VENTO
(Una storia di
cibo cucinato
male)
Non sei stato un bambino
facile da gestire, tu.
Sempre pieno di capricci.
Ingovernabile.
Eri l’incubo delle babysitter,
il tormento delle maestre. All’espulsione dal terzo asilo nido in pochi mesi e
con poche speranze che nei rimanenti non si fosse già sparsa la voce del
terribile bambino che eri i tuoi genitori avevano deciso di comune accordo di
tenerti a casa sotto le cure di tua madre, che abbandonò definitivamente il
lavoro da modella senza neppure quelle “sporadiche apparizioni” che si era
concessa quando se n’era sentito il pressante bisogno economico. Ma non te ne ha
mai fatto una colpa, anzi pareva sollevata della cosa.
Cominciò così la vita da mamma
di Nadeshiko.
Anche se sarebbe stato molto
più preciso parlare di
guerra.
Tu non sembravi intenzionato a
sottostare neppure all’autorità materna e lei nonostante le apparenze fragili e
a tratti cagionevoli non era tipa da arrendersi ai capricci di un bambino: casa
Kinomoto era diventato un campo di battaglia in cui non lesinavi colpi bassi
come pianti immotivati in piena notte, schizzi di pipì a tradimento e sparizioni
di chiavi e portafogli con successivo ritrovamento nel water o nel tritarifiuti.
Non siete mai riusciti ad andare d’accordo, tu e lei.
*
Per il compleanno di Mae-chan,
la bambina che gli piaceva all’asilo, Touya aveva promesso a tutta la classe di
portare quei dolcetti buonissimi che sapeva fare il suo papà. Purtroppo per lui
Fujitaka in quel periodo era così assorbito dallo studio per l’esame di
accessione all’insegnamento universitario da avere a malapena il tempo di
infilarsi i pantaloni alla mattina, figurarsi mettersi ai fornelli.
Lui aveva tentato di cucinarli
da solo, ma erano un qualcosa di troppo elaborato per un bambino e dopo un
pomeriggio di lavoro tutto quello che aveva ottenuto era stato un mucchio di
pallette giallastre deformi dall’aria agonizzante. Se ne era rimasto lì, in
mezzo a un disastro di uova e lievito, tutto preso a inventarsi una scusa
plausibile per non presentarsi alla festa (malattia? pidocchi? morte di ignaro
parente? Tsunami in casa?) di Mae-chan, quando era arrivata la mamma che si era
offerta spontaneamente di aiutarlo coi suoi dolci.
Ora Nadeshiko, per quanto
fosse dotata di un sacco di qualità e nonostante avesse tutte le buone
intenzioni di questo mondo, era una delle cuoche più incapaci dell’universo,
seconda per incompetenza solo ai leoni della savana e a qualche scimpanzè
mentalmente svantaggiato. Era negata al punto che le era permesso di avvicinarsi
ai fornelli solo in caso di vera emergenza, ovvero: se fosse scoppiato un
incendio, se avesse avvertito odore di gas, se il riso avesse cominciato a
prendere vita dalla pentola, se gli alieni avessero tentato di rubare loro la
cena, e anche così soltanto in assenza di figlio e marito. Sakura veniva dopo di
lei solo perché a malapena gattonava e non le era ancora possibile arrivare alle
manopole.
Nadeshiko insomma era un
autentico pericolo pubblico. Riusciva a far esplodere le uova bollite, a
bruciare il riso con la sola imposizione della presenza in cucina, e quando
voleva trasformare una mela in un coniglietto per sua figlia del frutto non
rimaneva che un torsolo sformato che faceva scoppiare la bimba in lacrime.
Questa fu la donna che vedendo
in difficoltà il suo bambino si annodò prontamente in vita il grembiule troppo
grande del marito e legò i capelli in uno chignon posticcio per non sporcarsi di
farina: peccato per le dita già impiastricciate di preparato per dolci lasciato
a colare dal ripiano che vanificarono quell’accortezza. La donna che osservando
il ripiano con gli ingredienti e il libro di ricette si fregò le mani con
entusiasmo e rivolgendo al figlio un largo sorriso disse: «mettiamocela tutta» e
«faremo di certo dei dolci più buoni di quelli di papà», quella che alla fine si
presentò a casa di Mae-chan con una mostruosità carbonizzata seppellita di panna
spray e fragole orribilmente menomate.
Volteggiando graziosamente su un parquet scricchiolante che sembrava creato
appositamente per ricoprire di ignominia le madri ritardatarie e maldestre con
una spiccata propensione all’inciampo posò il suo vassoio in mezzo a quel
tripudio di impeccabili delizie casalinghe, totalmente incurante degli sguardi
inorriditi delle altre madri. Lo sistemò tra un vassoio di nikuman delle
dimensioni della piscina della scuola e un panino imbottito di cioccolata lungo
come la treccia di Raperonzolo: per sistemarlo era stato necessario aggiungere
accanto ai due tavoli anche la scrivania dello studio e una poltrona del
salotto. - Non si preoccupi Nadeshiko, non è colpa sua - le aveva poi detto la
signora Kojima
arricciando il naso in segno di approvazione nel vedere la piccola Sakura che
tra le braccia della mamma mordicchiava tutta contenta il biscotto al malto che
le aveva offerto poc’anzi coi suoi dentini nuovi di zecca. - In fondo lei è
giovane e inesperta. Sono certa che suo marito ha messo in conto anche questi
piccoli fallimenti quando l’ha sposata. - Il tutto sottolineato da un lieve
sospiro comprensivo.
Era un commento acido come
tanti.
Nessuno vi badò.
*
In casa si attendeva con ansia
l’arrivo del bebé.
Nadeshiko, già di salute
cagionevole e debilitata dalla gravidanza, negli ultimi mesi avrebbe avuto
bisogno di molto riposo: così tuo padre, che fino a quel momento aveva assistito
bonariamente e a debita distanza ai piccoli scontri tra te e la mamma, ti aveva
proposto un patto e ti avrebbe portato a casa un regalo per ogni giorno che ti
fossi comportato bene con lei.
Per i primi tempi aveva anche
funzionato.
Non eri mai stato così
obbediente e alla sera, fedele alla parola data, il papà ti portava sempre un
bel pacchetto infiocchettato mentre per la mamma c’era ogni volta un gran mazzo
di garofani bianchi.
Il problema si presentò quando
i regali si fecero noiosi.
Al punto che ricominciasti a
far ammattire la mamma solo per non riceverli più.
Allora i tuoi genitori avevano
deciso che sarebbe stato meglio offrirti dei soldi, di modo che poi potessi
comprarti da solo quello che volevi quando all’arrivo del bebé la mamma t’avesse
portato di nuovo con lei a fare la spesa. Ma avevano scoperto, non senza una
discreta dose di perplessità e d’inconfessato orgoglio, che al loro primogenito
l’idea di ricevere denaro senza guadagnarlo era più odiosa di quelle sorprese:
così ti permisero di fare dei lavoretti in casa, di aiutare nelle faccende e in
cucina in cambio di un corrispettivo in moneta.
La cosa ti piacque al punto
che persino il giorno del tuo compleanno ti rifiutasti di accettare il regalo
di mamma e papà se prima non avessi rifatto loro il letto e preparato la
colazione.
*
E’ strano come certe
microscopiche minuzie rimangano impresse nella memoria sulla scia di un evento
memorabile tramutandole in qualcosa di indimenticabile in maniera indissolubile.
Quel giorno Touya aprendo
l’armadietto a scuola con la solita aria svogliata trovò una busta sigillata con
un cuore. Un classico. Sulla faccia anteriore c’era il suo nome quindi nessuna
possibilità di uno scherzo, un errore o di qualcuno troppo popolare che per
smaltire le missive faceva scivolare le rimanenze negli armadietti altrui. Aprì
la busta stracciandola con noncuranza e ne estrasse il foglio di quaderno a
righe piegato in due. La calligrafia era precisa e ordinata, una ragazza. La
carta profumava di vaniglia e il mittente si firmava con una M. Dopo la scuola
però aveva una partita e non andò mai all’appuntamento. Non ha mai saputo chi
fosse quella persona ma ricorda ancora l’albero sotto cui lei avrebbe voluto
incontrarlo. Gli venne il dubbio che potesse essere Mae-chan ma non gli piaceva
più.
Senza un motivo particolare.
Succede spesso ai bambini.
Vinsero e lui dovette
vedersela con la solita fiumata di offerte da parte dei club sportivi.
Quando era un povero
insegnante alle prime armi suo padre faceva sempre in modo, a costo di arrivare
col fiatone e l’aria trasandata di un rapitore, di finire di lavorare in tempo
per venirlo a prendere a scuola e tornare a casa insieme chiacchierando e
ridendo “da uomini”. Col passare del tempo le sue presenze si erano fatte sempre
più sporadiche ma non era un problema.
Lavorava, mica poteva
fargliene una colpa.
In quel periodo suo padre
stava dietro alla tesi di uno studente non particolarmente brillante, cosa che
gli portava via un sacco di tempo. Tempo, secondo Touya, a dir poco sprecato
anche se si guardava bene dal dirlo. Aveva dato una scorsa distratta agli
appunti sulla scrivania dello studio una volta che il genitore stava prendendo
il tè in cucina con la mamma e non poteva controllare che combinasse disastri, e
al di là della tematica su cui comunque ci sarebbe stato comunque da ridire (“Glanstonbury:
ipotesi sulla leggendaria Avalon” nientemeno), c’erano più correzioni e appunti
in rosso che altro.
Le porte del treno gli si
chiusero davanti agli occhi e gli toccò aspettare il successivo. Faceva freddo.
Alla fine era tornato a casa quasi due ore più tardi rispetto al solito perché
s’era messo a guardare un nuovo modellino di robot nella vetrina del negozio di
giocattoli e aveva perso quattro treni.
A casa vide del fumo uscire da
una finestra.
Corse a perdifiato ma ebbe
comunque la presenza di togliersi le scarpe anche se non era certo quello il
momento di pensare allo sporco in casa. Sull’uscio della cucina ben illuminata
si inchiodò di colpo quando lo accolse il sorriso frivolo e dolce di sua madre.
Sakura dall’alto del suo seggiolone lo ignorò bellamente tutta presa dalla
canzoncina di un cartone animato alla televisione.
Era tutto in ordine.
Così pareva.
-
Cucciolo,
ciao! Unisciti a noi.
- Credevo che il dottore di
avesse detto di restare a riposo.
La mamma ignorò l’osservazione
e gli sorrise affabile dal tavolo, allegra e spensierata come al solito. Inutile
a dirsi, vestiva in modo assurdo e pareva pronta per uno di quei servizi
fotografici delle riviste per teenager; indossava con un abito di un bianco
panna molto leggero tutto merletti e ricami e una gonna a più strati che
frusciava come le onde dell’oceano ad ogni movimento. Tra i lunghi capelli si
era presa persino la briga di intrecciare le margherite dai petali sottili che
crescevano in giardino, senza che quel giorno dovesse mettere un piede fuori
casa.
Le piaceva essere carina.
La faceva stare
meravigliosamente bene, diceva.
E quando stava bene le pareva
di avere intorno solo gente felice.
- Sono in ritardo, scusami. –
le disse mentre si avvicinava alla sedia che lei gli aveva scostato per farlo
accomodare accanto a lei. Quando fu abbastanza vicino venne afferrato a
tradimento per un braccio e tirato con forza. Un secondo dopo annaspava in un
ammasso smisurato di cotone candido e un paio di labbra giocose e prepotenti gli
avevano lasciato sulla fronte un timbro di rossetto che non sarebbe andato via
tanto facilmente.
- Non fa niente.
- Eri preoccupata?
- Per niente. Sapevo che era
tutto a posto.
Su questo Touya non poté
replicare. Nadeshiko era una di quelle persone che sapeva d’istinto quando
preoccuparsi e quando invece poteva passare il pomeriggio a mangiare biscotti
davanti alla tv a ridere coi cartoni animati per bimbi. Intuiva quando qualcosa
stava andando storto e quando invece . Non si trattava di sesto senso né di
premonizioni. Di sicuro non si sarebbero mai attribuite le sue capacità a una
qualche straordinaria dote intellettiva.
Semplicemente lo sapeva.
Del perché non s’è mai
interessata.
Trovava più utile occuparsi
dei fiori in giardino e della sua famiglia.
Il programma trasmesso in tv
era quella che veniva comunemente definita robaccia da femmine. La storia
già vista mille altre volte di una ragazzina del tutto comune che si ritrovava
d’improvviso detentrice di magici poteri in un turbinio di rosa e glitter. Non
moriva mai nessuno e i personaggi arrossivano sempre troppo per i gusti di
Touya. Si ritrovò ben presto a trovare più avvincente lo spettacolo che gli
stava offrendo sua sorella con quegli onigiri mezzi mangiucchiati.
Sembrava che le fosse esplosa una bomba ripiena di riso in faccia; aveva chicchi
mollicci ficcati dappertutto. In quel periodo Sakura stava arrancando verso
l’ardua via dell’indipendenza e anche se il più delle volte le era concesso di
usare ancora la forchetta al posto delle tradizionali bacchette il risultato era
sempre un pasticcio tremendo.
Tra l’altro accadeva da un
po’.
Tutte le volte che vedeva sua
sorella si stava rimpinzando.
- Mamma, per caso tu e papà
state programmando di mettere Sakura all’ingrasso?
- No. – rispose mettendosi una
mano davanti alla bocca a soffocare una risatina. – Ma sarebbe divertente
vederla rotolare per casa.
Touya le ghignò di rimando.
- Senza dubbio.
Nadeshiko poteva dare l’idea
di una persona fragile e delicata, di quelle signorine di buona famiglia che
bisognava prendere con le pinze, sempre pronte a voltare sdegnosamente la testa
e a ticchettare leggiadramente via al primo segnale d’alterco, con il naso
sempre all’insù e il senso dell’umorismo dimenticato nella culla. Invece quella
donna così evanescente e a tratti persino frivola aveva un suo lato malizioso e
buffo che Touya adorava.
Facevano gli scherzi al papà.
Si arrampicavano sugli alberi
con Sakura sottobraccio.
Capitava poi a volte che se
Touya non aveva davvero voglia di andare a scuola lei lo capiva subito. Veniva a
prenderlo di nascosto all’ingresso e se ne andavano in sala giochi dove era
diventata una vera veterana dello sparatutto e una discreta conducente di moto e
automobili virtuali. Ma poi non c’erano più andati perché la scuola era sempre
più difficile e Nadeshiko era stanca. In quel periodo avevano installato nuovi
apparecchi in sala giochi e gli venne da chiedersi se sua madre si sarebbe
mostrata all’altezza della sua fama coi nuovi sistemi di controllo.
- Ovvio.
- Che sbruffona.
- Io sono un talento naturale.
- Ti vanti solo perché non
puoi dimostrarlo.
- Allora perché non chiedi a
papà di comprarti una consolle per natale? – gli aveva chiesto allora la mamma.
- Così posso stracciarti anche in salotto.
Avevano riso di nuovo e Touya
aveva preso un onigiri dal piatto di Sakura. Non era male.
*
Touya aveva sempre adorato
terrorizzare la sorellina minore, fin dal giorno in cui le avevano dato il suo
lettino (come aveva fatto notare indignato alla mamma, la quale evidentemente
non aveva colto la gravità della situazione visto che non aveva fatto niente per
ovviare al problema!).
Lo faceva sempre di nascosto.
Perché non voleva certo essere
punito.
Quando la mamma usciva dalla
stanza che al tempo dividevano, dopo bacio e favola della buonanotte, scostava
le coperte ben rimboccate e, zampettando a piedi nudi sul pavimento gelato
andava in direzione della culla. Si aggrappava alle sbarre e, ben nascosto,
cominciava a imitare il basso ululato del vento dei temporali: fischiava e
gemeva, lamentandosi cupo, finché lei non cominciava a piangere disperata.
Allora correva a letto.
Aspettava l’arrivo della
mamma.
E poi sghignazzava di nascosto
sotto le coperte.
*
- Fiori di ciliegio, fiori di
ciliegio, ricoprono il pane saggio fino all’ori ponte. E’ nebbia, o nuvole? Fra
gatti al sole del mattino, fiori di ciliegio… -
Lo accarezza, lo scrolla, lo pizzica al viso e alle braccia: alla fine, non
riuscendo a scuotere suo fratello, Sakura gli canta piano all’orecchio.
La mamma lo svegliava così a
volte.
Touya apre gli occhi e si
ritrova accanto la sorellina.
- Posso dormire con te? -
pigola intimorita. - Ci sono i fantasmi e ho paura.
- Va’ da papà - rantola
insonnolito il fratello, poi cerca di raggomitolarsi su un fianco ma le piccole
dita sulle sue spalle stringono la presa. Lui è più grande e forte, è vero, ma
lei gli si appoggia addosso con tutto il suo peso impedendogli ogni movimento.
- Ho paura. - ripete lei con
più convinzione.
Touya sbuffa e scosta le
coperte facendole cenno di avvicinarsi. Lei non se lo fa ripetere due volte e
con uno scatto da centometrista gli si accucciola al fianco, abbracciandolo
forte e strizzando gli occhi come se per scacciare i mostri bastasse eliminarli
dal campo visivo. Chi ha detto che La paura è solo una percezione della
nostra mente non ha mai visto un bambino terrorizzato. Una volta Touya,
giunto al limite della sopportazione, ha provato a banalizzare la cosa, a dirle
che non c’è nessun vecchio senza piedi su in soffitta e che quell’uomo con un
occhio solo non sbucherà dalla televisione per portarla via. Ha ottenuto solo un
grido terrorizzato dalla sorellina convinta che il fratello fosse posseduto e
che fossero i fantasmi a fargli dire quelle cose per distrarla e rapirla.
Sakura ha una vera e propria
collezione di fantasmi, li vede solo lei: c’è un bambino che le mette in
continuazione i broccoli nel piatto per non farle mai finire la verdura e
mangiare il dolce; un tizio che le fa scricchiolare le scale sotto i piedi e una
donna senza volto nello specchio della camera di papà. Per ognuno la soluzione è
sempre la stessa: correre in camera del fratello maggiore.
- Chi era stavolta?
- Qualcuno.
- Qualcuno chi? - insiste.
Sakura, abbandonata la paura,
gli lancia un’occhiata piena di nobile sopportazione nei confronti di una
persona che non capisce nemmeno le cose più semplici ma, poverino, non è colpa
sua. - Non gliel’ho mica chiesto. Non sarebbe stato educato.
- Certo che no. - Touya
annuisce con convinzione e le rimbocca le coperte fin sul naso. Lei ha già
chiuso gli occhi e il respiro le si sta acquietando. Basta poco, in fondo, per
tranquillizzare i bambini.
E’ stato lui a inculcarle
quella paura.
E’ sua la colpa della presenza
continua di quei fantasmi.
Ma è solo quando fuori soffia
il vento che asseconda i suoi capricci.
Fa ondeggiare i rami degli
alberi contro la finestra della loro stanza, con sibili acuti e taglienti come
quelli di un gatto infuriato. Sospinge la pioggia in una discesa quasi
orizzontale, pesanti goccioloni ghiacciati tamburellano un motivetto spedito
alla finestra, e picchietta i rami scheletrici del vecchio Ginko in giardino
contro il vetro. Touya resta sveglio, ascolta.
Ha sempre ascoltato il vento.
Che fosse segno che l’estate
stesse finendo e che l’indomani avrebbe fatto troppo freddo per andare in
piscina per cui sarebbe stato meglio tirare fuori dal capanno il rastrello e
girare per i giardini dei vicini a tirar via fogliame in cambio di qualche
moneta. Che trascinasse dall’orizzonte cupi nuvoloni scuri che avrebbero fatto
annullare il picnic in famiglia previsto per il giorno successivo, cosa che gli
avrebbe dato modo di avere tempo per studiare all’indomani e per quel giorno se
la sarebbe potuta prender comoda. Lo ascoltava.
E poi c’era la mamma.
La mamma che rideva felice
come una bambina.
Coi vestiti tesi come vele e i
capelli a volteggiare scuri contro il cielo pulito.
La mamma che, e se il papà
avesse saputo gli sarebbe venuto un infarto, nelle giornate di vento ciabattava
comicamente per la cucina con tutte le finestre spalancate armata di ventaglio
per sventolare fuori le prove del suo ultimo esperimento culinario. Ma questo
era un segreto soltanto loro perché Sakura era troppo piccola al tempo e non
ricorda quei piatti immangiabili, i mal di pancia e le file al bagno dopo pochi
assaggi. Non ricorda il suo impegno, la sua frustrazione, l’aria comicamente
colpevole con cui si sbracciava fuori ad allontanare il vapore come avrebbe
fatto con uno stormo di corvi.
Si era incaponita d’improvviso
senza un perché.
Touya almeno non l’ha mai
capito.
Non era come se ci fosse il
disperato bisogno di imparare a cucinare perché Fujitaka era un cuoco
eccezionale e il figlio stava seguendo le sue orme anche se di malavoglia. Se
non avesse ereditato la totale incapacità ai fornelli di sua madre anche Sakura
ben presto li avrebbe seguiti.
Davvero, non ce n’era bisogno.
- Ma non posso mica lasciar
fare tutto a voi, io sono la mamma!
Si batteva il petto col palmo
aperto, una fiera determinazione nello sguardo, poi provava e riprovava di
nascosto. A letto si faceva portare libri di cucina e li studiava con interesse
borbottando qui e là commenti a mezzabocca. Era buffa. Avrebbe rivelato tutto a
papà una volta che fosse riuscita a fare degli onigiri perfetti e lui sarebbe
stato fiero di lei, vagheggiava, ma non andò mai oltre quelle poche pallette di
riso dall’aspetto orrendo perché non ce ne fu il tempo.
Il giorno in cui morì soffiava
il vento.
Era primavera e l’aria portava
un lieve profumo.
Da qualche parte là intorno
qualcuno stava cucinando del riso.
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