Ametista

di gigliofucsia
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Capitolo 1

31 ottobre 1869

 

 

 

 

 

 

 
 

Con gli occhi arrossati mi perdevo fuori dal finestrino mentre il carro traballava sotto i piedi.

Il cuore era stretto in una morsa. La stessa scena mi appariva da ore davanti agli occhi come una tortura. Non la sopportavo ma non potevo farne a meno.

Quando chiusi gli occhi e mi sentì agghiacciata dalle urla dei paesani, dalle urla strazianti di mia madre mentre le fiamme la divoravano. Sentì la frustrazione di quando mi resi conto che non potevo muovermi. La stessa disperazione. La voce di mia madre mi arrivò alle orecchie come un vento. Il suo ultimo messaggio telepatico prima di morire mi disse «stai calma». Quando l'incantesimo immobilizzante si spezzo capì che ormai era troppo tardi. Mia madre aveva smesso esistere. Era diventata un pezzo di carne carbonizzato senza vita.

Il giorno dopo arrivò Don Quarzo mi caricò sul carro per portarmi all'orfanotrofio dell'Immenso, a White Village.

Quando li riaprì la polvere impregnava l'aria entrandomi nelle narici e un velo di mormorii mi arrivava dagli altri ragazzi intorno a me. Un vuoto mi colse come una pugnalata. Quel dolore intenso, mi avrebbe tormentato per tutta la vita. Quanto mi sarebbero mancati i suoi sorrisi, i suoi abbracci. I suoi preziosi consigli.

Fuori dal finestrino vedevo solo immense distese di erba e cipressi. La notte era così serena da rendere ancora più cruenta la tempesta che si agitava dentro di me. Una serie di istinti repressi cercavano di uscire. Scontrandosi con la mia volontà.

Il carro svoltò. Oltre le staccionate vidi dei campi e un grande monastero. Il carro si fermò, davanti ad un cancello nero. Si sentì un trascinante cigolio e il carro riprese, arrestandosi davanti ad un portone. Le portiere si aprirono e gli orfani fluirono nel cortile.

Scesi per ultima. Con la valigia in mano appoggiai i piedi sull'erba. Il vento campagnolo portava con se l'odore della natura.

Nello spiazzo c'erano tante porte. L'impressione era di essere in una piccola cittadina. La carrozza era davanti ad un edificio, ornato da statue di marmo. Delle scalinate si collegavano al portone e davanti ad esso c'erano un prete e una suora, illuminati dalla luce della lanterna.

Il cocchiere chiuse la portiera. Il carro ripartì sparendo dentro ad una stradina nel monastero. Non potevo negare di avere paura. Sapevo che era un rischio per me essere li.

Il prete alzò la lanterna. rivelando, la sua tunica nera e il viso severo. «Siate i benvenuti nella nostra piccola comunità» disse il prete «qui dentro non vi è posto per scansafatiche. Lavorate e sarete premiati, mancate di farlo e sarete puniti. Il mio nome è Don Quarzo. Accanto a me vi è la vicepreside: Suor Giada, che ora vi condurrà nel vostro dormitorio». Il prete consegnò la lanterna alla suora e sparì dietro il portone alle sue spalle.

Suor Giada non parlò. Scese gli scalini indicandoci con la mano di seguirla. Io esitai, facendomi avanti solo all'ultimo. Con lo sguardo a terra camminavo guardando la suora con rabbia, era colpa delle loro credenze e del loro dio se mia madre era morta. Oltrepassai, strade, corridoi e scale nel silenzio più assoluto.

Entrando nel dormitorio numero 13 vidi che alcuni letti erano già occupati. Le pareti bianche erano oscurate dalla sera. La finestra aperta scuoteva le tende anonime mentre ognuno camminava per la stanza scegliendo il suo letto.

Mi mossi in mezzo ai letti e appoggiai la mia valigia ai piedi della branda vicino alla finestra. Lontano da ogni persona in quella stanza.

Rimanemmo lì per qualche minuto. Io aprii la valigia e appoggiai sul comodino spoglio la foto incorniciata di mia madre e il suo libro preferito: “ Manuale avanzato di cucina”, o come lo vedevo io “ manuale avanzato di magia”. Io fissai il volto radioso nella foto in bianco e nero, con un groppo in gola. Ricordando tutti i momenti passati con lei.

Una morsa mi stringeva lo stomaco. Incapace di respirare, guardai la foto e rividi il suo volto incenerire trasformandosi in uno scheletro di sangue con la bocca spalancata in un grido disperato che mi risuonava nelle orecchie e mi faceva tremare le gambe.

All'improvviso la porta si spalancò. Entrò una suora dal viso tondo e sorridente. «Io sono Suor Ambra» disse mettendosi le mani dietro la schiena fiera. «Vi accompagnerò in tutti i lavori manuali. Siete pronti? Andiamo a raggiungere i vostri compagni alla mensa » e si fece da parte.

Io restando ferma sospirai. Volevo solo stare sola. Ambra mi guardò con un sopracciglio alzato e mi raggiunse. Appoggiandomi la mano sulla scapola mi spinse verso la porta. «Su! Non restare indietro». Mi immerse fra gli altri orfani e senza preoccuparsi più di tanto, allungò il dito davanti a se, iniziando a camminare.

La seguì finché non entrai in una stanza con due lunghi tavoli. Uno di loro era pieno di monaci e suore. Imbandito con sfarzo e da lì proveniva un odorino che avrebbe fatto venire fame a chiunque.

L'altro era spoglio. Oltre ai piatti, cucchiai, bicchieri e brocche d'acqua non vi era altro.

A capotavola un grosso pentolone si ergeva mescolato da un'altra suora. Lì si allungò una fila indiana di bambini e ragazzi di ogni età. Ogni ragazzino prendeva la sua porzione e se ne tornava al posto. Una poltiglia dal colore poco invitante doveva essere il nostro pasto. Sbuffai.

Mi sforzai di mangiare qualcosa. Tutti divoravano quella piccola porzione di sbobba come se fosse la cosa più buona del mondo mentre io mi limitavo a girare quella poltiglia con lo sguardo perso e lo stomaco sprangato. Mi sentivo come se un pezzo di montagna fosse stato posato sulle spalle e questo mi stesse schiacciando rendendomi incapace di andare avanti.

«Ciao, da dove vieni?», quella voce mi tirò fuori da quel pozzo di sensazioni. Mi voltai come spaesata. Il ragazzino al mio fianco mi guardo con i suoi occhi verdi. Quel sorriso mi scosse. «Ah! Scusa non mi sono presentato, Io mi chiamo Pirito». Io risposi «Ametista». Pirito indicò una bambina accanto a lui aveva i capelli biondi e due luminosi occhi azzurri. Mi guardava stranita.

«Lei è Perla» aggiunse. «Piacere» risposi. Pirito arrivò subito al sodo, «Stavo notando i tuoi vestiti. Nel tuo paese è normale per una ragazza portare i pantaloni?»

Io risposi «non mi interessa cosa è normale e le opinioni degli altri a me piace vestirmi in questo modo» Pirito esclamò «eh!» mentre Perla si faceva sempre più stranita. Io voltai lo sguardo sul cucchiaio «In casa mia nessuno mi ha mai detto come vestirmi» completai.

Pirito rispose «beh... sei elegante con il infiocchetto rosso al colletto della camicia». Perla si allungò verso di me, «hai un abbigliamento aristocratico, eri benestante?». Non sapevo se era giusto svelare il mio passato al primo incontro dopo quello che era successo ma, depressa com'ero non me ne importava nulla, «sì lo ero».

«Cosa è successo?» chiese il ragazzino allungandosi anche lui verso di me. In quel momento suonò la campanella io mi rimisi in piedi lasciando il piatto pieno. Arrivò Suor Ambra per accompagnarci al dormitorio. Ma la chiacchierata non si fermò lì. «hai la faccia di qualcuno che ne ha passate tante» commentò il ragazzino. «Sei dispiaciuta perché hai dovuto lasciare casa tua?» azzardò Perla.

Io mi afferrai le spalle «No non è per quello» mormorai sentendo la mia voce tremare.

«Ti va di raccontarci cosa è successo?» disse Perla « se non vuoi non importa». Io cercai di distrarre la mente dal quel ricordo raccapricciante. «È...» deglutì «È per mia madre... è... è morta ieri» Tutti edue fecero le loro condoglianze. Pirito disse «è la prima volta che vedo un'aristocratica triste per la morte di un genitore» aveva le guance rosee «cioè anche Gemma è aristocratica ma lei non ha fatto una piega quando è arrivata»

«È perché la maggior parte dei figli di questa classe sociale possono incontrare il genitore una volta al giorno sotto appuntamento, la mia invece è stata una vera mamma, mi è stata accanto e mi ha sostenuto finché... beh fino a ieri» risposi sentendo il mio pesò alleggerirsi di poco.

Ormai eravamo arrivati al dormitorio. Suor Ambra si fece da parte e noi entrammo. «E tuo padre invece?» disse Pirito afferrando la sua valigia. Io mi fermai, «Non l'ho mai conosciuto». E detto quello mi diressi verso il mio letto. Aprì la valigia sopra la branda. Mi infilai il pigiama e fu proprio il quel momento che Suor Ambra mi chiamò.

Io mi voltai. Lei mi disse, «Don Quarzo ha fissato il tuo battesimo per domani mattina» Mi ci volle qualche secondo per rendermene conto. Poi sentì il cuore salirmi in gola e lo stomaco ribaltarsi. Il ricordo di mia madre mi balenò alla testa: “Non farlo se non sei costretta, la metà di noi è morto per essere accettato e per la fede degli altri”. All'improvviso però sentì le mani prudermi e un fuoco salirmi in gola. Non dissi nulla, solo per pigrizia.

Non riuscii a dormire quella sera. Mi rigirai nel letto per i troppi pensieri in testa. Sapevo fin troppo bene l'effetto che avevano gli oggetti sacri su di me. Dopo ore di ansia costante, mi alzai in quella stanza sconosciuta. La luce della luna filtrava dalla finestra. Guardai il simbolo sacro sopra la porta, un cuore trafitto e gli occhi mi prudettero. Mi chiedevo con disperazione cosa fare. Mi afferrai la testa chiudendo gli occhi nel tentativo di svegliarmi da quell'incubo. Ma quando li riaprì non cambiò nulla.

Afferrai la foto incorniciata sul comodino e la guardai alzandomi dal letto. Quel viso, quanto avrei voluto che si fosse messo a parlare. Con il cuore in gola mi avviai verso la finestra. Oltre ad essa vedevo il cortile avvolto dalla notte. «Mamma perché sei morta?Perché mi hai abbandonato? Perché non mi hai permesso di salvarti? o di morire insieme a te?» mormorai. Anche se ero insieme a tanti ragazzini addormentati non sentivo altre presenze per kilometri. Scossi la testa e dissi «perché parlo con te se ormai non esisti più?»

Le lacrime che avevo trattenuto per tutto il giorno scesero sulle mie guance gocciolando dal mento fino al vetro della foto. Mi sedetti sul davanzale della finestra, appoggiando la spalla e le ginocchia sul vetro. Anche se tutto era avvolto nelle tenebre se non qualche lampione acceso oltre il monastero, guardare il cortile così calmo e incurante del mio dolore mi faceva entrare in uno stato di serena tristezza.

Sulle gambe piegate appoggiai la foto. La accarezzai con gentilezza e, sorridendo, lasciai fluire le emozioni che tanto avevo lasciato che mi corrodessero dentro. Singhiozzando in silenzio chiusi gli occhi stringendo al petto il volto di mia madre. Le mie lacrime la bagnarono a lungo.

Guardai fuori dalla finestra e appoggiai le guance ai vetri ghiacciati, finché i miei occhi non si chiusero.





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