Io sono l'Alfa e l'Omega

di adria
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Prologo
 
 

 
14 Marzo 2010
Londra, Inghilterra
Cimitero di Highgate


Era mezzogiorno.
Cielo limpido.
Il sole brillava alto.
Non soffiava un filo di vento e nell’aria c’era odore di ghiaccio, faceva freddo.
Il cimitero era affollato quel giorno: si stavano svolgendo tre funerali in simultanea.
Tre bare color ciliegio avevano sfilato per il sentiero in selce fino al luogo del loro eterno riposo. Tre famiglie piangevano la morte prematura di quelle creature e attorno a loro si erano riuniti, parenti,  amici e conoscenti in un macabro abbraccio nero. Al centro il prete, unica presenza bianca, unica luce solitaria, unica guida.
Questo era lo spettacolo che si osservava dalla collinetta che lo sovrasta.
Questo era lo spettacolo a cui assisteva in silenzio Derek Cabrera al riparo di una splendida quercia secolare. Una delle tante che erano state piantate nei dintorni.
Di sotto nessuno si era accorto della presenza di quel ragazzo alto, dal corpo atletico fasciato in un pesante cappotto nero, dalle spalle larghe, dai corti capelli cioccolato fondente, dalla mascella scolpita e dai cupi occhi ambrati che osservava silenzioso nell’ombra come un guerriero ninja.
- La morte è la curva della strada,
morire è solo non essere visto.
Se ascolto,
sento i tuoi passi esistere come io esisto.
La terra è fatta di cielo.
Mai nessuno s’è smarrito.
Tutto è verità e passaggio. - recitò in un sussurro solenne al cielo il ragazzo rompendo il silenzio di quel luogo sacro. Il tono era piatto.
- Fernando Pessoa. – rispose una voce maschile alle spalle di Derek.
Come Derek anche l’uomo era stretto in un cappotto doppio petto nero, avevano la stessa corporatura, ma l’uomo era di qualche anno più vecchio, aveva lunghi capelli biondi stretti in un codino, occhi neri e un lieve cenno di barba sul mento spigoloso.
- Esatto Edward. – si complimentò il ragazzo voltandosi a fronteggiare il nuovo arrivato. L’ombra di un sorriso tirato gli balenò sul viso.
- È stata una morte orribile. – disse Edward guardando il cimitero alle spalle del suo interlocutore
- Già. – si voltò ancora per un’ultima occhiata.
– Mi dispiace per la loro morte. Erano così giovani, avevano ancora tutta la vita davanti. –
- Già. – e non poté impedire al senso di colpa di trafiggergli il petto come avrebbe fatto la lama sottile del trafiere, la cosiddetta misericordia, non che lui pensasse di meritarsela eppure, razionalmente, non era stata colpa sua, non del tutto per lo meno.
Il silenziò calò di nuovo mentre i due osservavano il cimitero svuotarsi lentamente. Le bare erano state inghiottite dalla terra, sparite per sempre.
- Andiamo. – disse Derek ad un tratto avviandosi svelto giù per il sentiero tra le lapidi che avevano percorso per salire.
L’altro lo seguiva in silenzio come un’ombra.
Raggiunta l’appariscente berlina rossa, parcheggiata ai piedi della collina, salirono. Edward al fianco dell’autista e Derek dietro dove aspettava composto un ragazzo che era la sua esatta copia.
- Possiamo andare? – chiese il giovane al gemello appena questi chiuse la portiera.
- Certo Alan. – rispose Derek voltandosi a guardare il gemello con gli occhiali da sole che teneva lo sguardo fisso davanti a sé come sempre.
- Non mi sono mai piaciuti i funerali. – il tono di voce neutro.
- Lo so. –
Entrambi sorrisero.
Un sorriso tirato, stanco, triste.
A vederli così, l’uno di fianco all’altro, l’unica vistosa differenza era che Alan portava i capelli abbastanza lunghi da far si che qualche ciocca ribelle ricadesse disinvolta sulla fronte e gli coprissero un po’ i lobi delle orecchie, ma se il giovane si fosse tolto gli occhiali da sole con lenti a specchio firmati Armani avrebbe rivelato l’altra grande differenza: due occhi color ghiaccio tendenti al bianco, completamente ciechi.
- Dove andiamo? – chiese dal sedile anteriore l’autista guardandoli attraverso lo specchietto retrovisore. Aveva una voce cavernosa, potente.
- A caccia. – rispose Alan non curante.
L’autista accettò passivo la risposta e mise in moto.




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