Ai miei Goldies
Grazie <3
Orgè
Ci sono modi di
vedere il mondo, di viverlo e di giudicarlo, che sono diversi come la luna dal
sole, e si scontrano, si insultano, si mordono l’un l’altro perché le loro
tonalità non si confondano, anzi rimangano separate dalla linea netta di un
orizzonte sempre un po’ nero. Non riescono a convivere fra loro, se non sul
filo di spada, nonostante il tempo che passa ed i tentativi di mediare, che
somigliano man mano sempre di più ad una redenzione mai voluta. Esistono persone
che sono morte per un ideale, ed altre che per un ideale hanno ucciso.
E poi, c’è chi
riesce ad essere sia luna che sole. Chi riesce ad uccidere e a morire come se
in fondo fosse la stessa cosa. Chi si ammala di libertà al punto di spaccare i
limiti dell’unità e della coerenza. Fino a trascendere.
E ciò è male.
Saga non pensava a
sé stesso come ad un’eclissi. Questo genere di metafore da pochi spiccioli non
lo interessavano. Non gli interessavano le metafore in genere, lui che era già
abbastanza lontano da sé stesso da non aver bisogno di ulteriori, pericolose
sublimazioni.
Quando il mondo lo
aveva chiamato a farsi concreto, aveva risposto sfoderando una maschera
illegittima. Di questo era ben consapevole, per quanto la sua situazione
grottesca gli permettesse di esserlo. Le macchie oscure sulla sua veste avevano
sempre un colore, ma mai un’origine.
Il perché, quella
notte, si sentisse così solo, non lo conosceva, ma gli era bastato avvertire il
soffio tenue della coscienza spirare fra i lunghi capelli, ed aver riaperto gli
occhi limpidi sul mondo, dopo tanto dormire, che i suoi piedi si erano mossi da
soli, leggeri e veloci, sicuri della via.
I
gradini da percorrere erano innumerevoli
Subito fuori, lo
accolse un profumo infido, di cielo e di fiori mediterranei. Privo di quella
maschera abbagliante, lo sentiva con forza, come una conseguenza inevitabile
del respirare. La maschera, per ironia, irretiva anche la sensibilità della
pelle del suo volto, la capacità di percepire il calore di un fiotto di sole, o
il tocco pungente del vento. Era come essere vittima dell’angosciosa privazione
dei sensi, fobia di ogni Cavaliere d’Athena, ma avendolo richiesto.
Eppure non era una
prigione, oh no, e perché mai: era il simbolo del suo potere. Un talismano minato
dalle premesse e dalle conseguenze, che si offriva esso stesso a contrappasso
per la sua condotta.
E
giunse alla Dodicesima Casa
L’odore leggiadro
delle rose si era fatto fastidioso. Non se ne stupì per niente, era come se
riuscisse a penetrare attraverso la pelle, a propagarsi sul palato diffondendo
per tutta la bocca un sapore amaro.
L’aria era
diventata umida, Saga fu tentato di spogliarsi della sua tunica, prima di
proseguire la sua corsa. Era notte fonda, e nessuno lo avrebbe sorpreso nella
sua nudità. Ed anche fosse stato…
Saga amava dormire
nudo, perché il suo corpo era dolce alla vista, e piacevole al tatto. E non
mutava colore, no. Per questo lo amava, come fosse stato cosa sua ed altrui
allo stesso tempo, come se fosse stato promesso, consacrato. Ne aveva cura,
affinché custodisse il suo spirito per molto altro tempo ancora; e poiché gli
spiriti erano due, ne aveva cura doppia, secondo una proporzione che, era sua
idea, potesse essere proficua.
Così bello, Saga di
Grecia, oh. Così tanto bello.
E
giunse all’Undicesima Casa
La luna, a fargli
compagnia, la luna ed il freddo. Che non fluttuava nell’atmosfera, ma si
sprigionava con forza dalla sua stessa pelle, che solo fino ad un attimo prima
aveva voluto liberarsi dall’ingombro della stoffa leggera, e adesso
rabbrividiva. La luce sarebbe gradualmente venuta a mancare, scendendo. Niente
di più ragionevole, pensò. Niente di più appropriato.
E mentre correva
senza troppa fretta all’ombra di quelle colonne, ebbe la sensazione che la sua
usurpazione avesse un significato ancora più profondo del potere e dei suoi
ingranaggi più oscuri, come se tutto improvvisamente avesse guadagnato una
terza, sconosciuta dimensione. Ebbe la sensazione di aver stracciato e
calpestato qualcosa di molto prezioso e legittimo. Ne rimase spiazzato, tanto
che quasi si fermò. Ma appena fece per rallentare, le sue braccia scoperte
rabbrividirono di nuovo, con forza ancora maggiore. Evidentemente, dunque, non
era il momento.
E
giunse alla Decima Casa
Serrò i pugni,
costringendosi ad ascoltare il suo respiro profondo e regolare.
Nessun altro suono
animava quella notte troppo silenziosa, nemmeno un fiato di vento che facesse
da contrattema al suo. Non un verso di nottola, o di qualche bestia notturna
che si aggirasse per fame o per noia nella notte. Magari predando. Era un
silenzio attonito e concentrato, come quello di chi tenta di darsi una
spiegazione, di sciogliere un enigma con le proprie sole forze.
E c’era qualcosa di
mistico, in tutto ciò. Poteva ingannarsi, ma addirittura di fanatico.
Dopotutto, era
strano, per lui che era abituato al frastuono di voci che si alternavano,
quando non si sovrapponevano, incessantemente, rumoreggiando nella sua testa
esausta. È la norma, per chi convive con sé stesso sul filo di spada.
E
giunse alla Nona Casa
Stava per metter
piede nell’antro sacro, quando un cappio invisibile gli si strinse attorno alla
gola fino a farlo boccheggiare. Saga formò un sorrisetto amaro, tastando
quell’inesistente strumento di tortura: l’aveva previsto. Superò mura e colonne
rese polverose dall’incuria e da ordini tassativi di cui non aveva ricordi, ma
solo sentori.
Il silenzio divenne
un mare furibondo, tramortito dai venti di burrasca, che si abbatte sempre sul
medesimo scoglio, spossandolo.
Saga sapeva molto
bene di essere una stessa cosa che, semplicemente, si era spaccata a metà. Era
preparato, non a gestirla, ma a sopportarne la vergogna. E tutte le
ripercussioni.
Aveva ucciso ed era
morto, una seconda volta.
Era stata una danza
del sangue e della vittoria, non sul cadavere del tuo nemico, ma della persona
che più era cara al tuo cuore. Ad uno dei due cuori.
Lì, tutto era
tranquillo e malinconico.
E se solo, se solo
lui fosse riuscito a smettere di tremare.
E giunse
all’Ottava Casa
La luna tornò prepotente
a risplendere nel suo campo visivo, abbagliandolo con la sua luce sfuggente,
come se per un attimo avesse scordato il suo ruolo e si fosse creduta un sole.
Rovesciando intendimenti, accordi, consapevolezze. Si era sopravvalutata,
forse.
Saga ne ebbe un po’
pietà, perché la vide, ora, vergognosa, rifugiarsi dietro i frontoni dello
Scorpione. Pentita e frustrata.
L’atmosfera, per il
resto, era fresca e ridente, molto meno pesante di come la ricordava pochi
gradini più su. Si disse che commettere errori nel valutare le correnti
ventose, o la direzione delle nuvole, è quanto di più facile possa accadere.
Sono elementi poco inclini alla regolarità.
La stessa cosa si
può dire per una persona, soprattutto quando si tratta di sé stessi. Che sia il
semplice sopravvalutare la propria potenza rispetto a quella dell’avversario,
oppure peccare di eccessiva fiducia, Saga conosceva bene questo genere di
sbagli, perché ne portava vivo il ricordo in sé. Laggiù, nell’angolo remoto del
mostro.
E giunse alla
Settima Casa
Si levò un’aria
umida e vagamente stagnante, nonostante la brezza tirasse vivace e portasse i
vapori della notte qua e là, senza lasciarli sostare.
Era aria di
abbandono, di un luogo che scontava una sorta di vedovanza troppo benevola per
intaccare la serenità di chi vi passava attraverso. Come se si limitasse a
dichiarare, con sobrio distacco, il proprio penoso stato, senza pretendere
aiuto, ma esigendo il più profondo rispetto. Saga, nonostante la tenuità di
quelle impressioni, ne fu toccato. La sua intelligenza finissima ed un po’
autocompiaciuta lo avvertì di una qualche sensazione strana, che minacciava di
divenire pesante persino per spalle come le sue.
Ricordò.
Di quando aveva
ucciso ed era morto, una prima volta.
Ed era stato come
fuggire.
Via, sulle ali di
un demone del sonno.
E giunse alla
Sesta Casa
La fiducia, sì.
Ci stava
riflettendo su fino a poco prima, ed ora che quell’aura lattiginosa che lo
aveva stordito se n’era rimasta ad aleggiare un po’ più indietro, recuperò la
lucidità.
Amica di una vita
felice, per quanto ne sapeva. Quel che onestamente ignorava, era se fosse il
culmine della saggezza, o l’abisso della stupidità. Perché lui aveva goduto
della fiducia di stupidi e di saggi, pressoché senza differenze. Dei più
stupidi e dei più saggi, a ben vedere.
Era stata questa
fiducia, prima di ogni altra sua azione, ad elevarlo lì dove ora si trovava,
sull’orlo della vertigine. Una fiducia mesta, che raccontava di quanto impegno,
e quanta dedizione, avesse infuso lui ai suoi giorni di sole, per conquistarla;
per poi doverla donare in sacrificio, stracciarla e ridurla all’agonia con dita
non più sue.
E giunse alla
Quinta Casa
Cominciava ad avere
il fiato corto. Ma non poteva fermarsi, non all’antivigilia della sua meta.
Giunti a quel punto, sarebbe stata mancanza di coraggio, perciò no, non sarebbe
bastato un miracolo a farlo tornare indietro. Oltrepassò con una risolutezza
che forse un po’ ostentava quelle colonne che parevano guardarlo.
Non fu difficile,
Saga era avvezzo ad essere guardato. Con ammirazione, solitamente; con timore e
sospetto da parte di pochissimi, sconsiderati occhi; con deferenza e
sottomissione, per la maggior parte del tempo, ma quello non contava, ché in
quelle ore, lui, dormiva. Che le colonne del Leone lo guardassero, dunque, se
lo desideravano: non sarebbe stato così vigliacco da sottrarsi. Il coraggio,
quello, non gli era mai mancato.
E giunse alla
Quarta Casa
Vi giunse pensando
a cose terribili. Gli capitava, talvolta, di pensare cose inenarrabili di sé
stesso. Che era un debole, un maledetto, uno spudorato. Se ne dispiaceva, poi,
perché non ne aveva colpa. Si infiammava di sdegno per il destino che lo aveva
avvinto in una tela di dolore e nebbie, ma poi passava anche questo.
Saga era fatto di
tante scintille.
Giungeva un momento
di desolazione profonda, e poi arrivava la speranza, flebile come una fragranza
dolcissima, che risvegliava i suoi sensi e li sollevava dalla pressione
dell’inerzia.
Saga si era
abituato a vivere il più velocemente possibile.
E
giunse alla Terza Casa. E lì si fermò.
Toccò
distrattamente la prima colonna del pronao della sua antica dimora, mentre vi
entrava, come fosse stata una carezza dovuta ad un buon animale domestico che,
durante la sua assenza, era caparbiamente stato a guardia di quelle mura.
Non era vero,
naturalmente: la Casa di Gemini doveva provare un disgusto più che legittimo
verso il suo inquilino.
Era affaticato e
preda dell’emozione, Saga. Evidentemente, non era più nemmeno capace di gestire
il suo corpo affinché assecondasse la sua non certo ferrea volontà. I muscoli
si tendevano anche senza che ce ne fosse necessità, riottosi.
Sollevò gli occhi
al cielo, frugando fra le masse di stelle per trovare la sua.
Ma i Dioscuri suoi
alleati ricambiarono con bagliori malevoli dei loro occhi astrali. Mortificato,
comprese le loro motivazioni. Loro, loro in vita si erano amati molto. Il più
forte fra loro aveva a cuore la sorte del più fragile, ne condivideva le
vittorie e si angustiava per i suoi dolori, senza ambiguità alcuna. Le grotte
nascoste e preda dei flutti di marea erano lontane dalle loro menti.
Saga, invece, era
per sé stesso un conflitto: era vivo, ma da tutti creduto morto, tanto per
cominciare.
Ma era venuto fin
lì anche per questo, per scusarsi con le stelle gemelle, e provare a vedere se
gli riuscisse ancora di parlare con loro, di accettare i loro preziosi consigli
e di farsi guidare dalla loro luce, che era anche la loro voce.
Incrociò le braccia
al petto, solennemente. Dal cielo, un barlume lo avvertì che, forse, sarebbe
stato ascoltato.
Ed allora lui
pregò.
Supplicò ad occhi
chiusi che nulla di tutto ciò fosse vero. Anche a costo di rinunciare alla
carica di Cavaliere d’Oro, e diventare l’ultimo dei mozzi al servizio di
Athena.
Anche se, con ogni
probabilità, non ci sarebbe comunque stato più un posto per lui.
Traditore, Saga,
traditore dei Gemelli. Traditore della Dea.
Oh, quanta
nostalgia. Gli parve per la prima volta in vita sua di poterne morire. Quanta
triste, disperata volontà di tornare ai suoi giorni di sole, a quei giorni di
sole, dove un solo sorriso valeva le ore passate a tirar pugni alle colonne di
marmo, nel rigore dell’inverno.
Chiuse gli occhi,
provato dalle preghiere e vinto dal sonno. La mattina dopo, per certo, si
sarebbe destato con ancora addosso le sensazioni elettriche di un cerchio alla
testa per il troppo vino, con i muscoli pesanti e gli occhi un po’ segnati.
Ma non era il
momento di pensarci, quello; ché la mattina dopo, chissà quando sarebbe giunta.
NOTA:
Orgè significa rabbia, ira. L’ira è il sentimento portante di
questa in questa lenta discesa. C’è l’ira di Saga verso sé stesso e verso le
circostanze, l’ira di Gemini che ripudia sdegnosamente il suo Custode, l’ira di
quanti hanno subìto e sono rimasti schiacciati da Saga stesso. Mi piacerebbe
che si avvertisse, infatti, anche l’ira di Taurus, e di Aries, le due Case che
non vengono toccate qui per evidenti motivi, ma che ospitano l’uno un fuggiasco
orfano del suo maestro, e l’altro un animo sensibile e vittima della sua
bonaria fiducia.
Sono felicissima che questa fic si sia aggiudicata il
concorso di Writer’s Dream, soprattutto perché mi rendo conto che non è un
testo facilissimo, che presuppone una conoscenza davvero approfondita del
fandom, ed una discreta predisposizione spirituale alle fisime mentali di chi
scrive.
Vi linko la pagina di annuncio, da cui potrete anche
accedere alle altre preziose sezioni del forum. Dateci un’occhiata!
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Farai felice
milioni di scrittori.