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IL NOME DI UN SEGRETO
【BAD OVERWATCH FANFICTION SAGA】
Genji Shimada / Angela "Mercy" Ziegler
➤ Soundtrack
C’era questo ragazzo nella
classe accanto alla sua.
Aveva il fascino dello
studente straniero e non si faceva problemi a sfruttarlo. Dietro di lui
correvano anche troppe ragazze a cui riservava sorrisi di miele… ma non restava
con nessuna per più di quattro giorni.
Tutte le amiche di Angela
parlavano di lui, la maggior parte ci era uscita insieme.
Fareeha lo descriveva come un
galantuomo romantico e intrigante, un vero James Bond se si ignoravano i
brufoli da diciassettenne. Raccontava di essere stata portata in giro per la
città su una limousine bianca e di aver mangiato in uno dei ristoranti più
costosi della zona. Hana giurava ch’era come il miglior personaggio di quei
giochi di dating, quelli dove linee di dialogo troppo sdolcinate appaiono sul
fondo dello schermo e ragazzi dalla bellezza impossibile si contendono l’amore
della giocatrice. Perfino Satya si era fatta conquistare da lui, nonostante
fosse completamente al di fuori dei suoi standard. Ogni appuntamento raccontato
aveva il suo twist accattivante… ma ad Angela qualcosa non quadrava.
Il ragazzo della classe
accanto si chiamava Genji Shimada e si tingeva i capelli di verde elettrico.
Il suo vero colore era il
nero; a volte ricompariva come un fantasma tracciando una linea scura alla
radice del suo scalpo. Tuttavia spariva in fretta, annegando di nuovo nella
tintura fittizia. Lo tradivano le sopracciglia, per il resto si vantava del
falso colore come se fosse una delle nuove meraviglie del mondo. Quando
qualcuno lo paragonava all’eroe d’un anime sorrideva ed esclamava sempre la
stessa frase: “Ah! Ci puoi giurare!”
Suo fratello, Hanzo, portava i
capelli neri sciolti sulle spalle. Era più grande, non frequentava la scuola e
Genji non ne parlava mai. Tutti avevano scoperto della sua esistenza solo
quando Hanzo era venuto a prenderlo nel bel mezzo di una lezione, scusandosi
con la professoressa per l’interruzione ed esibendosi in un inchino formale.
Era vestito di tutto punto con giacca, cravatta e tutto il resto… ma nonostante
la gentilezza il suo tono rimaneva tagliente come una lastra di ghiaccio.
Angela aveva scorto i due
fratelli dalla finestra della propria aula mentre salivano su una limousine
scura, diversa da quella di cui le aveva parlato Fareeha. Si era resa conto
solo in quel momento di non aver mai visto la famiglia di Genji all’uscita.
Non una madre o un padre ad accoglierlo a braccia aperte… in compenso c’era
sempre la stessa guardia del corpo con smoking e occhiali scuri ad aprirgli lo
sportello della limousine.
La famiglia di Genji era più
che benestante, ma lui non lo faceva mai notare. Condivideva la merenda delle
undici con tutti e si lamentava del prezzo degli snack nella macchinetta in
corridoio. Indossava abiti di marca ma cercava sempre i più anonimi, sceglieva
quelli dove il marchio era riportato solo nell’etichetta all’interno.
Le loro classi condividevano le ore di palestra e all’inizio dell’anno Genji si
era messo in testa di voler far capoeira con Lúcio.
Per i primi mesi era andato tutto bene, Genji imparava in fretta e non sembrava
soffrire il caldo o la fatica. Anche in estate indossava sempre maglietta e
pantaloncini, perfino quando anche il professore di ginnastica rischiava di
mettersi a petto nudo per la calura. Poi però, un giorno, Genji aveva fatto una
mossa sbagliata. Era scivolato durante un allenamento ed era finito addosso a
Lúcio, rompendogli il cellulare. Tra mille scuse se l’era fatto consegnare con
la promessa di riportarlo riparato… ma il cellulare che gli aveva restituito
non era affatto quello di Lúcio. Stesso modello, stessa memoria espandibile per
contenere le sue mille canzoni… ma no, non era il suo. Gliene aveva comprato
uno nuovo di pacco nonostante fosse l’ultimo, costoso, modello.
Era impossibile che fosse
riuscito anche a cancellare i graffi sullo schermo e la presa per l’auricolare
ormai fin troppo consumata. Ovviamente che ne aveva comprato uno nuovo
d’identico modello, limitandosi a trasferirvi dentro tutti i dati di Lúcio… ma
non gli aveva detto niente.
Avrebbe potuto vantarsi, visto
che parlava del proprio bell’aspetto in continuazione per far colpo sulle
ragazze… invece il denaro era un argomento che evitava. Quando doveva pagare
qualcosa lo faceva con timida discrezione e mai aveva usato l’argomento a
proprio favore.
Ad Angela mancavano ancora dei
pezzi per poter capire la complessità di quel ragazzo all’apparenza così
semplice. Piccoli dubbi le esplodevano nella mente come crepitanti fuochi
d’artificio, ma duravano solo un attimo prima di spegnersi. Qualcosa non
tornava e la verità le sfuggiva, sentiva
che c’era un segreto nascosto da qualche parte, qualcosa di omesso, di non
detto, qualcosa che veniva evitato. Tuttavia aveva i punti ma non riusciva a
tendere i fili da uno all’altro abbastanza per poterli collegare, perciò ogni
sua incertezza crepitava e si spegneva, crepitava e si spegneva ancora e
ancora… lasciava perdere, Angela, perché non era buon educazione immischiarsi
negli affari degli altri.
Poi c’era stata quella volta
in cui erano andati in gita a Praga, le loro due classi insieme per risparmiare
sui costi di viaggio.
Un uomo su una moto aveva
strappato la borsa di Satya e l’aveva fatta cadere a terra sgommando via. Tra
gli alunni si era scatenato il panico, la professoressa era corsa in aiuto di
Satya e mentre tutti additavano la moto sempre più lontana Genji era schizzato
fuori dal gruppo con la velocità d’un proiettile. Era balzato su un cassonetto
della spazzatura come un grillo e l’aveva usato per darsi lo slancio ed
aggrapparsi all’insegna della panetteria. La classe aveva emesso un verso di
sorpreso giubilo che aveva attirato l’attenzione della professoressa, ma prima
ancora che potesse voltarsi a veder cosa stesse accadendo Genji aveva fatto una
mezza capriola attorno all’insegna ed era sparito sul tetto della casa,
aggrappandosi con mani e piedi al muro all’apparenza privo di appigli.
Il suo profilo era riapparso
un attimo dopo sul tetto di un'altra casa, le scarpe da ginnastica con la suola
luminosa brillante contro le tegole e la sciarpa arancione sferzata dal vento.
Sembrava il protagonista d’uno dei cartoni delle due e mezza.
Era saltato giù dal tetto
senza esitazione, allargando le braccia in aria, piegando le ginocchia e
riunendo i piedi assieme, come un ninja.
La moto era sfrecciata sotto
di lui due secondi dopo, comparendo quasi come per magia da dietro un edificio.
Genji era atterrato con entrambi i piedi sul retro del sellino e la classe si
era levata in un grido d’esaltazione.
Le sue mosse furono troppo
veloci: Strinse entrambe le mani sul sellino della moto e colpì il guidatore
con un calcio sul fianco. Il corpo dell’uomo si piegò e Genji scivolò nella
fessura creata, gli afferrò un braccio e glielo serrò dietro la schiena. La
moto ondeggiò paurosamente quando Genji si sporse ad afferrare la borsa
attaccata al volante e prima ancora che l’uomo potesse colpirlo con un pugno si
ritirò all’indietro, rapido come il vento. Era saltato giù dalla moto in una
mezza piroetta, atterrando sul marciapiede, cadendo come un supereroe.
A quel punto la classe lo
stava acclamando come un eroe e la professoressa era svenuta.
Quando Genji restituì la borsa
a Satya non fece alcuna battuta galante. Gliela porse e basta, sommerso dalle
domande dei compagni, ridendo imbarazzato e continuando a ripetere la stessa
frase:
“Ah, non l’avevo mai fatto
prima! Non so davvero come ci sono riuscito…!”
Genji era uno che sorrideva
sempre, anche se prendeva quattro alle interrogazioni. La tristezza sembrava
un’emozione che non riusciva a trovar spazio sul suo viso, per questo attirava
così tante persone attorno a sé.
Era come un piccolo sole che
brilla e scalda tutto quello che ha intorno, senza mai potersi concedere un
giorno di buio.
Ma nessuno di questi era il
vero Genji Shimada.
Angela conobbe davvero il
ragazzo della classe accanto il giorno in cui il professore di ginnastica la
mandò a prendere il registro dimenticato nello spogliatoio dei maschi.
La palestra vuota sembrava
ancora più immensa ed era strano vederla così, visto che di solito le ore
trascorse tra quelle mura le passavano tutti ammassati a spintonarsi per
prendere il possesso della palla, o correre più in fretta durante la staffetta.
Lena gridava come una matta
ogni volta che arrivava prima… ora che non c’erano strilli di incoraggiamento o
le risate dei compagni il silenzio di quell’immenso edificio vuoto faceva quasi
paura.
Fu in quel momento, scostando
la porta dello spogliatoio, che Angela vide per la prima volta il vero Genji
Shimada…
Curvo sul lungo bancone di
legno dello spogliatoio… i suoi occhi nocciola erano incollati sul proprio
riflesso nello specchio a parete. Il suo petto era scosso da singhiozzi rochi e
rabbiosi che gli facevano rimbalzare i capelli sulla fronte e rotolare le
lacrime lungo le guance.
Stava piangendo… e non
sembrava possibile. Perché Genji sorrideva e basta, non era mai triste.
La schiena che nascondeva
sempre sotto alle magliette attillate era coperta di cicatrici pallide e le sue
dita grattavano, scavavano a sangue nella propria spalla, lasciando lunghi
segni rossi sull’inchiostro d’un tatuaggio realizzato da poco. I bordi intorno
all’inchiostro nero erano ancora tutti rossi, terribilmente irritati, ed Angela
capì che stava cercando di strappare via
il muso del dragone dalla sua pelle.
Poteva sentire il rumore
raschiante delle sue unghie nel silenzio della palestra vuota, surclassato solo
dal suo pianto. Screak, screak, non
sembrava volersi fermare.
Era un gesto nauseante, faceva
male solo a vederlo, eppure nei singulti di Genji non c’era spazio per il
dolore. Era collera quella che gli ribolliva nelle vene, una rabbia cieca e
terrificante che gli faceva dilatare le narici come un toro pronto alla carica.
Il suo sguardo era concentrato nel proprio riflesso e c’era odio, così tanto odio, in ogni suo respiro, nei denti
digrignati dove solitamente vi era il suo sorriso…
“Hey!” Angela lo richiamò
all’ordine con tono autoritario, entrando nello spogliatoio senza esitazione.
Genji sobbalzò e subito staccò la mano dalla spalla. Si voltò cercando di
pulirsi via dal viso tutte le lacrime ed i suoi occhi persero subito la
concentrazione rabbiosa di un attimo prima, dilatandosi nel panico.
“Heey!” esclamò in risposta,
alzando la mano in segno di saluto ed esibendo un sorriso tirato “Credevo di
non piacerti, Ziegler! Come mai ti sei intrufolata qui nello spogliatoio dei
maschi? Non sarà mica che hai una cotta per-”
Lo schiaffo lo colpì sulla
guancia con metodica precisione, strappandogli le parole dai denti. Genji
spalancò gli occhi portandosi una mano alla mascella, decisamente sorpreso, e
si zittì di colpo.
“Ma che stai facendo?” lo
minacciò Angela alzando un indice verso il suo viso “Guarda come ti sei
ridotto, per amor del cielo…”
Senza chiedere alcun permesso
posò una mano sul petto di Genji e l’altra gliela strinse attorno al braccio,
spingendolo appena un poco più indietro per vedere quanto gravi fossero le
ferite che si era inferto da solo.
L’inchiostro sotto la pelle
era sfuocato in più punti, il disegno si stava rovinando. Dove le unghie erano
riuscite a grattare via la pelle erano rimaste lunghe righe macchiate di
sangue. La bocca del dragone pareva gocciolare dopo aver ucciso la sua preda…
Genji si sottrasse dalla presa
di Angela afferrandole entrambe i polsi senza stringere, spingendoli
delicatamente indietro. Arretrò senza perdere il sorriso… ma qualcosa era fuori
posto. Pareva una preda intrappolata sul fondo d’una gabbia.
“Non è nulla!” rise “Non mi fa
neanche male, tranquilla! Prude soltanto…”
Stava mentendo. Mentiva in
continuazione. Anche il suo sorriso era una bugia.
Il corpo di Genji era come un
burattino, una maschera che mostrava al pubblico per inscenare uno spettacolo e
prendere gli applausi. Dento di lui, da qualche parte tra tutte le menzogne e
gli scenari fittizi, vi era la piccola anima di qualcun’altro.
“Genji…” mormorò Angela.
“…è perché l’ho fatto da poco!
Cavolo, pizzica da morire!” continuò a spiegare lui “Magari sarà una reazione
allergica. Succedono queste cose, no?”
…ma Angela riusciva a vedere
oltre le sue parole, adesso. Non capiva il perché delle sue menzogne, ma le
percepiva. I pezzi del puzzle si stavano incastrando per rivelare finalmente
l’immagine a tutti sconosciuta.
“Puoi andare. Tanto… rientrerò
in classe tra poco. Giusto il tempo di sciacquare la spalla. Sto bene,
davvero.”
Sollevò una mano sul proprio
petto posandola sul tatuaggio scorticato, cercando di spazzar via dalla visuale
di Angela le righe di pelle ridotte a brandelli e gli occhi severi del dragone
d’inchiostro… ma le sue falangi tremavano, il sangue gli era seccato sotto le
unghie creando delle mezzelune rosse sulle punta delle sue dita. Gli occhi
erano ancora lucidi e gonfi per il pianto, arrossati e stanchi… ma la bocca era
contorta nel suo perfetto sorriso di scena, le labbra sottili stirate ed un
accenno di denti tra di esse.
Le sue bugie nascondevano la
sofferenza, coprivano malamente le ferite.
Era come se avesse passato
tutta la vita a forzare in sé la verità con dei cerotti troppo piccoli… ma
adesso era diventata troppa e troppo pesante per poterla tenere tutta
all’interno; stava gocciolando fuori come il sangue dalla bocca del drago
tatuato, come ogni goccia rossa che affiorava dalla sua pelle gonfiandosi,
prendendo le sembianze di una perla e poi srotolandosi sulla sua spalla come un
macabro tappeto da vip. Tuttavia non lasciava cadere la sua maschera, si stava
impegnando per esser creduto… voleva essere lasciato solo!
“Va bene…” disse Angela annuendo
piano “Ti prendo il kit medico nell’armadietto.”
Senza attendere una risposta
girò sui tacchi e si avviò nel piccolo camminamento davanti alle docce
maschili, sottraendosi alla sua vista.
“Ziegler!” Genji si attaccò
alla parete, stringendo le mani contro l’angolo. Le urlò dietro cercando di
dissuaderla ma Angela era già arrivata all’armadietto ed aprì lo sportello
metallico con uno schiocco.
“Ziegler, ti ho detto che sto
bene! Lascia perdere!”
Ancora una volta Angela lo
ignorò e tornò indietro con l’intero kit medico d’emergenza. Afferrò Genji per
un braccio e lo trascinò di nuovo davanti allo specchio, aprì il kit sul
bancone e srotolò le bende.
“Ziegler, davvero-“
“Sono la rappresentante
d’Istituto, Genji. Non ti lascio qui con una ferita aperta a rischio
d’infezione”
“Ferita aperta?” Genji rise ma
c’era dell’isteria nel suo tono “Andiamo, Ziegler! E’ solo un po’ di pelle
irritata!”
“Allora non ti creerà alcun
problema se la disinfetto e la copro.”
“Lo farò da solo, grazie. Tu puoi andare”
Le serviva un po’ d’acqua per
lavare via le tracce di sangue. Le docce erano scomode, aveva bisogno d’una
bottiglietta.
“Dov’è il tuo zaino?” chiese
di botto, interrompendo le suppliche di Genji.
La domanda per un attimo
confuse il ragazzo. Non rispose ma i suoi occhi si spostarono sull’unico zaino
rimasto appeso all’attaccapanni ed Angela subito lo afferrò e lo aprì.
“Ziegler, no!”
Genji le strappò lo zaino
dalle mani bruscamente e lo alzò, stringendoselo al petto.
Il suo sorriso era sparito,
sul viso era rimasta solo paura. Fissò
Angela con gli occhi fuori dalle orbite, respirando veloce come un coniglio
preso al laccio… sapendo che lei aveva
visto.
Lo poteva intuire dalla
sorpresa nel suo sguardo, la confusione nei suoi occhi, la piega spaventata
delle sue sopracciglia bionde.
Angela aveva visto.
Rimasero in silenzio per
troppi, lunghissimi secondi scanditi dal respiro affannoso di Genji… poi Angela
gli porse coraggiosamente una mano ed alzò il mento, sicura, rivolgendogli di
nuovo la parola.
“Potresti prestarmi la tua
bottiglia dell’acqua, per favore.”
Una frase così semplice, otto
parole in tutto. Eppure Genji sentì un nodo sciogliersi nel suo petto ed un
singhiozzo gli uscì dalle labbra. La verità strappò i cerotti sgorgandogli
fuori dagli occhi, uscendo sotto forma di singulti. Piegò la bocca verso il
basso e le sopracciglia verso l’alto; le lacrime iniziarono a scendere sul suo
viso e non fece niente per fermarle.
Infilò una mano nello zaino ed
afferrò la bottiglia dell’acqua sentendo la pistola battergli contro il dorso
della mano. La foto dell’uomo trovato morto al molo gli punzecchiò le dita.
Quella mattina al telegiornale
avevano parlato di un pareggiamento di conti tra due organizzazioni criminali
potenti, ma non erano riusciti a trovare nessuna traccia dell’assassino.
Probabilmente perché l’assassino sapeva far bene il suo lavoro,
perché era stato addestrato per questo ed aveva mille cicatrici da esibire come
prova.
Angela prese con delicatezza
la bottiglia dell’acqua dalle sue dita instabili e sporche di sangue. Tremavano
così forte che il liquido all’interno sciaguattava creando una piccola tempesta
tra le pareti di plastica.
“Andiamo…” gli sussurrò
“Lasciati medicare…”
Posò una mano sulla schiena di
Genji e lo accompagnò di nuovo verso il bancone. Sotto le dita poteva sentire
la pelle inspessita e ruvida delle cicatrici e le tornò in mente la gita a
Praga, il momento in cui Genji era saltato sulla moto del ladro come un topo
balzerebbe sulla preda.
Aveva solo diciassette anni.
…fu allora che tutti i tasselli
finirono al loro posto, il puzzle si completò.
Genji non era neanche quello,
non era quello che lo stavano forzando ad essere. Rifiutava quell’identità con
la stessa semplicità con cui aveva detto “Ah, non l’avevo mai fatto prima! Non
so davvero come ci sono riuscito…!” dopo aver recuperato la borsa di Satya…
perché cercava di soffocare la parte di sé addestrata alla guerra,
all’inseguimento, alla caccia.
Angela rovesciò l’acqua su una
pezza e gliela passò piano sulla spalla scorticata, lavando via il sangue secco
con delicatezza. Riusciva finalmente a scorgere la verità: Genji era tante
cose, per essere uno con un corpo solo. A volte la sua corazza era fatta di
bugie ben tessute, altre volte di oscuri segreti… però di una cosa era sicura.
“Tu sei buono…” gli sussurrò
“Sei buono, Genji”
“E come lo sai?” singhiozzò
Genji, rabbioso. Le sopracciglia nere si contrassero facendogli corrugare la
fronte, tirando fuori un’espressione severa che non gli aveva mai visto in
viso. Somigliava terribilmente a suo fratello…
“Questo maledetto drago è qui a ricordarmi il contrario! Me l’hanno
fatto” prese fiato, la gola piena di lacrime “per festeggiare, capisci?! Perché
sono orgogliosi di me!”
“Non staresti piangendo,
altrimenti” mormorò Angela “Non si piange per qualcosa di cui si va fieri. Tu
sei buono, Genji, con o senza tatuaggio. Lo so che sei buono.”
“Non dovresti sapere niente di
me” pianse Genji “Mi chiederanno di ucciderti se- Non avrei dovuto dirti-”
Si premette le mani sugli
occhi con forza, artigliandosi la fronte per cercare di graffiar fuori le
stupide idee che aveva avuto. “Non dirlo a nessuno” singhiozzò “Ti prego,
Ziegler. Non dirlo a nessuno.”
Angela lasciò andare la pezza
bagnata e lo strinse in un abbraccio. Sentì il corpo di Genji tendersi per un
attimo, opponendo resistenza, poi la sua fronte le si posò accanto al collo ed
Angela percepì le sue lacrime sulla pelle.
Lo strinse forte, lasciando
che piangesse fuori tutto il suo dolore.
A volte l’affetto è una medicina migliore di
garze, bende e disinfettante.
Il ragazzo della classe
accanto chiamava tutti per cognome, tranne lei.
“Angela!” la chiamava agitando
una mano in aria al mattino, quando la incrociava sulle scale.
“Hey, Angela!” esclamava
porgendole un po' della sua merenda.
C’era qualcosa di speciale in
lui, lo si capiva subito. Nascondeva una dolcezza che pochi riuscivano a vedere
davvero. Angela l’aveva scoperto pian piano, con ogni cambio di benda sulla sua
spalla, ogni cerotto sulle ferite e ogni sutura applicata alla sua anima
sanguinante.
Avevano iniziato ad
avvicinarsi tra un rammendo ed un altro e, come tutto quello che li riguardava,
in segreto.
Era stata lei a chiedergli di
uscire la prima volta. Genji era rimasto stranamente sorpreso e per un attimo
non aveva detto niente. Invece che rivolgerle uno dei suoi soliti sorrisi
grondanti di charme aveva stirato un poco l'angolo sinistro della bocca verso
l'alto ed aveva declinato nel modo più gentile possibile:
“Mi dispiace, Ziegler. Siamo
solo buoni amici.” …e lì Angela aveva capito che le stava mentendo un'altra
volta, perché aveva usato il suo cognome.
Per un attimo si era sentita
anche in dovere di smascherarlo e far crollare la sua farsa, ma Angela era una
ragazza sveglia, la curiosità aveva punzecchiato la sua giovane mente facendole
chiedere il perché.
Perché avrebbe dovuto
mentirle? Perché ora? Perché spezzarle il cuore con un rifiuto quando era
chiaro ad entrambi che lentamente stavano uscendo da una semplice amicizia? Le
dita di Angela indugiavano sempre più a lungo sul petto ferito di Genji e lui
la ringraziava ogni volta più vicino alle sue labbra…
Aveva fissato quel ragazzo
imperturbabile, caparbiamente attaccato alla sua bugia… e poi aveva notato la
guardia del corpo alle sue spalle.
Non era chiaro se li stesse
fissando o no, era difficile capirlo attraverso le lenti scure degli occhiali.
Svettava alle spalle di Genji facendolo sembrare terribilmente piccolo, un
ragazzino affogato in una sciarpa arancione…
Genji il playboy, Genji che non rimaneva con nessuna ragazza per più di
quattro giorni…
“Capisco…” aveva risposto Angela
chinando il capo con una delusione mimata, stando al gioco senza chiedere le
regole “…scusami per avertelo chiesto. Ciao.”
Non l’aveva abbracciato o
salutato. Sotto lo sguardo attento della guardia del corpo aveva fatto dietro
front e si era allontanata stringendo lo spallino dello zaino con forza. Dopo
un po’ era stata assalita da un dubbio, un minuscolo tarlo di indecisione che
le aveva iniziato a ronzare nell’orecchio… e se Genji avesse detto sul serio? E
se fosse stata troppo arrogante e pretenziosa nel poter credere di saper
leggere oltre le sue bugie con così tanta semplicità?
Ma quattro ore dopo Genji
aveva bussato alla finestra della sua stanza, che, per inciso, era al secondo
piano. Appollaiato come un passero su uno dei rami della quercia del suo
giardino aveva alzato una mano in segno di saluto. Angela gli aveva urlato di
scendere temendo che potesse cadere e rompersi l’osso del collo, dimenticandosi
per un attimo che quello era lo stesso ragazzo capace di correre sui tetti e
saltare sulle motociclette in corsa. Ma Genji l’aveva ascoltata comunque, anche
se magari non nella maniera più convenzionale. Si era alzato in piedi sul ramo
ed aveva preso la rincorsa come un equilibrista sul filo prima di spiccare un
salto ed atterrare direttamente nella camera di Angela. Pareva un leone in uno
di quei numeri da circo con i cerchi infuocati, solo che stavolta aveva
attraversato una finestra.
Le suole luminescenti
brillarono contro il parquet chiaro della camera e nell'impatto emisero un
verso stridulo, di quelli che si sentivano sempre in palestra. Genji si era
subito bloccato aprendo i palmi delle mani ed irrigidendo la schiena, come se
fosse stato colto con le mani nel sacco nel bel mezzo d’una marachella.
Non avrebbe dovuto essere lì.
Glielo aveva spiegato giorni
dopo, sussurrandoglielo senza guardarla negli occhi.
Aveva detto a suo padre di
essere andato ad allenarsi con suo fratello e ad Hanzo di aver degli affari da
sbrigare con suo padre, ma invece era scappato dalla finestra della cucina,
aveva preso un autobus ed aveva attraversato mezza città solo grazie al
navigatore sul cellulare, altrimenti chissà dove sarebbe finito!
Adesso sembrava terribilmente
in imbarazzo nella situazione in cui s’era andato a cacciare. Stonava nella
camera tutta femminile di Angela, tra la carta da parati color crema ed i
poster dei cantanti. Tutto era così ordinato e pulito! Lui invece aveva dei
capelli verdi tutti arruffati, una sciarpa arancione mezza slacciata e delle
scarpe luminose. Per la prima volta in vita sua Genji si era sentito
terribilmente diverso…
Cercava di spiccare al di
fuori di mille teste, di differenziarsi dallo stile serio ed elegante della
propria famiglia… ma era lontano anni luce dalla normalità di quella cameretta.
Non era il suo mondo.
Cosa gli era venuto in mente?
Perché non aveva semplicemente suonato alla porta? Perché non le aveva scritto
un messaggio e basta? Perché si ostinava a… a…
“Ah, Angela… io…” improvvisamente
aveva perso tutta la sicurezza ed aveva vacillato. Gli mancavano le parole, non
sapeva da dove iniziare.
Perché lei era speciale… ma lui era così fuori posto. Aveva sempre parlato alle
ragazze con una naturalezza spontanea, ma adesso aveva il terrore di sbagliare.
Voleva davvero fare le cose per bene… e allo stesso tempo non voleva affatto,
perché ciò significava che loro
avrebbero saputo.
Non poteva. Non voleva trascinarla nel fango assieme a
lui.
“Mi dispiace per- forse dovrei
andarmene”
Angela, diretta e precisa come
al solito, l’aveva bloccato sul posto con una manciata di parole.
“Sei appena saltato attraverso
la mia finestra, ovviamente hai
qualcosa da dirmi.”
“No, io-”
"Ma se ti metto così a
disagio da non voler restare…”
“Non ho detto questo!”
“Credevo che avessi detto che
avremmo continuato ad uscire come amici.”
“Si, cioè, No! Non intendevo-”
le guance gli erano diventate tutte rosse ed aveva stretto i pugni lungo i
fianchi “Vorrei davvero tanto uscire con te, Angela Ziegler! Vorresti per
favore essere la mia fidanzata?”
Ed Angela aveva riso della sua
richiesta così formale, gli aveva afferrato entrambe le mani ed aveva detto di
sì… anche se sapeva di star firmando un contratto di segretezza.
Sdraiata tra le lenzuola
bianche, Angela pareva un cherubino. I lunghi capelli biondi le coronavano la
testa come fossero un aureola splendente, le sue labbra arrossate dai baci
sembravano dipinte. Strinse le cosce contro i fianchi di Genji in un abbraccio
di gambe accompagnando i suoi movimenti del bacino.
Non lo avevano detto a
nessuno, si erano limitati ad aggiungere un altro segreto alla collezione...
tuttavia questo erano diverso, non erano doloroso come le cicatrici che Genji
nascondeva sulla propria schiena. Era un segreto che condividevano con la
tenerezza di ogni bacio, piccoli nodi che andavano a tessere la fibra della
loro dolce storia.
Se Angela fosse stata saggia
quanto i professori dicevano di lei si sarebbe dovuta tenere ben lontana da
lui, lo sapeva, perché quello di Genji era un cognome potente… però loro si chiamavano per nome.
“Oh, Angela…” ansimò Genji a
bassa voce. Riservava un respiro per ogni parola, come se quel nome fosse
ossigeno per i suoi polmoni. E lo era. Lo era davvero.
Angela era la sua unica
sicurezza in una vita passata a camminare sui cristalli. In ogni altro momento
Genji doveva far attenzione a quello che diceva, a come si comportava, era
sempre iper-conscio di tutto quello che lo circondava… ma con lei poteva essere
se stesso.
Angela passò una mano tra i
capelli di Genji, facendo scorrere le dita tra le ciocche rese solide dalla
gelatina. Il nero stava iniziando a riaffiorare sotto alla tintura verde,
l’attaccatura pareva dipinta con uno di quei grossi pennelli che Hanzo usava
per esercitarsi a scrivere gli ideogrammi.
Strinse con delicatezza le
braccia attorno al suo collo per guidarne i baci fino alle proprie labbra.
Genji curvò la schiena, obbediente. Il suo petto segnato dalle cicatrici sfiorò
i seni morbidi di Angela rubandole un gemito.
L’incontrarsi delle loro
bocche fu dolce, per niente frettoloso. La lingua di Genji premette sulle sue
labbra in una muta richiesta di permesso e venne accolta teneramente.
Da quando avevano iniziato ad
uscire insieme Genji non aveva fatto più il filo a nessuna ragazza, anche se
continuava a dispensare i suoi sorrisi a destra e manca.
Angela non ne era disturbata,
le piaceva vederlo allegro. Aveva imparato a distinguere tutte le piccole
increspature di labbra e sopracciglia per poter capir la differenza tra un
volto sincero ed uno che nascondeva una storia non raccontata.
Hanzo era l’emblema della
freddezza, Genji un piccolo sole. Scaldava l’atmosfera con gli occhi, con le
parole; i suoi sorrisi di gioia erano la nuova frontiera del fotovoltaico.
Anche il suo corpo era scottante… Angela avvertiva il calore dentro di lei ad
ogni sua docile spinta ed arcuava un poco la schiena per andargli incontro. Lo
sentiva scorrere nella propria intimità con un adorabile delicatezza e si
rendeva contro di quanto fosse attento al suo viso, di come cercava
approvazione nei suoi occhi e dalle sue labbra.
Stavano imparando insieme,
nessuno dei due era un esperto. Procedevano con calma poiché sperimentare
l’amore era già una gratificazione, non anelavano al rapido ed impersonale
piacere. Preferivano piuttosto scoprirsi pian piano, un tocco alla volta, una
spinta dopo l’altra, trovando il giusto ritmo alla loro canzone e
dimenticandosi del resto.
Angela sollevò appena la testa
dal cuscino per inseguire le labbra di Genji e lui contraccambiò lambendole con
le proprie, carezzandole, chiudendo gli occhi per sentire tutto il suo amore.
Spinse di nuovo il bacino in avanti affondando nel suo calore, sentendo il
corpo di Angela vibrare ed un gemito rimbalzargli contro il palato.
Tuttavia le loro bocche erano
così vicine che non avrebbe saputo dire da quale gola fosse uscito il rumore.
Affascinati uno dall’altra
continuarono a scoprirsi anche quando sotto le mani di Angela la pelle di Genji
si fece sudata ed i loro baci divennero più umidi, i movimenti più svelti, i
gemiti più alti e le lenzuola sempre più accartocciate.
La ragazza della classe
accanto alla sua si chiamava Angela Ziegler. Era bellissima, parlava con
l’accento tedesco e nascondeva una brillante intelligenza… e Genji era sicuro
di non esser stato vivo neanche un giorno, prima di incontrare lei.
【E così Overwatch mi ha convinto anche a tornare a scrivere le Het.
Bless Overwatch.
Genji sei un patato.
Non ho più la forza di rileggere tutto, abbiate pietà di me.
-
Marti】
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