Bianco
Tutto era maledettamente bianco. Quel bianco che dà fastidio agli occhi, troppo chiaro, troppo luminoso, troppo bianco persino per qualcosa di bianco. Quel bianco che non è purezza, quel bianco che è follia. Un bianco macchiato dalle uniche ciocche di colore nero ferme lì, al
centro di quella camera quadrata, sulla testa di un ragazzo troppo
giovane per essere seduto a gambe incrociate sul pavimento imbottito di
un luogo come quello. La verità, però, è che per
certe cose non c'è età. Non è come il guidare o il
bere, è come l'amore. Non c'è un'età giusta
per amare così come non ce n'è una giusta per impazzire.
Ma non c'erano pazzi, non in quella stanza. JungKook se ne stava
lì, con le gambe incrociate e le guance rigate da lacrime amare
che, se avesse potuto, avrebbe tinto rosso sangue solo per distruggere
e macchiare quel bianco che
si portava anche addosso; ma non era pazzo. No, non era pazzo. Non era
pazzo. Se fosse stato pazzo lo avrebbe saputo. Se ne sarebbe accorto.
Se fosse stato pazzo non avrebbero chiesto il suo aiuto. Se fosse stato
pazzo lui non avrebbe provato
a contattarlo per davvero. Perché era vero. Perché lo
sentiva. Anche se premeva le mani pallide e bianche
sulle orecchie, lui continuava a sentire, perché non si
può impedire di entrare a qualcosa che è già
dentro. Un fischio, un grido d'aiuto oramai costante che, quando
raggiungeva i suoi acuti, riusciva a far contorcere il giovane su se
stesso, riusciva a farlo raggomitolare in un angolino morbido della
stanza o a farlo alzare e correre contro la porta metallica per battere
i pugni contro la sua imbottitura. E cominciava ad urlare in quei
momenti. Si aggrappava all'unico piccolo rettangolino che gli
permetteva di scorgere l'andirivieni degli infermieri in quel
corridoio, ci infilava la bocca ed urlava con tutto il fiato che aveva
nei polmoni, con tutta la voce che aveva in corpo, lasciando che le
parole graffiassero la gola, affogandogli l'anima in quello stesso
rosso sangue che avrebbe voluto piangere via. Affondò le
dita fra i capelli scuri dividendoli in ciocche troppo grandi che
avvolse e tirò cercando di aggrapparsi a qualcosa che, con la
sua stabilità, potesse impedirgli di cadere ancora giù,
ancora più in basso. Si era alzato di scatto anche quella volta,
e come al solito aveva ripreso a scazzottare contro la porta, a pregare
di essere tirato fuori di lì: non era quello il suo posto. Non
era lì che doveva essere quando fuori, nel mondo, c'era bisogno
del suo aiuto. Ma che aiuto poteva dare un pazzo? L'unico modo per
aiutare il mondo era restare a marcire lì dentro, gli dicevano
gli infermieri. Da quanto andava avanti? Da quanto tempo era rinchiuso
lì? Indietreggiò, si guardò intorno
spaesato. Dov'era? Dove si trovava? Non era troppo tardi? No. Sentiva
ancora. Riusciva ancora a sentire la voce che chiamava il suo nome.
Doveva uscire, in un modo o nell'altro. Doveva correre a salvarlo
perché era ancora vivo ed aveva bisogno di lui. Non poteva
lasciarlo. Doveva andare. Le mani batterono l'ennesimo colpo sulla
porta, dopo che ebbe preso la rincorsa per scagliarvisi contro e sul
viso di JungKook un'espressione stupita prese vita nel sentirne il
cigolio straziante, come un lamento. Si era aperta. La porta era aperta
e quello era il momento perfetto per fuggire via. Non ci pensò
due volte e l'aprì senza preoccuparsi di chi avrebbe trovato
fuori, senza badare nemmeno al fatto che, proprio lì, in quei
corridoi solitamente popolati dal personale ospedaliero,
neanche un'anima dava segno della sua esistenza. Meglio per lui,
però, perché gli fu maledettamente facile correre via.
L'ospedale era vuoto. Non c'era nessuno. Le sue preghiere erano state
ascoltate e, nonostante il suo peccato d'amore, gli era stata concessa
la possibilità di salvare l'innocenza dell'amato. Non gli
restava che trovarlo. Era lì, da qualche parte. Si mosse con
passi brevi e veloci, poi cominciò a coprire distanze più
lunghe, ma prima che la sua potesse diventare una vera e propria corsa
l'ennesimo fischio lo fece accasciare a terra, contro una parete del
corridoio in cui si trovava. Premette i palmi sulle orecchie, lo
implorò di smetterla. «S-sto arrivando. Aspetta solo un
altro po'. Res-..resisti». Fu così sottile il mormorio che
uscì dalle sue labbra che quasi dubitò lui per primo di
aver pronunciato quelle parole.
Non appena ebbe la forza di rialzarsi, aggrappandosi a quel muro troppo
liscio e privo di appigli, si trascinò qualche passo più
avanti fino a tornare a camminare sulle proprie gambe, nonostante il
perenne fischio nella sua testa gli donasse un equilibrio fin troppo
precario.
Guardò in ogni angolo, visitò ogni ala di quell'ospedale
e setacciò ogni stanza indisturbato. Erano tutti spariti da
quell'edificio e questo gli permise di vagare con calma, senza
fretta, ma nonostante questo i risultati che ottenne furono pessimi.
Non c'era nessuno, neanche colui che stava disperatamente cercando.
Eppure era lì, poteva sentirlo. Non era pazzo, lui. JungKook non
era pazzo e sapeva che il suo angelo
era lì da qualche parte, in attesa di essere trovato.
Aprì una porta, la oltrepassò e scoprì una rampa
di scale che portava ai piani superiori. Un altro fischio lo fece
accasciare sui primi scalini, un urlo gli fece vibrare il petto, ma le
mani tremanti, piuttosto che coprire le orecchie come erano solite
fare, si avvolsero intorno alla ringhiera e permisero al giovane di
tirarsi su. JungKook cominciò a correre verso l'alto,
divorò scalino dopo scalino che quasi pareva volare, sebbene non
avesse alcun paio d'ali. Non più
almeno. Strappate via con violenza, lasciate morire lontano dal
corpo, appassite come margherite sradicate e lasciate essiccare
al sole. Il giovane angelo era stato punito per l'amore impuro che
ancora si portava nel cuore e lontano dal paradiso era stato condannato
a vivere la sua vita come un comune essere umano, confinato su
quell'inferno terrestre che profumava di solitudine. Lo aveva pagato a
caro prezzo quell'amore ed ora non aveva più nulla da perdere,
ma solo da guadagnare. Si era assunto la totale responsabilità,
ma mai avrebbe immaginato che il suo compagno sarebbe corso da lui con
l'intento di salvarlo, finendo per essere, suo malgrado, colui che
andava salvato. Arrivato in cima spalancò la porta e si
precipitò fuori, nelle violente folate di vento che avevano
smosso la natura, strappato foglie deboli e sollevato quelle morte, e
si guardò intorno portando un braccio sulla fronte per farsi da
scudo. Avanzò a difficoltà, ma nulla gli avrebbe impedito
di raggiungere la figura angelica che aveva scorto dall'altro lato del
terrazzo. Si avvicinò abbastanza da poter vedere il suo
viso, riconoscere la sua statura. Esisteva.
Non era pazzo. Non era pazzo ed avrebbe voluto urlarlo a tutto il
mondo, ma allora si che sarebbe stato poco credibile. L'angelo che
aveva tormentato i suoi giorni e la sua testa con le proprie grida di
aiuto era proprio lì, davanti a lui, e nell'esatto momento in
cui il sorriso apparve sulle labbra di un TaeHyung consapevole, oramai,
di essere in salvo, il cuore del povero JungKook mancò un
battito. Nella sua testa, più nessun fischio. Gli unici
suoni che ancora si udivano erano quello del vento che soffiava e
quello delle foglie che, sotto la sua forza, si sbriciolavano
diventando polvere. L'angelo aveva smesso di gridare, aveva
smesso di chiedere aiuto: era in salvo. Le ciocche scure sul capo del
ragazzo ondeggiarono mosse dal vento mentre, passo dopo passo, avanzava
in direzione di quella figura angelica che, coi polsi e le caviglie
legati da pesanti catene, era in attesa del suo salvatore. Non aveva
alcuna ferita, non c'era sangue. Tae era bianco,
puro e meraviglioso come lo aveva sempre ricordato. Fu facile
liberarlo, però, e forse anche fin troppo. Era bastato sfiorare
il ferro scuro di cui erano fatti gli anelli intrecciati, e questi si
erano aperti ricadendo in terra con un gran frastuono, liberando,
così, ciò che tenevano prigioniero. Il più piccolo
dei due angeli -o ciò che ne restava- non si rese neanche conto
di essere riuscito nella sua impresa se non quando le braccia del
biondo si strinsero intorno al suo collo e le ali altrui lo
avvolsero per cullarlo in un calore consolatorio che aveva, da tempo,
dimenticato. Come se volessero cancellare ogni singolo istante di
quegli ultimi giorni. Come se volessero risanare le sue ferite e
prendersi cura di lui.
«Non sono pazzo. Ti ho trovato.»
Portò le mani sulle guance del ragazzo e con gli occhi
fotografò bene il suo viso. Ne percorse ogni centimetro, ne
ridisegnò ogni lineamento, terrorizzato dall'idea di poterlo
dimenticare di nuovo. Avrebbe voluto imprimere a fuoco sulla propria
pelle quel volto, così da poterlo vedere semplicemente
abbassando lo sguardo, ma si ritrovò troppo occupato a
specchiarsi in quegli occhi scuri e puri per pensare a qualsiasi altra
cosa. Il maggiore, dal canto suo, con il sorriso dolce in cui
s'erano distese le sue labbra, rassicurò l'altro, gli
carezzò il viso.
«Mi hai trovato, amore mio. Non lasciare che ci separino ancora.»
«Non lo permetterò» e non perse tempo prima di
suggellare con un tenero bacio quella promessa, per quanto tenero possa
essere il bacio di un amore proibito. Le labbra di JungKook si
scontrarono con le altrui quasi con violenza, come se temessero una
scomparsa improvvisa delle altre, le catturarono e si schiusero
per permettere un contatto più profondo. «Dobbiamo
andare..» mormorò sulla bocca del più grande,
prima di prendere le sue mani e tirarlo via. Dovevano andarsene da
lì. Dovevano fuggire lontano, dove nessuno avrebbe potuto
trovarli. Dovevano arrivare più giù, ancora più
giù.
Entrambi presero a scendere le scale di corsa, stringendosi la mano, le
dita intrecciate per impedire che potessero essere separati. Arrivarono
al piano più basso in un batter d'ali e si fermarono sull'ultimo
scalino per maledire l'assenza di un continuo che portassere
giù, dritto all'inferno. Ritornarono all'interno dell'ospedale,
attraversarono un lungo corridoio completamente nero. Non era in quel
modo che JungKook ricordava l'edificio, non così scuro,
ma cosa importava in quel momento? Non conosceva nessuna di quelle
camere completamente vuote e mai aveva percorso quei corridoi
così inanimati, ma a lui non importava perché poteva
sentire il calore della mano di TaeHyung ben stretta nella
propria. Tutto il resto perdeva valore e significato. Si gettò
nella prima stanza che trovò sulla propria destra, trascinandovi
anche l'angelo e richiudendo dietro di sé la porta imbottita.
Riprese a respirare solo in quel momento, più tranquillo,
più al sicuro. Si voltò verso il più grande e,
comparato al suo, il bianco delle pareti circostanti pareva nero.
TaeHyung era il bianco
più bello che avesse mai visto. Sorrise, aveva il fiatone, ma
non sarebbe mai potuto essere troppo stanco per stringerlo, dunque non
ci pensò due volte prima di far scivolare le braccia intorno al
collo del biondo.
«Qui non ci troveranno facilmente. Siamo troppo giù.
Troverò un posto più sicuro, ma per ora...»
«Per ora possiamo stare qui..? Jungkook-ssi, mi dispiace..a causa
mia..» con la punta delle dita spostò i capelli scuri ed
umidi appiccicati alla fronte del minore, ma non fece in tempo a finire
la frase che venne interrotto. No, non era colpa sua. Non c'era nessuna
colpa. Amare non era una colpa e loro si amavano soltanto. Quelle
parole fecero sorridere il più grande ed il cuore dell'altro,
davanti a quella tenerezza, riprese a battere con così tanta
veemenza che avrebbe potuto seriamente squarciargli il petto. Ma a
squarciargli il petto fu la fitta che provò nel vedere il
sorriso di TaeHyung spegnersi con una velocità innaturale ed il
suo labbro inferiore tremare, poco prima che lo sguardo di entrambi
scendesse verso il basso alla ricerca di qualcosa che potesse fargli
capire cosa stesse succedendo. Tutto ciò che videro fu del
sangue. Del colore rosso macchiava il bianco
di Tae, distruggendo la sua purezza e tutti gli sforzi che avevano
fatto per arrivare sino a lì. L'angelo perse l'equilibrio, ma il
minore lo afferrò prima che stramazzasse al suolo scivolando,
poi, con le ginocchia contro l'imbottitura del pavimento mentre
stringeva fra le proprie braccia il suo compagno. Scuoteva il capo
JungKook; con occhi spalancati fissava il viso angelico del più
grande, il cui colore scaricavasi lentamente ad ogni goccia di rosso
che defluiva via dal suo corpo; con mani tremanti premeva sulla
ferita al centro del suo petto che, comparsa dal nulla, stava uccidendo
tutto ciò che ancora gli restava. Premeva, ma il sangue non
smetteva di fuoriuscire. Come era successo? Non importava. Quella
ferita c'era e non aveva importanza il perché. Gli occhi si
riempirono di lacrime al punto che fu impossibile trattenerle,
così come la bocca si riempì di grida. Goccioline
trasparenti e salate rigavano il volto di JungKook correndo verso il
basso per morire sul corpo di TaeHyung che, presto, le avrebbe
raggiunte; l'aria, graffiante, violentava la sue corde vocali
perché producessero voce, grida. Non voleva essere
lasciato. Non voleva stare da solo. Non voleva perderlo, non di nuovo.
Non importava quanto pregasse, il biondo non dava alcun segno di
ripresa, sembrava, anzi, sempre più debole, ma, da qualche parte
dentro di sé, trovò la forza di sollevare un braccio e
poggiare una mano sulla guancia del più piccolo, sporcandola
inevitabilmente del proprio sangue.
«Jung-..JungKook-ssi.. non permettere che ti facciano
dimenticare. Non...non dimenticare mai chi...sei. Non..dimenticarti di
noi..»
Perché non voleva essere dimenticato. Perché non voleva
che il suo JungKook fosse condannato a vivere una vita a caso, su
quella terra maledetta, sentendosi incompleto per un passato che gli
era stato negato e non avrebbe potuto ricordare. Perché non
voleva che chiamassero il suo piccino con un nome che non gli
apparteneva per evitare che qualsiasi ricordo potesse
riaffiorare. Voleva essere ricordato. Voleva che almeno JungKook, fra i
due, potesse ricordare tutto ciò che di bello erano stati
insieme. Riuscì a sorridere per un'ultima volta quando il
minore, fra lacrime e singhiozzi, riuscì a prometterglielo,
perché la promessa di un angelo era sacra e nemmeno il
più immenso dei poteri avrebbe potuto costringerne la rottura.
Il biondo riuscì ad ottenere un ultimo bacio prima di chiudere
gli occhi e svanire lentamente fra le braccia del suo amato che,
invano, provò ad afferrarlo e trattenerlo con sé.
TaeHyung era scomparso e le urla di JungKook avevano raggiunto acuti disumani, sebbene le sue labbra fossero ben sigillate.
Indietreggiò, spaventato dal sangue che cominciava a cancellarsi
dal pavimento. Persino le sue mani ora erano pulite, ma lui non voleva.
Non voleva. Quello era il sangue di TaeHyung. Il suo TaeHyung. Scosse
il capo con forza, premette i palmi delle mani sulle orecchie. Si
guardò intorno spaesato, cercando di capire dove si trovasse.
Tutto era ancora maledettamente bianco. Quel bianco che dà
fastidio agli occhi, troppo chiaro, troppo luminoso, troppo bianco
persino per qualcosa di bianco. Quel bianco che non è purezza,
ma follia. Un bianco
macchiato dalle uniche ciocche di colore nero ferme lì, al
centro di quella camera quadrata, sulla testa di un ragazzo troppo
giovane per essere sul pavimento imbottito di un luogo come quello. La
verità, però, è che per certe cose non c'è
età. Non è come il guidare o il bere, è come
l'amore. Non c'è un'età giusta per amare
così come non ce n'è una giusta per impazzire. Ma non
c'erano pazzi, non in quella stanza. JungKook se ne stava
lì, con le gambe incrociate e le guance rigate da lacrime amare
che, se avesse potuto, avrebbe tinto rosso sangue solo per distruggere
e macchiare quel bianco che
si portava anche addosso; ma non era pazzo. No, non era pazzo. Non era
pazzo. Se fosse stato pazzo lo avrebbe saputo. Se ne sarebbe accorto.
Se fosse stato pazzo non avrebbero chiesto il suo aiuto. Se fosse stato
pazzo lui non avrebbe provato a contattarlo per davvero. Perché
era vero. Perché lo sentiva ancora. Anche se premeva le mani
pallide e bianche sulle
orecchie, lui continuava a sentire, perché non si può
impedire di entrare a qualcosa che è già dentro. Un
fischio, un grido d'aiuto oramai costante che, quando raggiungeva i
suoi acuti, riusciva a far contorcere il giovane su se stesso, riusciva
a farlo raggomitolare in un angolino morbido della stanza o a farlo
alzare e correre contro la porta metallica per battere i pugni contro
la sua imbottitura. TaeHyung era vivo.
Era ancora vivo. Stava gridando, chiedeva il suo aiuto. Doveva correre
da lui. Si aggrappò all'unico piccolo rettangolino che gli
permetteva di scorgere l'andirivieni degli infermieri apparsi
nuovamente
in quel corridoio, ci infilò la bocca ed urlò con tutto
il fiato che aveva nei polmoni, pregando di essere tirato fuori.
Nonostante gli occhi ricolmi di lacrime, riuscì a scorgere la
figura completamente bianca dell'ennesimo infermiere che si
avvicinava alla sua stanza ed improvvisamente si zittì. Chiuse
la bocca e restò a contemplare silenziosamente i lineamenti che,
passo dopo passo, prendevano forma su quel viso che si rivelò
essere fin troppo familiare. Il suo TaeHyung era lì,
era vivo ed il sorriso si aprì come un sipario fra le lacrime
che JungKook aveva sul volto. Da quel rettangolino osservò il
viso angelico del suo amato, ma quando lo sguardo gli cadde sulla
targhetta che c'era sul petto altrui, un urlo gli morì in gola. "Park Jimin".
Deglutì a vuoto, era confuso. Se avesse avuto ancora le sue ali, se le sarebbe giocate entrambe: quello era TaeHyung,
il suo angelo. Schiuse le labbra come a voler dire qualcosa, ma la voce
di quel ragazzo fermò sul nascere qualsiasi suono avesse
intenzione di uscire.
«Non dovresti piangere, Yoongi. Qui sei al sicuro».
____________________
•[Salya's corner]•
Allora, da premettere che -accidenti, ma perché ogni volta devo
premettere qualcosa? CHE POI E' SEMPRE LA STESSA COSA- non credo negli
angeli e roba varia, è successo che guardando Shadowhunter
(la serie tv) mi son detta "Angeli? Ma sì, dai. Una ff ci
sta".
L'obiettivo principale di questo scritto è quello di lasciarvi
col dubbio. Di lasciarvi una sensazione di incompletezza che non
colmerò neanche io, come autrice -dato che non posso,
perché sto messa peggio di voi, dopo averla scritta-. Non
c'è un vero e proprio motivo per questa mia scelta e questo mi
fa provare un senso di incompletezza ancora più grande. Volevo
che non si capisse praticamente nulla.
TaeHyung e JungKook sono realmente due angeli caduti?
Si, potrebbero esserlo davvero. JungKook potrebbe essere rinchiuso in
un ospedale psichiatrico perché considerato un pazzo che crede
d'essere un angelo (dato che la promessa che ha fatto, essendo sacra,
gli ha impedito di dimenticare), mentre TaeHyung, come il minore,
è stato privato delle sue ali e confinato sulla terra, ma, dato
che lui non ha fatto alcuna promessa, anche della memoria. Questo
spiegherebbe perché sulla sua targhetta c'è un nome
diverso e perché ha chiamato il suo amato con un nome che non
era il suo. Dunque, gli angeli caduti JungKook e TaeHyung sono
intrappolati sulla terra nei panni di "Jimin" e "Yoongi" (che sono solo
nomi, in questo caso, eh).
E' tutto frutto della mente folle di uno Yoongi innamorato?
Si, potrebbe essere così. Un paziente di un ospedale
psichiatrico innamorato dell'infermiere che si prende cura di lui
immagina una fuga, crea un mondo completamente diverso in cui, invece
che paziente da salvare, è un eroe che salva. I nomi "TaeHyung"
e "JungKook" in questo caso sarebbero solo frutto dell'immaginazione di
Yoongi, qualcosa di non reale, qualcosa che gli permetta di sfuggire
completamente da quella realtà perché, nella sua pazzia,
lui è consapevole del fatto che "Yoongi" e "Jimin" sono troppo
distanti per potersi amare, e dunque crea "JungKook" e "TaeHyung".
In parole povere, a seconda della vostra OTP o del vostro gusto, potete
scegliere la versione che più vi aggrada. Io, che sono una
YoonKook shipper, vado a piangere nel mio angolino a cercare di capire
per quale motivo non c'è la mia OTP qua dentro. Bah.
Ad ogni modo, non so se sono riuscita nel mio intento, ma mi piacerebbe ascoltare i vostri pareri sinceri.
|