Piccola
precisazione: avevo
già scritto e
pubblicato questa storia con il nome di "Sbagliata". Successivamente
l’avevo rimossa per ragioni mie, ma ora ho deciso di
ripubblicarla con il nome
"Wrong", perché penso che suoni meglio, più
qualche piccola modifica
qua e la. Nulla di troppo drastico, giusto qualche piccolo ritocchino.
Spiegazioni più dettagliate a fondo capitolo.
Nel caso
siate alla vostra prima visione di questa storia, vi dico solamente che
è uno
spin-off di Infamous The Darkness’ Daughter (in cui la
protagonista non sarà
Rachel) e che pertanto sarebbe meglio leggere la storia completa per
poter
capire qualcosa di questa (potete tranquillamente trovarla nella
omonima serie
da me creata o sulla mia pagina autore).
Non voglio
rubarvi altro tempo, buona lettura!
InFAMOUS:
Wrong
I
SBAGLIATA
Era stanca. Stanca di tutto quanto.
Stanca fisicamente,
stanca mentalmente, stanca di tutti quei ricordi che continuavano a
vorticare
nella sua mente senza darle nemmeno un dannato attimo di tregua.
Come faceva a continuare ancora? Come
poteva, una come lei,
riuscire ancora a camminare in quel luogo dimenticato da Iddio, senza
fermarsi
e cominciare a gridare come una pazza, piangere, oppure fare entrambe
le cose
in contemporanea?
Ne aveva quasi bisogno. Il suo corpo,
la sua mente ormai
dilaniata, la imploravano di lasciar perdere tutto quanto e accasciarsi
per
terra, per poi non fare più niente se non lasciarsi
sopraffare da quei
sentimenti che per troppo tempo aveva cercato di tenere rinchiusi
dentro di lei.
Rachel aveva sempre creduto di essere
una specie di mostro
incontrollabile, l’unica che dentro di sé
nascondeva chissà quale essere
indomabile. Beh, non era così; non lo era mai stato. Anche
lei aveva qualcosa
di molto oscuro racchiuso dentro il proprio corpo.
Più il tempo passava,
più sentiva la propria mente pulsare.
Aveva sonno, aveva sete, aveva fame. E, soprattutto, aveva bisogno del
suo
lettore mp3 e della sua compilation degli Slipknot. Necessitava di
ascoltare
quelle canzoni che parlavano di pazzi psicopatici con
personalità multiple.
Anche perché lei si rispecchiava parecchio in quei testi.
Si appoggiò ad un muro,
sfinita. Si massaggiò le tempie,
mugugnando per il dolore e per la fatica. Si guardò alle
spalle. La strada era
deserta, come da quando aveva cominciato a percorrerla. Quel posto, la
zona
industriale di Sub City, le faceva schifo a dire poco. Era un tugurio
pieno di
ruggine, mostri di cemento abbandonati e di... beh,
nient’altro.
Un quartiere gigantesco pieno zeppo
di nulla. Ecco cos’era
quel posto. E in un certo senso... era proprio come lei. Un guscio
vuoto un
tempo pieno zeppo di emozioni contrastanti, e che ora, dominato solo da
rabbia,
rancore e sensi di colpa, cadeva a pezzi.
I suoi pensieri non le davano pace. I
ricordi, nemmeno.
Ormai immobile, vinta dalla stanchezza, ed impossibilitata a combattere
in
tutti i sensi, si lasciò scappare un profondo sospiro e
chiuse gli occhi. Era
inutile resistere. Permise a tutte quelle immagini di apparire nitide
di fronte
a lei. Ognuna di esse fu un tormento insostenibile.
Rivide i suoi fratelli, sconvolti,
che le dicevano che i
loro genitori erano morti. Rivide suo zio nel letto malato. Rivide il
cratere
gigante nel Centro Storico. E, infine, rivide il suo fratellino. Tutto
ciò che
aveva avuto, perso, la sua vita caduta in frantumi e lei era sempre
stata lì,
in prima fila, a godersi la scena senza poter fare nulla per impedire
che le
cose cambiassero.
E sopra tutte queste immagini,
spiccava una figura: una
ragazza, con i capelli rossi come il fuoco e gli occhi verdi come
smeraldi.
Quella stessa persona che le aveva sconvolto la vita da cima a fondo,
che le
aveva sempre impedito di potersi comportare come
un’adolescente qualsiasi. Con
il suo sorriso, la sua presenza, il suo profumo, la sua gentilezza...
Strinse i pugni con forza, un
grugnito infastidito uscì
dalle sue labbra, insieme ad una lacrima che invece scese dai suoi
occhi.
Sbagliata. Ecco com’era
lei. La sua vita, il suo
comportamento, la sua mente. Tutto era sbagliato, in lei. Era una cosa
che si
ripeteva in continuazione e che, ovviamente, non poteva affatto portare
a nulla
di concreto. Aveva perso il conto di tutti gli specchi che aveva rotto,
pur di
non vedere nel riflesso quel volto emaciato che aveva imparato ad
odiare con
ogni fibra del suo essere: perché se doveva assegnare la
colpa a qualcuno per
tutte le sue sventure, quel qualcuno era proprio sé stessa.
E mentre continuava a riempirsi di
critiche, uno dei suoi
tanti ricordi si fece largo tra le immagini, apparendole più
nitido rispetto
agli altri. E ormai era troppo tardi per cacciarlo via.
***
Le
sue mani scivolavano avide sul suo corpo, palpando quasi
con forza tutto ciò che incontravano. La sua lingua le
imitava, assaporando
ogni lembo di carne possibile, pur di saziare la sua fame.
Non
riusciva più a fermarsi, ormai. Più ne aveva,
più ne
voleva. Era consumata del desiderio.
E
anche la sua compagna se ne accorse. «C-Cavolo, v-vacci
piano!» sussurrò, a fatica, mentre lei le
carezzava l’interno coscia con voga.
«Scusa.»
Non era sincera. Non lo era affatto. A lei non le
importava nulla di cosa l’altra avesse pensato. Doveva
placare la sua fame, in
qualche modo, e non sarebbe stata la paura di fare del male a quella
gallina
senza cervello ad impedirle di avere ciò di cui aveva
bisogno.
E
senza dire altro, tornò a cercare con fervore le sue
labbra.
Era
stata un’altra notte di fuoco, quella. Aveva posseduto
quella ragazza fino a quando, ormai sazia, non l’aveva
lasciata addormentare
sul suo letto. Dopodiché l’aveva guardata mentre
era imprigionata tra le
braccia di Morfeo, sfinita da quel lungo amplesso.
Ma
mentre osservava la sua pelle liscia e pallida, i suoi seni floridi,
i suoi capelli castani e lunghi e il suo viso bello e accattivante, non
vedeva altro che il corpo di un’altra ragazza. E non appena
rese conto
di ciò, distolse lo sguardo con un grugnito frustrato,
premendosi le mani sulle
tempie.
E
la sua compagna d’avventura, di cui nemmeno ricordava il
nome, la sentì. Si svegliò, strofinandosi le
palpebre, esausta, per poi
mugugnare: «Che stai facendo? Non... non dormi un
po’?»
«No»
rispose lei, secca, per poi voltarsi e guardarla con
aria glaciale. «Devi andartene da qui.»
E
senza permetterle di dire altro, la fece rivestire e
uscire quasi di peso, cercando di fare il minimo rumore per non farsi
beccare.
Nessuno in casa sapeva che a lei piaceva il genere sbagliato, ed era
intenzionata a mantenere quel segreto a costo di sacrificare anima e
corpo, o
comunque ciò che di essi rimaneva.
Poco
prima di cacciarla sul vialetto, la ragazza castana si voltò
verso di lei, guardandola quasi implorante. «Ma... credevo tu
volessi...»
Non
le permise nemmeno di parlare. Si congedò con
bruschezza, si voltò e se ne ritornò in casa,
abbandonandola la fuori
con la sua frase a metà.
Risalì le
scale. Probabilmente avrebbe dovuto
sentirsi in colpa per averla trattata così, ma la
realtà era ben diversa.
Mentre
puntava verso la sua camera, una porta del corridoio
si aprì all’improvviso, facendola trasalire. Sua
sorella apparve
sull’uscio, con indosso il suo ridicolo pigiama rosa. Che
però riusciva
comunque a starle bene.
La
ragazza arrossì stupidamente quando ebbe quel pensiero,
ringraziando il cielo per la penombra che inondava il corridoio.
Tuttavia,
questa non era stata sufficiente per nasconderla agli occhi della
minore. Se
non altro, si era messa qualche straccio addosso, prima di uscire da
camera
sua, e non era completamente impresentabile.
«Komi,
che... che stai facendo? È tardissimo!» le disse
la
rossa, prima con voce impastata, e poi con più decisione,
quasi con
preoccupazione. Come per dirle, "se mamma e papà ti beccano,
si arrabbieranno!".
Era riuscita a preoccuparsi per lei anche in un momento così
banale.
Lei
la guardò senza sapere cosa rispondere. Aprì e
chiuse le
labbra come un baccalà per diversi istanti, prima di
riuscire a riscuotersi.
Nel modo sbagliato, ovviamente.
«Levati
dai piedi» rispose, scorbutica, passandole accanto e
spingendola verso la porta di camera sua, strappandole un verso
sorpreso. Non si voltò
più. Subito dopo era di nuovo nella sua stanza, appoggiata
contro la porta,
intenta a sospirare rumorosamente, una cosa che faceva da fin troppo
tempo
ormai.
Ma
tanto sapeva benissimo che nessun muro o porta sarebbe
riuscito ad impedirle di vedere l’espressione demoralizzata
che sua sorella
doveva aver assunto dopo la sua sgarbata reazione.
***
Amalia sospirò, riaprendo
gli occhi e guardandosi le
ginocchia. Aveva perso il conto di tutte le sere trascorse in quel
modo,
passate a cercare di dimenticare un desiderio irrealizzabile, facendolo
tuttavia nel peggior modo possibile.
La sua sessualità non era
mai stata un problema troppo grave
per lei. Era una cosa con cui aveva imparato a crescere,
all’inizio con un po’
di stupore e perplessità, in particolar modo quando, mentre
tutte le altre
ragazze sbavavano dietro a chissà quale fotomodello, lei si
ritrovava a fare lo
stesso ma osservando giornaletti dal dubbio gusto raffiguranti
tutt’altra roba,
ma poi con il tempo le cose si erano appianate. Ricordava ancora con una sorta di amaro divertimento i giorni in cui, da bambine, lei e sua sorella guardavano i classici film di principesse alla televisione e Stella, rannicchiata sul divano assieme alla loro madre, raccontava di come da grande avrebbe voluto incontrare un principe azzurro proprio come quello dei cartoni, mentre Amalia, sdraiata a pancia in giù sul tappeto, pensava solamente a quanto bella la principessa fosse.
Non le era mai stato troppo difficile
riuscire a trovare
compagnia per la notte, anche perché per le ragazze era
quasi diventata una
moda essere bisessuali, o quantomeno fingere di esserlo. Sì,
perché nemmeno un
quarto delle ragazze con cui era stata erano davvero convinte di
ciò che
stavano facendo, ma a lei non era mai importato un accidente.
Se quelle erano pronte a fingersi una
persona che non erano
per poter attirare più attenzioni, allora era peggio per
loro. Lei non era così.
Da un lato non aveva mai avuto paura
di ammetterlo, lei era
lesbica. E preferiva che le cose andassero in quel modo, piuttosto che
cambiare
orientamento sessuale in base a come tirava il vento come molti suoi
coetanei
facevano, il tutto, ovviamente, sempre e solo con l’unico
fine di essere più
popolari.
Ma poi la sua sessualità
aveva voluto giocarle un brutto
scherzo. Ed era stato allora che aveva imparato ad odiarsi e a
combinare un
disastro dietro l’altro. Si era allontanata sempre di
più dalla retta via,
dalla propria famiglia, da quei pochi amici che era riuscita a farsi,
aveva
gettato tutto nel cesso. Da allora aveva capito di essere sbagliata.
E poi era successo tutto il resto. La
morte dei suoi
genitori, l’esplosione, la morte di Kori, quella di Ryan.
Tutto quanto era
caduto a pezzi, mentre lei, invece, come se si trovasse
nell’occhio di chissà
quale sadico e cinico ciclone, era rimasta illesa.
Ryan avrebbe potuto trovarsi al suo
posto, Kori avrebbe
potuto, i suoi genitori avrebbero potuto, invece era toccato a lei.
Lei, quella
che meno di tutti se lo sarebbe meritato, era ancora viva. Dopo aver
tradito la
fiducia delle persone che le volevano bene, dopo aver causato loro
sofferenza,
dispiacere, problemi su problemi, era ancora lì, a
rimpiangere tutto ciò che
aveva perso e che mai aveva imparato ad apprezzare come avrebbe davvero
dovuto.
Si sentiva sull’orlo di un
baratro, combattuta tra la paura
di saltare e il desiderio di mettere fine a tutto quanto e farlo. Era
questione
di un attimo, bastavano una pistola ed un proiettile, e lei li aveva
entrambi
proprio nella sua tasca. In questo modo avrebbe potuto finalmente
rimettere
ogni cosa al proprio posto, tutto avrebbe ritrovato il proprio
equilibrio. Ma
allo stesso tempo sapeva, in cuor suo, che quella non era davvero la
soluzione.
Kori non lo avrebbe fatto, tantomeno
Ryan. Per quanto
docili, per certi aspetti loro due erano molto più
agguerriti di lei.
Fare ciò sarebbe stato
l’ennesimo gesto che dimostrava che a
lei, della sua famiglia, non le era mai importato nulla, che preferiva
scegliere la via facile piuttosto che quella difficile. E per quanto la
via
facile la tentasse, era a conoscenza del fatto che non era arrivata
fino a lì
per nulla. Se era sopravvissuta, se era toccato a lei doversi sorbire
la
propria vita mentre veniva distrutta di fronte ai suoi occhi, era
perché c’era
ancora qualcosa ad attenderla. Positivo o negativo che fosse, toccava a
lei
scoprire cosa fosse questo qualcosa. A lei e lei soltanto. Ed era
proprio per
questo che si era staccata dal suo gruppo di compagni di viaggio.
Anche se, sotto certi aspetti, aveva
rimpianto quella
decisione.
«Ma guarda cosa abbiamo
qui!» esclamò una voce
all’improvviso, facendola trasalire.
Sollevò gli occhi di
scatto, per poi trovarsi di fronte un
pick-up fermo, con quattro ragazzi radunati attorno ad esso, ognuno di
loro con
lo sguardo incollato su di lei. Anzi, più che dei ragazzi,
sembravano dei
fenomeni da circo.
Uno di loro era un nano, nel vero
senso della parola, con i
capelli rasati. Un altro, invece, era alto almeno due metri e aveva dei
capelli
ed una barba di un colore arancione carota quasi fastidioso alla vista.
Gli
altri due, un ragazzo afroamericano e un altro pallido con un cappello
rosso,
invece sembravano quasi normali.
«Ti hanno mai detto che sei
proprio uno schianto?» disse il
nano, sorridendole, mostrandole i suoi bei denti ingialliti.
«Che ne diresti di
venire a farti un giretto insieme a noi?»
Amalia si rialzò
lentamente in piedi, digrignando i denti. Era
stata così immersa nei propri pensieri che non si era
nemmeno accorta
dell’arrivo di quei tizi. E, forse, fermarsi sul ciglio della
strada in quel
modo non era stata proprio una grande idea. «Preferirei di
no» rispose, sulla
difensiva.
«Oh, andiamo! È
perché sono basso? Credimi, posso compensare
molto bene questo mio piccolo difetto...» insistette il
piccoletto, ammiccando.
«Ok, forse non mi sono
spiegata bene...» ribatté lei, con
tono calmo, mentre si piantava le unghie nei palmi. «...
levatevi dai piedi.
Immediatamente!»
«Accidenti, sei una che si
scalda facilmente!» sghignazzò
ancora il nuovo arrivato, mentre i suoi compari sorridevano in maniera
inquietante alla mora. «Dimmi... che cosa faresti se invece
restassimo qui?»
Nello stesso momento in cui
parlò, il resto del gruppo
cominciò ad estrarre qualche arma. Komand’r li
osservò; due coltelli e un piede
di porco. Il capo, invece, era disarmato. Intuì comunque che
non l’avrebbero
lasciata andare tanto facilmente. Non che la cosa la preoccupasse,
d’altronde
aveva tappato la bocca a persone molto più minacciose di
quel manipolo di
clown.
Si sfilò il borsone, per
poi sgranchirsi il collo. «D’accordo,
ho capito. Chi vuole essere il primo? O preferite fare tutti
insieme?»
«Se facessimo tutti insieme
dopo non riusciresti più a
camminare» si intromise il colosso, incrociando le braccia.
«Credimi. Io sono una
tosta» ribatté lei, sorridendo
glaciale. «Posso tenervi a bada tutti quanti in
contemporanea.»
«Sentito gente? Questa
sì che è un’esperta!»
tornò
all’attacco il nano. Il gruppo di ragazzi cominciò
a ridacchiare, mentre tutti
loro si avvicinavano a lei. «Scommetto che ha una bocca
fantastica.»
«A tua madre è
piaciuta molto.»
Il ragazzo sgranò gli
occhi, mentre i suoi compagni cambiavano
bersaglio e si facevano beffe di lui. «Che avete da ridere,
idioti?!» protestò
quello, zittendoli, per poi indicare la ragazza. «Prendete
subito quella
putta...»
Komand’r estrasse una
pistola dal retro dei pantaloni un
attimo prima che potesse finire la frase. «Voi non fate
proprio un cazzo,
invece.»
Il ragazzo ammutolì di
colpo, per poi sollevare le mani.
Sorrise incerto. «E-Ehi, coraggio, calmati. Stavamo solo
scherzando.»
«Avete scelto un pessimo
momento per scherzare con me.»
Amalia abbassò il cane, ringhiando di rabbia. «Vi
do tre secondi per sparire.
Dopodiché, non mi assumerò la
responsabilità delle mie azioni.»
«D’accordo,
d’accordo, rilassati. Ce ne andiamo.» Il ragazzo
cominciò ad indietreggiare, imitato dai suoi compagni.
Ma non appena sembrò che
stessero davvero per andarsene,
quello sorrise meschino, dopodiché fece un cenno
all’afroamericano. Costui non
ebbe bisogno di ulteriori chiacchiere: abbassò una mano di
colpo, per poi
puntarla verso di Komand’r.
Un istante prima che lei potesse fare
qualsiasi cosa, un
raggio di luce rosso sfavillante uscì dal suo palmo,
dirigendosi verso di lei.
La ragazza urlò per la sorpresa e si gettò a
terra per schivare il colpo.
Rotolò sul suolo e si alzò in piedi serrando la
mascella, poi risollevò la
pistola. Nello stesso momento, il colosso barbuto urlò e
cominciò a correrle
incontro, mentre i suoi compagni correvano ai ripari dietro al pick-up.
Amalia fece fuoco, ma i proiettili si
conficcarono nel
torace del bestione, perforandolo solo superficialmente e senza causare
danni
ingenti. Colta di sorpresa, Komi venne raggiunta e afferrata per il
collo.
Sgranò gli occhi e la pistola le cadde di mano, mentre il
bestione la sollevava
come una bambola di pezza, per poi stringere la presa attorno alla sua
gola.
La ragazza emise un verso strozzato
per via del dolore, ma
non si sarebbe arresa così facilmente. Mentre con una mano
cercava di allentare
la presa, con l’altra si frugò in una delle tasche
del cappotto, per poi tirare
fuori il coltello a serramanico. Gridò e lo
sollevò, per poi conficcarlo più e
più volte nel polso del suo assalitore. All’inizio
le parve di conficcarlo in
un blocco di legno, ma poco per volta riuscì a scalfire la
pelle e a penetrare
più a fondo, fino ad arrivare a ferirlo.
Il rosso grugnì per il
dolore e mollò la presa, facendola
cadere, per poi afferrarsi il polso insanguinato. Amalia
tossì, rotolò di lato
e si rimise subito in piedi, per poi cominciare a correre; non poteva
affrontare quei tizi da sola. Era evidente che il colosso e
l’afroamericano
erano dei conduit, e molto probabilmente lo erano anche gli altri due.
Non
aveva speranze, non senza armi. Si maledisse per aver perso la pistola
e anche
il borsone in cui aveva nascosto il fucile.
Alle sue spalle sentì gli
schiamazzi del nano, il quale
probabilmente stava incitando la sua truppa ad inseguirla. Lei
svoltò al primo
angolo e si infilò in un vicolo tra una recinzione di ferro,
oltre la quale si
trovavano delle grosse strutture cilindriche, ed una fabbrica. In
lontananza
riuscì ancora ad udire il pick-up di quei quattro accendersi
e partire facendo
fischiare le gomme. Si voltò e vide la macchina svoltare,
per poi inseguirla.
«Cazzo»
ansimò, per poi accelerare.
Il veicolo si avvicinava sempre di
più e il colosso, in
piedi sul vano di carico, la osservava furibondo. Intuendo di essere
nei guai,
Amalia si gettò contro la recinzione e la
scavalcò, per poi saltare dall’altro
lato.
Corse a perdifiato in mezzo a quel
labirinto di cisterne,
passerelle sopraelevate e scalette, mentre, dietro di lei, la
recinzione
saltava in aria e il pick-up continuava ad inseguirla.
Lasciatemi
in pace, bastardi!
Komand’r zigzagò
tra le grosse cisterne, e poco per volta
udì il rumore del motore della macchina dei suoi inseguitori
affievolirsi.
Infine, si fermò per riprendere fiato. Si
appoggiò contro la superficie
metallica di uno di quei cilindri ed inspirò ed
espirò profondamente.
«Ma tu guarda se dovevano
proprio capitarmi dei conduit...»
mugugnò, per poi lasciarsi cadere seduta a terra.
«E oltretutto sono
disarmat...»
Il rumore di quel maledetto pick-up
tornò a farsi sentire
all’improvviso. La ragazza si irrigidì come un
palo, mentre dall’altro lato
della cisterna poteva perfettamente udire la macchina di quei conduit
passare,
per poi fermarsi di colpo.
Amalia trattenne il fiato. Dubitava
che l’avessero trovata, pertanto
non doveva assolutamente farsi notare.
Udì il motore spegnersi e
le portiere aprirsi, per poi
richiudersi con forza. Erano scesi.
«Non può essere
lontana.» Questo era il nano che parlava. «Da
qui andiamo a piedi, così saremo più silenziosi.
Setacciate questo posto e
trovatela. Billy, tu resta qui a fare la guardia. Non sia mai che
quella
puttana ci rubi la macchina.»
«Sì
capo.»
Rumore di passi. Amalia si
appiattì più che poté contro la
cisterna, perle di sudore freddo le scivolavano lungo la fronte. Vide
un’ombra
apparire alla sua destra e si spostò di lato, sempre
strisciando contro la
superficie ferrosa, in modo da fare meno rumore possibile. Il conduit
afroamericano apparve all’improvviso nel suo campo visivo,
facendola irrigidire
ulteriormente. Quello camminò per un breve tratto, mentre
lei continuava a
spostarsi silenziosamente, aggirando la struttura cilindrica,
dopodiché lui si
guardò attorno di scatto, facendo un verso diffidente.
Amalia si morse la lingua e si
fermò di botto. Il ragazzo puntò
gli occhi verso la sua direzione. Nonostante si fosse nascosta in
tempo, la
ragazza pensò di essere ugualmente fottuta. Così
non fu. Dopo qualche altro
istante, l’afroamericano scosse la testa e
continuò a camminare. Komi attese
almeno sessanta secondi prima di respirare di nuovo. Quel tizio non
l’aveva
notata, per fortuna non sembrava molto scaltro. Beh, nessuno di loro
doveva
essere molto scaltro, per lasciarsi comandare da un nanetto con manie
di
protagonismo.
Non notando altre presenze, con il
cuore che pompava nel
petto all’impazzata, decise di uscire lentamente dal suo
nascondiglio. Arrivò
al bordo della cisterna, poi si sporse. Di fronte a lei vide il pick-up
di quei
quattro parcheggiato in mezzo ad altre cisterne, più il
ragazzo con il berretto
a fare il palo.
Komand’r strinse con forza
la presa attorno al coltello.
Poteva scappare, tuttavia... quella macchina la tentava e non poco. E
quel
tizio, Billy, sembrava essere l’unico nei paraggi. E tra
tutti e quattro, forse
era quello da temere di meno. La ragazza annuì a
sé stessa, mentre un
sorrisetto si dipingeva sul suo volto. Quei tizi avrebbero presto
capito con
chi avevano a che fare.
Si mosse di soppiatto, passando da
cisterna a cisterna ogni
volta che Billy non guardava verso la sua direzione. Lentamente, molto
lentamente, si avvicinò al pick-up, fino a quando non si
trovò esattamente
dall’altro lato della cisterna di fronte alla quale esso di
trovava. Strisciò
contro la superficie, accovacciata. Uscì dal nascondiglio ed
andò a
posizionarsi dietro il vano di carico della macchina. Billy, appoggiato
contro
la portiera, sbadigliò.
Era il momento giusto.
Komand’r si frugò tra le tasche e
trovò un caricatore della sua pistola. Lo aprì ed
estrasse un proiettile,
dopodiché se lo rinfilò in tasca. Strinse tra le
mani la cartuccia color
bronzo, poi la gettò contro la cisterna accanto a Billy,
producendo un rumore
metallico. Quello trasalì e si guardò attorno,
sorpreso. Si avvicinò al luogo
di origine del tintinnio per controllarne la provenienza, e le diede le
spalle.
Sei
mio!
Amalia girò attorno al
pick-up e si avvicinò a lui,
dopodiché si alzò in piedi e lo
assalì, afferrandolo da dietro. Billy si
accorse di lei e cercò di gridare, ma lei fu più
rapida e gli tappò la bocca
con una mano. E senza dargli ulteriore tempo, sollevò il
coltello e glielo
piantò nel collo, facendogli emettere un altro
gridò, questa volta di dolore.
«Pessima idea fare il
palo!» sussurrò lei, rigirando il
coltello nella sua carne, facendogli emettere urla sempre
più forti, tuttavia
offuscate dal palmo della mano della ragazza.
Billy cercò di dimenarsi e
di liberarsi, ma nel giro di poco
tempo cessò di lottare e chinò il capo in avanti.
«Sogni d’oro, bastardo.»
Amalia lo lasciò cadere pesantemente a terra, poi si
avvicinò alla macchina per
esaminarla meglio. Dentro il vano di carico, non poté non
notare proprio il suo
borsone. Si illuminò non appena lo vide. C’era
praticamente un pezzo di lei
stessa, lì dentro... beh, non proprio, ma c’era il
suo fucile, ed era quello
l’importante.
Si avvicinò al retro della
macchina per prendere ciò che era
suo, ma un sibilo la costrinse a voltarsi di scatto. Vide una luce
rossa
accecante, e subito dopo si ritrovò a terra a gridare di
dolore a causa di un
terribile bruciore al fianco. Sentì perfino odore di vestiti
e carne bruciata.
«Porca troia,
Billy!» Il conduit afroamericano arrivò di
corsa, per poi chinarsi sul socio, il quale giaceva immobile in una
pozza di
sangue. Lo osservò per un breve momento, poi
drizzò gli occhi su di lei. «L’hai
ucciso! Cazzo, lo hai ucciso, psicopatica che non sei altro!»
Komand’r grugnì
di dolore e cercò di strisciare verso il suo
coltello, che le era caduto quando era ruzzolata a terra, ma un calcio
sul
fianco ferito la fece desistere all’istante.
«E sta ferma, pazza
schizzata!»
Amalia gemette, portandosi una mano
sul fianco ferito. Lo
sentiva andare a fuoco, letteralmente. Era come se l’avessero
ustionata con la
fiamma ossidrica. Ancora una volta si vide costretta a riempirsi di
maledizioni: si era fatta beccare come una stupida.
«Che sta succedendo
qui?!» Un’altra voce, questa volta del
nano. Sia il capo della banda che il gigante erano tornati,
probabilmente
attirati dalle esclamazioni dell’afroamericano.
«Questa stronza ha ucciso
Billy! Gli ha tagliato la gola,
cazzo!»
I due nuovi arrivati osservarono
basiti il loro collega
immobile al suolo, dopodiché il colosso ringhiò
di rabbia e si avvicinò a lei. «Adesso
me la paghi!» La afferrò per i capelli e
cominciò a tirare con forza, facendola
gridare e costringendola a mettersi in ginocchio.
«Volevamo solo divertirci
un po’ con te, ma adesso la
faccenda è personale!» Il rosso la tirò
in piedi, continuando a farla urlare
per il dolore alla testa. Ma non appena fu completamente eretta,
serrò la
mascella e sferrò un poderoso calcio al suo interno coscia.
Quello urlò in
maniera disumana, con voce più alta di un’ottava,
e si portò entrambe le mani
sul luogo martoriato. Amalia cadde di nuovo a terra, poi
afferrò il coltello.
«Mammoth!»
gridò l’afroamericano, mentre il colosso cadeva a
terra, per poi digrignare i denti. «Ora basta, mi
hai...»
Amalia non gli concesse il lusso di
terminare la frase.
Raccolto il coltello, glielo lanciò con tutta la forza che
ancora aveva,
colpendolo ad una spalla. Il ragazzo gridò di dolore e cadde
a sua volta in
ginocchio. Komi boccheggiò, poi si rimise di nuovo in piedi.
Di fronte a lei,
solamente il nanetto. Digrignò i denti non appena lo
notò. Quello intuì il
pericolo, perché prima osservò i suoi amici,
probabilmente in cerca di aiuto, e
poi, realizzando che loro non l’avrebbero salvato,
indietreggiò. «As-Aspetta!»
Lei lo ignorò.
Urlò a perdifiato, poi gli corse incontro. Il
piccoletto sbraitò a sua volta, ma per lui ormai era tardi;
la ragazza gli fece
assaggiare la suola del proprio stivale dalla punta rinforzata,
scaraventandolo
a terra e calpestandogli, letteralmente, il volto, lasciandolo a terra
tramortito. Dopodiché corse. Non si voltò, non
fece nient’altro, non pensò a
nient’altro. Doveva scappare, e al più presto.
Mandò al diavolo la macchina, la
borsa, il coltello; l’unica cosa che contava era fuggire.
Il dolore al fianco non le dava
tregua. Teneva una mano
premuta su di esso per cercare di alleviarlo, ma tra il cappotto e la
canottiera
strappati non sentiva altro che bruciore e sangue.
Questa volta si assicurò
di allontanarsi a dovere da quel
luogo. Le gambe le imploravano pietà, lo stesso valeva per
il fianco, ma lei
non aveva intenzione di fermarsi. Se si fosse fermata e quelli
l’avrebbero
trovata, l’avrebbe pagata molto cara. Non aveva fatto
semplicemente un casino,
poco prima. No, assolutamente no. Quello che aveva fatto rientrava a
pieni voti
nella categoria delle puttanate. E solamente poche volte aveva compiuto
gesta
degne di quel nome.
Le cisterne si trovarono ad un
quartiere di distanza da lei.
Poi a due, poi a tre, quattro, cinque.
Andò avanti fino a quando le gambe non
cedettero, letteralmente. Ruzzolò
a terra, graffiandosi i palmi delle mani sull’asfalto,
gemendo di dolore.
Rimase immobile, sdraiata sulla strada per qualche istante, a cercare
di
riprendere fiato e a lasciare che il cuore smettesse di battere
all’impazzata,
prima di farselo esplodere nel petto.
Continuò a boccheggiare
per quelle che le parvero eternità,
fino a quando un rumore che ormai conosceva troppo bene le fece
sgranare gli
occhi. Sollevò il capo e si voltò, per poi
scorgere in lontananza una macchina
avvicinarsi. Non le fu intuire di quale macchina si trattasse.
Merda!
Si rimise in ginocchio di scatto, ma
quel movimento così
repentino le causo una lancinante fitta di dolore al fianco, che la
costrinse a
cadere di nuovo a terra. «No... devo... farcela...»
Cominciò a strisciare,
letteralmente. Ogni millimetro mosso era un’atroce
sofferenza, ma non poteva
fermarsi. Se quelli l’avrebbero trovata lì,
ridotta in quello stato, sarebbe
stata spacciata.
Puntò ad un vicolo proprio
accanto a lei, che si affacciava
sulla strada. Tuttavia, più si avvicinava ad esso,
più le pareva lontano, più
le pareva difficile continuare muoversi. Perfino respirare
cominciò a causarle
dolore al fianco. Si sentiva come se ce lo avesse arpionato al terreno,
e ad
ogni suo movimento il gancio che la teneva immobilizzata le azzannava
la pelle,
costringendola a fermarsi.
La macchina era sempre più
vicina. Ormai incapace di
muoversi ulteriormente, tese una mano verso il vicolo, poi si
accasciò a terra.
Il dolore continuava a divorarla, non sentiva più le gambe e
anche la testa le
faceva un male cane. Le palpebre si appesantivano sempre di
più al passare dei
secondi. Infine, il veicolo si fermò accanto a lei, e
qualcuno scese. Amalia
gemette e si voltò verso di esso, ma a causa della vista
affaticata non riuscì
a distinguere nulla di nitido. Riuscì a malapena a scorgere
una figura che si
avvicinava a lei, per poi inginocchiarsi.
Qualche strano rumore giunse alle sue
orecchie,
probabilmente erano delle parole, ma non riuscì a
disgiungere nessuna di esse.
L’ultima cosa che
ricordò, prima di arrendersi al suo
destino, fu quell’individuo oscuro accovacciato su di lei.
Sì,
l’ho ripubblicata. Sì, ho
cambiato il titolo. Sì, sono un cretino. Sì, la
finirò questa volta. No, non mi
aspetto che accettiate le mie scuse, perché sono un cretino.
Ma, ehi, la storia
è di nuovo qui quindi urrà! È il
pensiero che conta, giusto? Giusto. Ci sarà qualche
piccola modifica qua e là ma probabilmente nemmeno ve ne
accorgerete, visto
che, comunque, la trama è la stessa della scorsa volta e i
fatti che accadono
sono i medesimi.
Bene,
per chi stia leggendo
questa storia per la prima volta, invece, sì, la
protagonista non è più Rachel,
bensì Amalia, in quanto anche lei è stata un
personaggio molto particolare e
che mi è piaciuto, moltissimo, realizzare, quindi ho colto
l’occasione della
sua fuga come palla al balzo per dedicarle una storiellina tutta sua,
in cui la
sua, molto difficile, personalità possa risaltare al meglio.
Come avrete già
potuto notare, il suo punto di vista è leggermente diverso
da quello di Rachel.
Spero che vi piaccia, dai, io l’ho trovata un’idea
carina la prima volta che la
scrissi... poi l’ho cancellata, ma questo è un
altro discorso. Come ho già
detto, adesso è di nuovo qui, quindi urrà!
Giusto? Giusto.
Bye bye! |