SUICIDE SQUAD 2 - NECROPOLIS
- Prologo -
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Scortate il ragazzo nella cella con la massima cautela!
Amanda Waller procedeva impettita lungo il corridoio del terzo piano
del carcere, impartendo ordini ai due soldati intenti a trascinare per
le braccia un giovanotto dall’accento ispanico; quello
gettava occhiate incuriosite oltre le sbarre delle celle, cercando di
vedere quale mostruosità si celasse al loro
interno.
- Voglio parlare col mio avvocato! – gridava di tanto in
tanto. – Non potete chiudermi qui!
Si fermarono finalmente davanti ad un cubicolo chiuso da una pesante
grata metallica, che scattò verso l’alto non
appena Waller ne azionò il meccanismo tramite un piccolo
telecomando.
Il ragazzino si lasciò spingere all’interno del
buco a tre mura, facendo un salto indietro non appena la grata
ridiscese con fastidioso sibilo.
- Allora, come sono andato? – domandò con aria
eccitata. – Ero convincente? Volete rifare la scena?
- Io opterei per un “Buona la Prima” –
replicò la donna di colore, senza lasciar trasparire alcuna
emozione. – Ora resta qui e continua a seguire il piano. La
cella è piccola, ma contiene tutto quello che ti serve. Vedi
quello sportellino alla tua sinistra? Puoi farlo scorrere di lato per
comunicare con la tua vicina di stanza. E’ un lusso che
concediamo a pochi.
- Offerta generosa – sorrise il giovane, esibendosi in un
profondo (seppur irrisorio) inchino. – Non si preoccupi,
Grande Capo, farò del mio meglio e anche di più.
Siete tutti in buone mani ed in contemporanea in una botte di ferro con
me – aggiunse, indicando il braccio cibernetico che spuntava
dalla manica arrotolata della divisa arancione. – O, insomma,
una botte di metallo.
Waller alzò un sopracciglio con fare severo, ma si
limitò a rispondere in modo secco e conciso prima di
allontanarsi imperiosa: - Non deludermi, Bionic
Boy.
Il ragazzo, il cui vero nome era Tobias Castilla Marquez, diede
un’alzata di spalle e sospirò: era eccitato
all’idea di prendere parte ad una missione di alto livello,
ma al contempo sapeva che l’attesa in cella
l’avrebbe annoiato a morte.
Seguendo il suggerimento dell’impassibile e corpulenta donna,
salì in ginocchio sopra al letto, spostò lo
sportellino comunicante con la stanza vicina e sbirciò
attraverso di esso: una ragazza pallida e formosa con i capelli rossi
sedeva in silenzio su una brandina, fissando il vuoto.
Toby si schiarì la voce, attirando la sua attenzione: -
Ciao! Sono il tuo nuovo vicino, spero di non disturbarti.
La prigioniera alzò lo sguardo verso di lui, mostrando
un’espressione disincantata e neutrale; dimostrava poco meno
di trent’anni, aveva grandi occhi celesti e lineamenti
morbidi e graziosi.
- Non mi disturbi – rispose con un lieve accento russo.
– E anche se mi stessi disturbando, probabilmente tra qualche
ora me sarò già scordata.
- Problemi di memoria? – domandò il ventenne
con fare curioso.
La rossa si strinse nelle spalle: - E’ il prezzo dei miei
poteri, a volte ricordo, a volte no. Il più delle volte no.
- Quali poteri hai? Comunque, piacere, il mio nome è Tobias,
ma tutti mi chiamano Toby, o Bionic Boy.
- Raisa Khovansky – disse lei. – Oppure Mnemos. Il
mio potere agisce sulla mente delle persone e in particolare sui loro
ricordi. E questo mi ha incasinato parecchio la testa. Tu hai qualche
potere?
Toby picchiettò un paio di volte sulla propria fronte: - Il
mio cervello. Non per vantarmi ma possiedo uno dei quozienti
intellettivi più alti del pianeta. Vedi questo braccio
bionico? Me lo sono costruito da solo a quattordici anni, quando ho
perso il mio in un incidente. Funziona esattamente come un braccio
normale e in più contiene un sacco di chicche ed accessori
da far invidia all’Ispettore Gadget… è
il personaggio di un cartone che guardavo da piccolo… beh,
non solo da piccolo…
- So chi è l’Ispettore Gadget –
puntualizzò la ragazza, per poi assumere
un’espressione incuriosita. – Sei molto
giovane… come mai sei finito qui dentro? Devi averla
combinata davvero grossa per venire rinchiuso a Belle
Reve…
- Io… - il piccolo genio si morse la lingua. – In
realtà ho promesso al Grande Capo Waller di non parlare con
nessuno di questo argomento. Tu, invece, perché sei
qui?
Raisa strinse le ginocchia al petto generoso: - Ho fatto delle brutte
cose. Cose molto, molto brutte. Te le racconterei,
però… - abbassò lo sguardo al
pavimento – il fatto è che non le
ricordo…
- Perché hai ripreso a strisciare i piedi
nell’acqua? Faccio fatica a sentire la
televisione!
Waylon Jones, alias Killer Croc, si alzò dal divano,
raggiungendo le sbarre della propria sudicia stanza e sbirciando in
direzione della cella opposta. Non riuscì a scorgere chi vi
abitava, ma si sentì rispondere da una voce femminile e
leggermente roca: - Scusa. Tra due settimane ci sarà la luna
calante… quando ci penso divento
nervosa…
- Sarà così tutti i giorni nelle prossime due
settimane? – domandò l’uomo rettile con
aria afflitta.
La voce tacque per alcuni istanti, poi replicò in tono
piatto: - Non lo faccio apposta, quando mi innervosisco comincio a
camminare avanti e indietro. E non ho poi così tanto spazio
a disposizione…
- Perché ti sei fatta rinchiudere qui, allora? –
insistette Jones. – Ci sono alcune celle un po’
più grandi ai piani superiori.
- E’ meglio così. Se ti do fastidio mentre cammino
alza il volume, non saprei cos’altro dirti.
Killer Croc si risedette sul divano, sospirando. La sua vicina era
arrivata pochi mesi prima, ma lui già cominciava a
rimpiangere i bei momenti passati in solitudine nel sotterraneo buio e
umido…
L’ala Est del secondo piano era più silenziosa
rispetto alle altre zone di Belle Reve. Waller procedette da sola lungo
la fila di celle ben distanziate, fermandosi davanti alla terzultima:
le sbarre erano di ferro, a differenza delle altre, e cominciavano
già a presentare un aspetto arrugginito. Presto sarebbe
stato necessario cambiarle.
- Sei una gran rottura di scatole, lo sai? – disse, attirando
l’attenzione della prigioniera che in quel momento le dava le
spalle, affacciata alla piccola finestra che dava sul cortile
principale del carcere – Ti stiamo dedicando fin troppe
attenzioni.
- Solo perché di tanto di in tanto dovete cambiare le mie
sbarre? – replicò quella con un forte accento
irlandese, volgendo di nuovo lo sguardo oltre la finestrella.
– Avete ospiti molto più dispendiosi di me, con
celle a prova di tutto. Non dirmi che i tuoi soldati si sciupano le
manine facendo un lavoretto per il mio misero buco, ogni
tanto.
- Non sono le sbarre il problema, Evergreen –
ribatté Waller, calcando prepotentemente il soprannome della
carcerata. – Ci hai causato un sacco di problemi con la
burocrazia e ogni giorno qualche giornalista da quattro soldi cerca di
intrufolarsi per ottenere informazioni su di te.
- Hai delle guardie pronte a fermarli.
- E pensi che a quelli importi?
L’afroamericana incrociò le braccia al petto con
fare autoritario: - C’è gente disposta a fare
qualsiasi cosa per ottenere riconoscimenti e fama. Quella gente non
teme l’idea di venir disintegrata dai miei uomini, sapendo
quanto offrono le case editrici per ottenere qualsiasi informazione
sullo scandalo poliziesco più in voga al momento. Sono
sempre disposte a pagare oro per poter mostrare al mondo quanto in
basso può cadere una persona, Ashlynn.
Quelle parole furono sufficienti a convincere la prigioniera ad
avvicinarsi alle sbarre per fissare l’interlocutrice dritta
negli occhi: era una donna alta vicina ai quarant’anni, con i
capelli castani raccolti in una coda, le iridi di un colore misto tra
il verde e il nocciola ed i lineamenti irlandesi graziosi ma alterati
dai mesi di prigionia.
- Sei venuta ad infierire, Waller? Hai davvero tanto tempo libero a
disposizione?
La sua voce era pacata ma decisa, in qualche modo lasciava trasparire i
residui di un’autorità ormai cancellata dalla
divisa arancione.
- Il mio tempo lo gestisco come voglio, Leprecano –
replicò la donna più vecchia in tono tagliente.
– Non ho bisogno delle prediche di una
criminale.
- La criminale peggiore qui sei tu – ribatté
l’irlandese, voltandole le spalle e andando a sedersi sul
proprio letto. – E comunque il Leprecano era mia madre.
- Come ti pare – replicò Waller, allontanandosi
con un piccolo ghigno. – Ti auguro una buona giornata.
Ashlynn attese che il suono dei passi della donna scemasse, poi si
voltò, aggrottando la fronte non appena vide qualcosa di
piccolo e dorato a terra, poco oltre le sbarre della cella. Waller
doveva essersi chinata ed averlo lasciato lì nel momento in
cui le volgeva le spalle.
- Lurida bastarda… - imprecò, cercando di
afferrare l’oggetto senza farsi toccare dal ferro.
– Naturalmente doveva lasciarla fuori dalla cella.
Eh sì, lasciamola qua, chissà che Evergreen non
si becchi qualche bella bruciatura…
Non appena riuscì a serrare la mano sul dono di Waller
ritrasse rapidamente il braccio, riuscendo ad evitare il contatto con
le sbarre. Un po’ incredula, Ashlynn dischiuse le dita,
domandandosi il perché di un simile gesto: sul suo palmo
luccicava un’antica moneta d’oro. La sua
moneta.
Deadshot varcò la soglia della cella con un sospiro, attese
che la porta venisse chiusa e sedette a terra, poggiando la schiena
contro di essa. Avrebbe dovuto aspettare un paio di giorni prima di
poter rivedere Zoe e già aveva fatto partire nella propria
mente il conto alla rovescia.
Una voce femminile, bassa e un po’ nasale, vivacizzata da un
singolare accento dell’est Europa lo raggiunse. Proveniva
dalla cella di fronte.
- Com’è andata oggi, Floyd?
Il cecchino si lasciò sfuggire un piccolo sorriso: -
E’ andata bene, ma mi manca già la mia piccola.
Oggi l’ho aiutata a fare i compiti. Qualche esercizio di
Algebra e poi Geografia… anche se ormai il mio aiuto
è un po’ superfluo, se la cava alla grande.
E’ un genio, la mia bambina. Vedrai che tra qualche anno i
college migliori faranno a pugni per lei.
- Meglio i college che i ragazzi, giusto? –
puntualizzò la donna in tono scherzoso.
- Naturalmente – replicò Floyd. –
Nessuno di quegli sbarbatelli è alla sua altezza.
- Non farlo pensare a certe cose, Roma – rise una seconda
voce di ragazza. – Sai che gli viene angoscia. Uuuh, la mia
bambina! I maschi sono tutti brutti e cattivi! Nessuno deve
guardarla!
- Ridi pure, Scarf – disse l’uomo in tono annoiato.
– Non preoccupatevi, comunque, non me la prendo. Capisco
perché la pensate così. Se mai avrete dei figli
capirete.
Seguì un attimo di silenzio imbarazzante, interrotto dalla
tossetta nervosa di Scarf, tanto che Deadshot, realizzando il peso
delle proprie parole, si morse istintivamente la lingua: - Scusa, Roma,
l’ho detto senza pensarci.
- Lo so, Floyd, non serve che ti scusi.
Il tono della carcerata era sincero, ma non bastò a
cancellare il lieve senso di colpa che ormai aveva assalito il
trentottenne.
- Beh – continuò lui, cercando goffamente di
salvarsi in extremis. – Puoi sempre adottare, no?
Cioè, in caso tu…
- Allora, quante volte vi ho detto che non potete parlare tra voi?
– lo interruppe la voce stizzita del secondino –
Attendere l’ora d’aria è tanto
difficile?
- Ehi, ehi, stavamo solo chiacchierando un po’, non
c’è bisogno di fare gli stronzi! –
replicò annoiato Deadshot, sogghignando non appena
udì le risate degli altri prigionieri.
- Comportatevi bene! – grugnì l’altro
secco.
In passato, Floyd Lawton avrebbe provocato quello stupido sbirro fino
allo sfinimento, l’avrebbe portato ad aprire la porta della
cella, in compagnia di una decina di colleghi, armato di manganello o,
perché no, di qualche bastardissimo aggeggio elettrico.
Ma ormai il fatto di poter far visita a Zoe lo rendeva in qualche modo
più tranquillo, poco interessato nel provare uno sfogo
dimenandosi selvaggiamente mentre i secondini lo picchiavano per
impartirgli una lezione che non avrebbe mai imparato.
Si limitò quindi a chiudere la bocca, giocherellando
distrattamente con il piccolo pendaglio a forma di orsetto che Zoe gli
aveva passato di nascosto.
Meno quarantacinque ore, diciotto minuti e dieci secondi.
Non riusciva a capire come fosse possibile, come facesse a provare
ancora delle sensazioni, come facesse a pensare…
Aprì gli occhi lentamente, rendendosi presto conto di essere
disteso dentro una specie di capsula; di tanto in tanto, avvertiva
delle strane vibrazioni pervadergli le membra.
Una ragazza con il camice bianco gli sorrise attraverso il vetro,
agitando una mano in segno di saluto. Poteva avere venticinque anni o
poco più, aveva i capelli mossi e scuri, la carnagione
chiara ed enormi occhi celesti, che parevano guizzare di emozione e
curiosità attraverso le lenti degli occhiali dalla montatura
nera.
- Ti sei svegliato, finalmente! – gli disse. – Come
ti senti?
- Io… - trovare parole adatte gli parve piuttosto difficile.
– Come faccio ad essere ancora vivo?
La giovane si lasciò sfuggire una risatina: - Pensavi
davvero che un’esplosione potesse uccidere il Signore del
Fuoco? Sarebbe come provare ad uccidere un pesce affogandolo, non
trovi?
- In realtà no…
- Non preoccuparti, l’importante è che siamo
riusciti a recuperarti. Presto sarai in grado di camminare di nuovo
sulle tue belle zampette. Io sono Maysie e mi occuperò di te
finché non ti sarai completamente ristabilito.
***
Angolo
degli Autori:
Salve a
tutti! Come avrete notato, in questo angolino si parla al plurale
perchè il profilo è condiviso da tre autori
diversi, tra cui Tinkerbell92
e Marina94.
Da qualche mese stiamo lavorando all'idea di questo sequel, che abbiamo
deciso di rendere più interessante (o almeno si spera)
inserendo dei personaggi nuovi. Non preoccupatevi se non tutti i membri
della Squad originale sono apparsi nel prologo, dal primo capitolo
riprenderanno il proprio ruolo (insieme ad un paio di altri OC).
Piccola nota: il nome della donna che parla con Floyd si pronuncia con
la O aperta, quindi non si chiama come la città.
Speriamo che questo primo assaggio vi sia piaciuto, grazie mille a
tutti coloro che hanno letto!
Gryfferinpuff
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