1_Pensieri in solitudine
Era tornata di nuovo lì.
Il rumore dell’acqua che
cadeva, insinuandosi fra gli speroni di roccia del dirupo, la calmava
molto più di qualsiasi altra cosa al mondo.
Le piaceva starsene in solitudine a
riflettere di tanto in tanto, isolarsi volontariamente da quel mondo
dal quale già era emarginata per le sue corna, per il suo
diverso DNA.
Strinse più forte le braccia
attorno alle gambe e poggiò il viso sulle ginocchia, osservando
tristemente la cristallina superficie del laghetto nel quale terminava
la cascata.
Era sola.
Anche l’ultima Silpelit era
morta ed era rimasta solo lei, l’unica Diclonius superstite in un
mondo dominato dalla razza umana.
Le avevano uccise tutte, una dopo
l’altra, le sue adorate Silpelit, le sue compagne, le uniche
capaci di poterla realmente capire.
Ed ora che era l’unico
Diclonius rimasto, cos’avrebbe fatto? Gli umani l’avrebbero
rintracciata e, volente o nolente, l’avrebbero costretta a
seguirli o sarebbe stata soppressa.
Il suo sguardo si soffermò
sulla sua mano, che voltò in modo da poterne vedere chiaramente
il palmo: chiazze di sangue.
Il suo era un passato intriso di
sangue, di morti e massacri, per la sopravvivenza: fin dalla tenera
età era stata emarginata e disprezzata per le sue corna,
finché dentro di sé non aveva trovato il potere
necessario a far emergere i suoi vettori.
Da quel momento, aveva vissuto senza provare terrore verso niente e nessuno: erano gli umani a doverla temere, non il contrario.
Era lei ad avere il potere, ad
essere superiore a tutti gli altri umani, non viceversa. Finalmente
aveva avuto la sua vendetta per tutto il male subito da piccola, per
tutto il disprezzo nutrito dai suoi compagni dell’orfanotrofio
nei suoi confronti.
Finalmente aveva avuto il controllo
della sua vita, almeno, finché non era stata rinchiusa in
quell’orribile laboratorio di ricerche sulla futura razza umana.
E lì aveva avuto la certezza
di non essere sola al mondo, perché lì c’erano
altre come lei, altre emarginate, sole e sofferenti, trattate come
pezzi di carne su cui gli scienziati umani si divertivano a
sperimentare i loro giochetti. Non le riservarono trattamenti di
favore: solo dolore.
Dolore fisico, psicologico, emotivo, ma pur sempre dolore.
Solo mesi dopo il suo internamento aveva capito che quello non era un laboratorio: era la porta per l’Inferno.
E lei l’aveva patito, l’Inferno, per anni, senza poter far altro che sperare.
Sperare e sperare.
Poi la sua fuga e di nuovo la libertà.
Una libertà che, fino a poco
tempo fa, sapeva davvero di libertà, ma che aveva assunto un
retrogusto amaro dopo l’uccisione dell’ultima Silpelit.
Ora non era più libera: era braccata.
Nonostante fosse lei la
cacciatrice, era divenuta preda, la più ambita preda degli
stupidi esseri umani che si divertivano a torturare quelli diversi da
loro.
Stupidi. Incoscienti.
Non sapevano con chi avevano a che fare: lei non si sarebbe certo fermata solo perché erano fragili esseri umani.
No, affatto: avevano sterminato le sue Silpelit, le sue fidate compagne senza farsi il minimo scrupolo.
Lei non sarebbe stata da meno: li
avrebbe massacrati tutti, dal primo all’ultimo che avesse osato
incrociare la sua strada.
Quegli stupidi, inutili umani...
Sospirò ancora, riportando tutta la sua attenzione al luogo dove era.
Percepiva qualcosa di diverso
nell’aria attorno a sé, qualcosa di diverso dal sottile
fetore ferroso del sangue rappreso sulle rocce dietro di sé.
Somigliava ad un fruscio, un impercettibile movimento d’aria alle sue spalle, qualche metro più indietro.
I suoi occhi si ridussero a due
fessure che emanavano rossastri bagliori pericolosi: chiunque fosse,
non gli avrebbe dato il tempo d’avvertire i compagni.
L’avrebbe ucciso subito.
Si volse a fissare il punto della
boscaglia dal quale sapeva sarebbe presto uscito il suo nuovo nemico.
Non aveva affatto fretta: se ne stava lì, in piedi,
completamente immobile a fissare le piante con disprezzo e
superiorità. Nei suoi occhi c’era solo rabbia.
Una rabbia che a stento riusciva ancora a trattenere.
Una rabbia distruttrice che avrebbe vendicato tutte le sue compagne uccise.
Avvertì il consueto
formicolio dei vettori che, impazienti, aspettavano di poter uscire e
colpire, distruggere, squartare.
Quello era il suo potere.
Quella era la sua rabbia... la rabbia dei Diclonius.
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