a settembre…” si rese conto
amaramente,
ma fu soltanto una nuvola passeggera. Era estate, era giugno, ed era
libera! Persino una ragazzina abituata alle briglie più
inamidate e al morso più prezioso poteva arrivare a provare
il
senso di oppressione che aveva avvertito lei nelle ultime settimane, e
il senso di libertà che provava in quel momento la faceva
sentire euforica.
Innanzitutto a partire dal vestito. Sarà anche vero che
l’abito non fa il monaco, ma dopo un intero terzo anno
stretta
nelle maniche e nelle calze della divisa scolastica scura, non poteva
non provare un moto di gioia nell’indossare un semplice
prendisole bianco.
L’aria calda, eppure così rinfrescante, che
sentiva sulle
braccia nude era quanto di più meraviglioso potesse esserci
al
mondo in quel momento. Si sentiva come un uccello pronto a spiccare il
volo.
Correva a perdifiato per quella stradina deserta, il vento che le
accarezzava la nuca su cui i capelli erano tagliati corti, e poco le
importava che la corsa le gonfiasse di tanto in tanto la gonna. Su
quella strada non c’era nessuno, nessuno avrebbe potuto
vederla e
giudicarla storcendo leziosamente il naso.
Persino i suoni di quella giornata idilliaca acquistavano
un’intensa nota di perfezione: il vociare dei suoi coetanei
nella
piazza poco distante, gli uccelli che cantavano a squarciagola, il
ronzio dei frigoriferi della gelateria che aveva appena sorpassato, al
momento ancora praticamente deserta… e uno
“Yap”
vivace proveniente da un punto imprecisato fra l’erba sul
ciglio
della strada.
Yap?
Hinata arrestò la sua corsa così bruscamente da
rischiare di inciampare nei suoi stessi piedi.
Ancora ansimante, si guardò intorno, circospetta.
L’unica
cosa che potesse fare “yap”, secondo le sue nozioni
di
zoologia, erano i cani. E i cani non le piacevano affatto. Diciamo
piuttosto che le facevano parecchia paura, anche se al momento era
ancora in grado di trattenere l’emozione che provava sotto la
soglia del “gelido timore”.
Incerta se muoversi verso il punto da cui aveva udito provenire il
suono, se ne stava ancora ferma impalata in mezzo a quella stradina
sterrata buona solo per le biciclette, quando una macchia indistinta
color panna si staccò dal verde circostante e in pochi balzi
fu
ai suoi piedi.
Un sospiro di totale sollievo si fece strada dai polmoni della
ragazzina. Il cagnolino scodinzolante che stava alzando la testa verso
di lei era minuscolo, di sicuro più piccolo degli enormi
gatti
boriosi che sua madre insisteva nel tenere in casa, dicendo che
diminuivano la sua ansia. Non costituiva in alcun modo un pericolo, per
lei.
Così si decise a piegarsi sulle ginocchia e ad allungare la
mano
verso la testolina dell’animale, che non esitò ad
approfittare della quantità di coccole che gli veniva
offerta.
- Ciao, cucciolo – disse la
ragazzina, che
sorrise quando il cagnolino iniziò a leccarle grato la mano,
piacevolmente sorpresa da quell’inaspettata manifestazione
d’affetto.
- Da dove vieni? – chiese
ancora, come se l’animale potesse davvero risponderle.
Giocarono ancora per un po’, con il cane che si metteva a
pancia
in su per farsi coccolare e guaiva soddisfatto in risposta. Poi ad un
certo punto, come avesse udito qualcosa a cui gli esseri umani erano
sordi, si rialzò e drizzò le orecchie.
Due secondi dopo si era già dato alla macchia, mettendosi a
correre per la stradina senza nemmeno voltarsi indietro.
- Ehi! – esclamò
Hinata, più
sorpresa che contrariata. Perse un istante a chiedersi se gli avesse
dato fastidio in qualche modo, ma lasciò perdere non appena
vide
il cucciolo svoltare l’angolo e sparire dalla sua visuale.
Si mise a correre, inseguendolo.
Fortuna che aveva zampe tanto corte, si ritrovò a pensare
Hinata, altrimenti l’avrebbe seminata in quattro e
quattr’otto. Invece, dato che era così piccolo e
così bianco, stava riuscendo discretamente a stargli dietro,
anche se si stavano inoltrando in un punto della cittadina che
conosceva poco.
Si trovavano in uno dei quartieri più antichi, con tutte
quelle
case grandi e austere costruite almeno due secoli prima, appartenute a
coloro che avevano avuto in mano le redini di quello che un tempo era
un semplice paese, e della campagna circostante. Niente a che vedere
con la parte più ricca e moderna in cui abitava lei, da
quando
si erano trasferiti dopo che sua madre aveva iniziato a soffrire di
“stress da grande città”. Il padre era
sempre via
per lavoro, quindi in quell’enorme e asettica casa erano solo
in
tre: lei, sua madre e la sua sorellina. Più cinque o sei
gatti,
che la madre accudiva forse più delle figlie.
Un angolo, un muro, un albero e un’altra strada. Hinata non
era
sicura che sarebbe riuscita a tornare indietro. Stava vagamente
iniziando a capire come doveva essersi sentita Alice
nell’inseguire il coniglio bianco, un cespuglio dopo
l’altro. Sperava solo di non finire in un buco profondo in
cui
sarebbe precipitata fino a capitare nel Paese delle
Meraviglie…
non le sarebbe certo piaciuto finire in un posto simile, già
il
libro l’aveva letto solo perché costretta a scuola.
Ad un certo punto si chiese da dove spuntasse quel flusso di pensieri
contorti e assurdi che stavano affollando la sua mente. Che stesse
davvero finendo in un mondo sconosciuto dove l’intera
realtà sarebbe risultata capovolta?
A riportarla nel mondo reale fu l’improvvisa scomparsa del
batuffolo bianco che stava inseguendo, in mezzo a un’edera
verde
e rampicante che celava un muro sconosciuto.
Hinata si fermò, boccheggiando un po’ di fronte a
quella
barriera, per poi accovacciarsi e spostare con le mani le foglie nel
punto in cui aveva visto sparire il cane. Alla base del muro
c’era un’apertura, provocata da alcuni mattoni
sconnessi,
apparentemente minuscola ma senz’altro sufficiente a far
passare
un animale così piccolo.
In un solo istante Hinata constatò che tra lei e Alice
c’era un abisso surreale: da quel buco non ci sarebbe mai
passata, inutile sperarci.
Iniziò a guardarsi intorno, cercando un altro modo per
superare
quell’ostacolo. Nemmeno per un istante le sfiorò
la mente
il pensiero che quel che stava per fare potesse definirsi
“violazione di domicilio”: per quel che ne sapeva,
l’intero circondario era praticamente disabitato, nella
maggior
parte di quelle case non viveva più nessuno da anni. I
proprietari abitavano da decenni in qualche città
più
moderna, abbastanza ricchi da lasciar marcire senza rimpianti case di
due secoli prima senza tornarci per anni.
Nella sua accurata ispezione Hinata si accorse che il muro, nei punti
in cui non era ricoperto dall’edera, presentava alcune
sporgenze,
perfette per un’arrampicata. Ringraziando mentalmente- per la
prima e ultima volta in vita sua- quella suora missionaria che aveva
costretto lei e le sue compagne a fare una specie di “corso
di
sopravvivenza”, si arrampicò agilmente su per la
parete,
arrivando presto in cima e finendo tra i rami frondosi di un albero.
A una ventina di centimetri da dove si trovava lei c’era un
ramo
dall’aria robusta, che giudicò abbastanza sicuro
da
reggere il suo peso.
Un piccolo salto, in cui si aiutò reggendosi agli altri rami
tutt’attorno, e si ritrovò dove voleva.
Fece appena in tempo a sedersi e a sentire il legno fresco contro la
pelle, seppur ingentilito dal tessuto del vestito, che una voce
improvvisa e profonda le fece mancare un battito:
- E adesso cosa vorresti fare?
Abbassò immediatamente la testa, allarmata. Ad osservarla
c’erano gli occhi più stretti e allungati che
avesse mai
visto, sovrastati da una capigliatura folta, castana e ribelle. Il
mento aguzzo e i lineamenti affilati contribuivano a rendere ancora
più duro lo sguardo che le stava rivolgendo.
Hinata cominciò a sudare freddo. Non era paura la sua, ma
profonda vergogna per essere stata beccata a fare qualcosa di
sbagliato. Gli anni assieme alle suore avevano prodotto qualche
risultato, alla fine.
- I-io… - balbettò,
confusa e mortificata, non sapendo come scusarsi.
- Senti mocciosa, posso capire che finora
tu e la tua
banda possiate esservi divertiti a venire qui, ma d’ora in
poi si
cambia musica. Se prima la casa era disabitata e potevate fare i cavoli
vostri, adesso dovrete trovarvi un altro posto.
La ragazzina avrebbe avuto almeno un paio di risposte da dargli.
Innanzitutto lì non c’era mai venuta. Poi non
aveva uno
straccio di amico, figurarsi una banda! Infine non si era mai fatta i
“cavoli propri”, né lì
né da
nessun’altra parte, a dire il vero.
Ma la lingua ancora impastata le permise soltanto di dire:
- Io… io ho solo seguito il
cane…
Il viso del giovane che la stava osservando mutò leggermente
d’espressione, squadrandola a metà tra lo scettico
e il
sospettoso. Stava per risponderle qualcosa come un secco
“Vattene, mi hai scocciato”, quando una palla di
pelo
scodinzolante spuntò dal nulla e andò a
sistemarsi
proprio sotto il ramo da cui penzolavano le gambe nude di Hinata.
La ragazzina gli sorrise brevemente, grata quanto un imputato che sente
una testimonianza a proprio favore, prima di alzare leggermente la
testa e dire timidamente, additandolo: - Lui…
Il giovane uomo alzò vagamente un sopracciglio, il viso
contratto in una smorfia obliqua, per poi ringhiare: - Va bene,
mocciosa. Adesso fuori di qui – in tono tanto minaccioso che
Hinata si affrettò ad alzarsi con cautela dal ramo.
Il ragazzo si era voltato dopo aver fatto un breve cenno al cane, che
lo aveva seguito immediatamente, e si era diretto verso il punto del
giardino da cui evidentemente era venuto poco prima.
Hinata stava per girarsi verso il muro, quando con la coda
nell’occhio notò che cosa c’era nel
posto in cui
stava tornando il giovane. Qualcosa di grande, bianco e rettangolare,
appoggiato su un cavalletto. Dove in alcuni punti si cominciavano a
distinguere delle macchie di colore. Una tela.
Non fece in tempo a concentrarsi per un momento nel cercare di capire
che cosa vi si volesse rappresentare, che un paio di parole in grado di
far stramazzare al suolo qualunque suora la fecero girare sui tacchi e
saltare in cima al muro, da dove saltò giù e
iniziò a correre come avesse avuto un intero branco di lupi
alle
calcagna.
Per un paio di giorni Hinata si guardò bene dal tornare
là, ed
ammazzò il tempo leggendo libri ed
assaggiando
tutti i gusti di granite che il negozietto della cittadina offriva.
L’assortimento era meno vario rispetto a quello della grande
città, ma senza dubbio lì gli sciroppi erano
molto
più densi, e quindi la granita sapeva effettivamente di
granita,
più che di ghiaccio soltanto.
Quando si rese conto a che razza di riflessioni era arrivata a forza di
rimanersene da sola tutto il tempo, accettò di buon grado di
accompagnare Hanabi a prendere un gelato al locale centrale, quello che
Hinata di solito evitava, visti tutti i ragazzi più o meno
della
sua età che giocavano a pallone in piazza.
Tuttavia con la sorellina al proprio fianco sentiva di poterli
affrontare. Magari una volta soltanto e non esattamente a testa alta,
ma era meglio di niente.
Ed effettivamente nessuno di quei ragazzini le disse niente, non venne
colpita da una pallonata e nemmeno da un attacco di colera, anzi
raggiunsero entrambe la porta a vetri del locale, facendo tintinnare il
campanello d’entrata quando aprirono e ritrovandosi
d’improvviso nella frescura dell’aria condizionata.
- Ti dico che è
così!
- Ma dai, non posso crederci. E
l’hanno lasciato uscire in questo modo? Dove andremo a
finire…
La vecchia signora dietro il bancone era troppo intenta a discutere con
l’eterna compagna di pettegolezzi per accorgersi delle due
ragazzine entrate nel negozio. Ma Hanabi sapeva farsi sentire, a
differenza della sorella maggiore.
- Un cono cioccolato e pistacchio
– disse, la voce alta e chiara.
Hinata fu tentata di aggiungere “per favore” ma,
vedendo
che nessuna delle due donne aveva battuto ciglio, decise di tacere.
Anzi, non avevano nemmeno smesso di spettegolare:
- Sai, credevo che quella casa sarebbe
rimasta
disabitata per sempre, ormai. E forse sarebbe stato meglio, non mi
è mai piaciuta…
- Gli Inuzuka sono sempre stati dei
selvaggi, era
già tanto che stessero in una casa. Poi la madre era fuori
di
testa, e quando è scappata la sorella avrebbero dovuto
prevederlo che il figlio più piccolo sarebbe finito nei guai.
- Sarebbero guai se avesse avuto la
decenza di farsi
del male per conto suo. Ma quello che ha fatto è abominevole.
- Sono d’accordo, non capisco
come abbiano
potuto lasciarlo uscire. Quanto ci è rimasto in prigione?
- Quattro anni, sembra. E adesso
è agli
arresti domiciliari, quindi non può andare da nessuna parte.
- Dai retta a me, avrebbero dovuto
lasciarlo in
quella cella e buttare la chiave. Ti rendi conto che c’era di
mezzo un ragazzino morto? E per…
Una leggera gomitata e un’occhiata eloquente alle ragazzine
presenti fu sufficiente a far tacere la vecchia, ma solo per un istante.
- Comunque è una vergogna che
l’abbiamo
rimandato proprio qui, secondo me. Speriamo solo che la cosa non si
sappia troppo in giro.
Il commento che Hanabi fece non appena furono uscite nella calura
estiva, prima di leccare il suo gelato, fu:
- Qualunque cosa sia, ci penseranno
quelle due a farlo sapere a tutti nel giro di due giorni, garantito.
Hinata non disse nulla, ma era pienamente d’accordo. Un altro
motivo per cui non le piaceva andare lì erano i pettegolezzi
che
circolavano senza freno, e che cercava sempre di non ascoltare.
Ma quella volta una vocina le diceva che forse la nuova storia poteva
interessarle, se in qualche modo collegata a ciò che le era
accaduto due giorni prima.
Passarono un altro paio di giorni, e Hinata si svegliò
quella
mattina con una strana sensazione. Complice forse un sogno particolare,
di cui ricordava soltanto una tela grezza ricca di macchie di colore
che cambiavano ad ogni movimento, come la luce sulle code dei pesci,
aprì l’armadio in preda ad una vaga ispirazione.
Era piuttosto presto per gli standard estivi, il sole non era ancora
alto, e la ragazzina non incontrò quasi nessuno durante il
suo
percorso solitario. Il gelato di Hanabi le aveva in qualche modo dato
un’idea: quella mattina si era infilata un paio di
pantaloncini
marroni e una canottiera verde oliva, che sperava sarebbero riusciti a
mimetizzarla meglio di un vistoso prendisole bianco.
Giunta alla base di un ben noto muro, si sfilò i sandali,
attenta a non fare il benché minimo rumore. Li
appoggiò a
terra e poi, a piedi nudi, iniziò la scalata.
Pensava che si sarebbe vergognata come un ladro- effettivamente, si
stava comportando come tale- invece era in preda ad una strana euforia.
Non aveva mai fatto qualcosa che andasse contro le regole, prima.
La paura le attanagliava lo stomaco, formandole un nodo in gola, eppure
era tutto così stranamente… eccitante. Nel
momento in cui
non fece caso a quella spina che le si era infilata nel polpastrello,
si sentì in grado di fare qualunque cosa. Per la prima volta
in
vita sua, si sentiva invincibile.
Tra l’altro, era anche il fatto di portare avanti questa sua
piccola avventura completamente da sola ad entusiasmarla tanto. A
decidere era lei e solo lei, non avrebbe dovuto obbedire a nessuno,
né tanto meno ascoltare beffe o prese in giro in caso di
fallimento.
Perché, anche se lui se ne fosse accorto, non sarebbe andato
a
dirlo a nessuno, ne era sicura. Offrendosi di andare a fare qualche
commissione al posto della donna di servizio, aveva potuto ascoltare
parecchie chiacchiere, e si era convinta che il misterioso Inuzuka
rilasciato dalla prigione e messo agli arresti domiciliari fosse
proprio il giovane che aveva incontrato qualche giorno prima.
Al supermercato aveva udito che non parlava con nessuno, se non al
telefono per ordinare la spesa, la quale gli veniva portata a casa dal
ragazzo delle consegne e abbandonata nel giardino non appena superato
l’alto cancello in ferro battuto. La donna del negozio
asseriva
che era un vero cafone, e che gli faceva solo un favore a
“sfamarlo”, come diceva lei. Il fatto che il
giovane
recluso ordinasse ogni settimana viveri per un reggimento e costituisse
praticamente un quarto del fatturato dell’intero mese,
evitava
però sempre di
riferirlo.
Hinata non aveva ancora avuto il tempo di fare ricerche più
approfondite, ma a quel punto era chiaro che l’Inuzuka- il
nome
non era ancora riuscita a scoprirlo- non aveva contatti con alcun
essere umano, quindi non avrebbe potuto raccontare ad anima viva
l’eventuale “cacciata” di una mocciosa
invadente. In
qualche modo, questo pensiero la confortava. Qualunque cosa fosse
successa, sarebbe rimasta un segreto fra loro due.
Malgrado tutti questi pensieri, era rimasta concentrata sul proprio
intento, e alla fine era riuscita ad arrivare in cima al muro. Cercando
di non smuovere nemmeno una foglia, raggiunse il ramo
dell’altra
volta e ci si appollaiò sopra, attenta a non far penzolare
le
gambe pallide.
Una volta che ebbe terminato con tutti questi accorgimenti, si permise
di dare un’occhiata tra le fronde, spaventata ma curiosa,
trattenendo a stento un sospiro di meraviglia.
In molti se ne sarebbero chiesti il motivo, dato che quel grande
appezzamento di terra aveva tutta l’aria di venire trascurato
da
anni, con lampanti conseguenze. Parecchie piante sembravano morte-
l’albero su cui stava Hinata doveva essere una felice
eccezione-
e chiazze intere di giallo macchiavano l’erba, assetata
d’acqua nella calura estiva. Tuttavia la presenza di un
giardiniere in quel posto era impensabile, praticamente impossibile.
Forse tanto tempo prima c’era stato, e quel giardino doveva
aver
raggiunto una bellezza inimmaginabile, ma era fuori discussione che
l’attuale, unico abitante della casa se ne sarebbe
preoccupato.
“È un vero peccato” pensò
Hinata, osservando
attentamente le varie piante lasciate a se stesse “Sono
sicura
che dove ci sono tutti quei cespugli rinsecchiti un tempo crescessero
miriadi di splendidi fiori. In primavera doveva essere
stupendo”.
Sentendosi quasi una novella Mary Lennox nel proprio privato giardino
segreto, Hinata aveva iniziato a fare congetture su quali tipi di fiori
sarebbe stato meglio piantare in quella zona d’ombra vicino
al
pino, o a come potare il glicine sfiorito all’angolo del
portico,
che doveva aver visto tempi migliori… quando ad un tratto la
sua
attenzione fu attratta da un particolare a cui non aveva fatto caso
prima- e dire che era lei quella che doveva mimetizzarsi e non farsi
notare.
Più o meno nello stesso punto di qualche giorno prima era
sistemato uno sgabello, e di fronte una tela riempita da colori tenui e
al tempo stesso decisi. Dettagli forse insignificanti, se non fosse
che, seduto sullo sgabello, c’era qualcuno intento a
dipingere.
Proprio lui, a dire il vero.
Hinata si irrigidì un attimo, dimenticandosi per un momento
di
respirare, sicura che entro un istante si sarebbe alzato e sarebbe
venuto a cacciarla urlando, prendendo magari a calci l’albero
per
farla cadere e darle una bella lezione (cosa che, in tutto il suo
candore, Hinata sentiva di meritare pienamente).
Tuttavia non avvenne nulla di tutto ciò. Il giovane
continuava a
dipingere senza dar segno di essersi accorto della sua presenza,
attento e meticoloso.
Dalla posizione in cui si trovava, Hinata non riusciva a vedere molto
della tela, il cui disegno principale era nascosto dalla testa
arruffata di lui, ma poteva di tanto in tanto intravedere il viso del
ragazzo. Infatti nei momenti in cui si chinava ad intingere il pennello
nell’acqua per pulirlo, lo posava sulla tavolozza per
cambiare
colore, o indietreggiava un po’ anche solo per osservare con
aria
critica il risultato dei propri sforzi, se ne poteva scorgere
l’espressione concentrata e rilassata. Decisamente
diversa
da quella che a Hinata aveva fatto tanta paura da cacciarla in men che
non si dica dalla proprietà.
D’un tratto il giovane si pulì le mani sullo
straccio che aveva lì vicino, e si alzò.
Stavolta Hinata si immobilizzò del tutto, sicura che da un
momento all’altro se lo sarebbe ritrovato sotto
l’albero,
invece il ragazzo si diresse tranquillamente verso la casa, le mani in
tasca.
Quando fu scomparso dietro l’angolo, la ragazzina si permise
di
respirare di nuovo e si accorse che adesso riusciva ad avere una
panoramica decente della tela. Aguzzò la vista,
perché
non si sarebbe mai azzardata a scendere dal proprio nascondiglio per
andare a vedere meglio. Fortuna che tutti, nella sua famiglia, avevano
una vista d’aquila, così non dovette fare molti
sforzi per
focalizzare l’immagine dipinta.
Fece tanto d’occhi quando si accorse che il soggetto del
quadro
altro non era che… la casa. Quella casa scura, incombente,
secolare, quasi minacciosa a causa di quelle torrette fatte costruire
da chissà chi. Tuttavia nel dipinto i colori scuri
dell’edificio contrastavano notevolmente con il cielo chiaro
di
quella mattina estiva e con il verde degli alberi più
vecchi,
che avevano saputo resistere bene nonostante gli anni di incuria.
Anche da lontano, era sicura che in quei tratti sicuri ci fosse del
notevole talento, e soprattutto una certa passione. Chi
l’avrebbe
mai detto che un tipo così potesse dipingere?
Ora che la sua curiosità era stata soddisfatta, Hinata
decise
che avrebbe anche potuto mettere fine a quella sua intrusione
così sfacciata. Prima che il giovane tornasse e rischiasse
di
vederla, si alzò dal ramo e saltò sul muro, per
poi
scendere con attenzione ed infilarsi i sandali.
Quello che Hinata non sapeva, perché non se ne era nemmeno
accorta, era che il giovane pittore aveva visto, girando
l’angolo
per tornare alla tela con un pennello più fine in mano,
l’ombra di qualcuno che era un po’ troppo cresciuto
per
sembrare uno scoiattolo.
Si era informata, aveva letto i giornali. E aveva scoperto ogni
particolare della sua storia: a quanto sembrava mancava dalla sua
cittadina natale da circa nove anni, ma a quel tempo sua sorella se
n’era già andata da un pezzo. La madre, invece,
era morta
durante la sua assenza.
I giornali dicevano che nel corso di quegli anni si era messo nei guai
in vari modi: furti, rapine varie, vandalismo… ma la cosa
più grossa fu quando arrivò allo spaccio di
droga, che
ebbe conseguenze irreversibili.
Ci fu un morto, un ragazzo di appena sedici anni. In realtà
l’Inuzuka lo conosceva da poco, era stato portato nel giro da
un
gruppo di compagni di scuola, era la prima volta che
“provava”. Ma gli fu fatale. Uzumaki Naruto, bianco
di
sedici anni, era morto a causa della “roba” che gli
aveva
dato lui.
Omicidio.
Il giovane era rimasto in carcere qualche anno, ma alla fine gli
avevano concesso gli arresti domiciliari per buona condotta. Ed era
arrivato lì.
Ovviamente, però, per qualunque paesino e qualsiasi piccola
cittadina una notizia simile era come il miele per le api: le voci
erano volate, aggiungendo crimini orribili alla lista di quelli
commessi dall’erede degli Inuzuka, gonfiando i dettagli
all’inverosimile. Ormai agli occhi dei più era il
peggior
criminale mai esistito, e a poco serviva che i pochi con la testa sulle
spalle cercassero di riportare tutti gli altri con i piedi per terra,
esibendo giornali e prove. Per l’intera cittadina, il
galeotto
tornato all’ovile era ormai etichettato come la
“Bestia”.
Vi era tornata una terza volta. Alla casa, al suo ramo, e a quel
giardino. Spinta da una forza misteriosa, a cui non avrebbe nemmeno
saputo dare un nome. Forse spirito d’avventura, del pericolo,
di
ciò che non
si dovrebbe fare. Sensazioni che,
mentre le
provava,
la facevano sentire quasi un’altra persona. Perché
non era
Hinata Hyuuga a fare quelle cose, non quella che tutti conoscevano.
Però questi “tutti” erano anche quelli
che davano a
lui
della
Bestia. Ma una persona che dipinge con tanta passione non
può essere definita tale. Assurdo.
Stavolta c’era tornata verso il tramonto, curiosa di vedere
se
anche in quell’ora della giornata il giovane sarebbe stato
lì, nello stesso posto delle altre volte, a dipingere lo
stesso
quadro della casa.
Non rimase delusa. Tuttavia si rese conto che i colori dominanti,
quella volta, erano l’arancione e il giallo, pigmenti decisi
che
caratterizzavano quello splendido tramonto di fine giugno. Sembrava
quasi che il ragazzo volesse dipingere la casa nei vari momenti della
giornata, di volta in volta incorniciata da un diverso tempo
atmosferico; un pensiero forse assurdo, eppure quella era la sensazione
che Hinata ne aveva.
Ma quella terza volta non si risolse in maniera molto positiva. Ad un
certo punto, infatti, il giovane si era alzato, dirigendosi con piglio
deciso verso l’albero su cui se ne stava appollaiata la
ragazzina.
Quest’ultima, sentendosi irrimediabilmente scoperta, non ci
pensò due volte: si alzò di scatto e
tornò
sulla cima del muro, saltandone praticamente giù prima che
il
ragazzo potesse dirle qualunque cosa.
Il problema era che, nell’impeto della fuga, aveva messo male
un
piede, procurandosi una storta alla caviglia. Si era così
rassegnata a tornarsene a casa in quel misero stato, zoppicante e
dolorante.
Per un paio di giorni non era riuscita nemmeno ad alzarsi, e aveva
tenuto per tutto il tempo un pacchetto di ghiaccio sulla caviglia
gonfia. Fortuna che la storta si era rivelata meno grave del previsto,
ed era guarita molto in fretta.
Tuttavia il tempo che Hinata aveva avuto a disposizione in quei momenti
di immobilità forzata l’aveva occupato con
pensieri e
ragionamenti di ogni sorta, domande e dubbi che avevano per soggetto
soltanto tre cose: dei quadri, una casa e il loro misterioso e
misantropo proprietario.
E aveva avuto un’idea.
Non riesco ancora a crederci! Prima al "Fairytale
Contest"! Ne sono davvero felice, per
svariati motivi:
1- è la mia prima kibahina
2- è la mia prima storia
sentimentale, quindi una vera storia d’amore
3- questa fic mi ha davvero preso, in un
modo che non
avrei creduto possibile. Non sono il tipo da long, perché ho
bisogno di “rimanere dentro” alla storia per
continuare a
scriverla. Ma questa… non lo so, avevo proprio bisogno di
scriverla
4- mi sono riguardata “La Bella
e la Bestia” della Disney. E dovreste farlo anche voi.
Detto questo, ringrazio moltissimo Lalani, la giudice, e faccio i
complimenti a tutte le altre partecipanti, di cui non vedo
l’ora
di leggere le storie.
Commentino (guardate che sarà ancora lunga)?
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