La trappola di vetro 1
“Till it broke up and
it rained down
It rained down,
like...
Pain!”
Imagine Dragons, Believer
Il ritorno alla coscienza fu lento e poco piacevole.
La tartaruga mutante sbatté un paio di volte gli occhi e poi,
a fatica, li aprì del tutto. Tra palpebre aperte e chiuse la differenza tuttavia
era poca: con gli occhi aperti vide appena qualche vaga sagoma scura, solo sfumature
grigie in un mondo per il resto desolatamente nero.
E poi, appena apparse, le deboli forme scomparvero. Nell’ambiguo
regno tra il sonno e la veglia, il tempo di chiedersi se avesse davvero visto
qualcosa, quando le ombre si ripresentarono alla vista. E poi tutto fu buio di
nuovo…
Ancora stordito, il giovane mutante si sforzò di
interpretare ciò che gli occhi stavano cogliendo e di dare un senso logico alle
sue percezioni confuse. Non era, evidentemente, a casa nel suo letto, bensì
seduto per terra, con le ginocchia piegate e con il guscio appoggiato ad una parete
fredda e dura. L’aria stessa era fredda. Nel silenzio assoluto, il mutante non
udiva alcun suono al di fuori del suo stesso respiro. Intorno a lui, in uno
strano pulsare di nero e grigio, nella penombra intravedeva appena un ambiente del
tutto estraneo. Forme squadrate si accavallavano fino in alto; torri corvine
contorte si distinguevano a stento, andavano e venivano, in palpiti che inspiegabilmente
mostravano e celavano, davanti ed intorno a lui.
Dov’era? Cos’era successo?
Lentamente, alzò una mano e l’avvicinò alla fronte dolorante:
con dei tocchi esitanti ispezionò la sua povera testa, dalla fronte alle tempie
e poi più indietro; sibilò quando le dita sfiorarono un bozzo sulla nuca che,
umido e caldo, sembrava quasi pulsare sotto il suo battito cardiaco.
L’adolescente cercò di distendere le gambe ma, inaspettatamente,
incontrò subito un ostacolo. Allungò la mano dinanzi a sé e sentì qualcosa di liscio
e duro a poca distanza dal suo piastrone. Si guardò intorno, sforzando ancor di
più gli occhi a distinguere qualcosa e girando lentamente la testa, quindi tese
anche l’altra mano verso le ombre. Sfiorò nuovamente la fredda superficie
liscia.
Sembra vetro.
Sì, vetro o qualcosa del genere. Accarezzò la superficie con
i polpastrelli e batté un paio di volte le nocche per accertarsene. A tentoni,
ispezionò la parete, correndo con le dita callose fino all’angolo, proseguì
alla sua destra e poi portò le mani sulle parete opposta, a sinistra. Quindi
controllò alle sue spalle, toccando il vetro dietro al suo guscio.
Si trovava seduto tra quattro pareti di cristallo.
A fatica, adagio, si alzò in piedi; per l’ondata di nausea che
ne seguì dovette appoggiarsi con entrambe le mani alle pareti, reprimendo un conato
di vomito. Aveva preso proprio una bella botta in testa…
La giovane tartaruga inalò bruscamente una boccata di aria
fredda all’improvviso flashback di ciò che era successo. Era stato colpito! Aveva
ricevuto un colpo in testa, da un nemico alle sue spalle. Adesso ricordava tutto.
Era uscito a prendere la cena da Murakami, quando, su un tetto non lontano dal
piccolo ristorante giapponese, si era ritrovato completamente circondato da figure
nere.
Stagliati contro il cielo, sui tetti intorno a lui, si erano
materializzate decine di bot ninja. Aveva fatto appena in tempo a tirar fuori
il t-phone, e comporre il numero di suo fratello Leonardo, quando aveva dovuto
usare la stessa mano che reggeva il telefono per fermare una lama diretta
dritta dritta alla sua faccia. Beh, meglio il t-phone che la mano, rifletté al
ricordo, e per fortuna aveva potuto inviare la chiamata. Con un altro po’ di
fortuna suo fratello avrebbe sentito lo squillo e tentato di richiamarlo subito,
quindi poi avrebbe provato a rintracciarlo col sistema di rilevamento della
posizione.
Aveva sperato anche, nell’ipotesi che Leo non avesse sentito
la chiamata, che sarebbe stato magari Raffaello, l’altro suo fratello, a
cercare di contattarlo a prescindere; quest’ultimo infatti, quando aveva lo stomaco
in attesa della cena, tendeva ad essere molto consapevole del passare del tempo
e più di una volta gli aveva telefonato sulla via del ritorno per appena una
decina di minuti di ritardo sull’orario previsto dal suddetto stomaco.
In ogni caso, i soccorsi non erano arrivati in tempo e,
nonostante l’impressionante abilità ninja di cui era solito autocompiacersi,
trovarsi a combattere da solo contro una cinquantina di infaticabili guerrieri
meccanici era stato troppo anche per lui. Alla fine, quando aveva decimato gli
avversari, ma la stanchezza aveva inevitabilmente iniziato a farsi sentire, un colpo
fortunato l’aveva sorpreso da dietro; il giovane mutante aveva sentito un acuto
dolore alla testa e subito era arrivato il buio.
Le cose a questo punto non promettevano niente di buono. Adesso
non ci sarebbe voluto un genio come il terzo dei suoi fratelli, Donatello, per capire
di essere seriamente nei guai.
Michelangelo sospirò e iniziò ad esaminare più attentamente la
sorta di teca gigante nella quale si trovava ed il mondo scuro al di fuori di
essa. Nell’ambiente al di là del cristallo qualche lieve riverbero di luce
entrava, ad intervalli regolari, da delle finestrelle situate parecchi piedi in
alto, e permetteva appunto di intravedere delle forme confuse nel suo andare e
venire. Forse la gabbia si trovava all'interno di un ambiente molto grande, ma
non poteva individuarne i limiti, che sfumavano nel buio totale.
La cassa di vetro, invece, era alquanto piccola, tanto da
non riuscire ad aprire completamente le braccia. In basso, su un lato, trovò
quattro fori, troppo stretti perché potesse passarci la mano. Non riusciva a
vedere se la teca fosse aperta nella parte superiore; sicuramente il pavimento
era di vetro anche sotto ai suoi piedi. Per saggiare l'altezza della cassa,
provò a fare un saltello. La mano sfiorò il vetro a circa tre piedi dalla sua
testa.
Nel forte capogiro che seguì il piccolo balzo, la
comprensione gli fece accelerare i battiti del cuore. Era chiuso in trappola. Qualcuno,
e per qualcuno intendeva qualcuno degli uomini di Shredder, l’aveva trasportato fin qui e messo in
gabbia. Sigillato in una bacheca di vetro come un action figure da collezione. Sperava
almeno che i fori in basso servissero per l’aerazione. Li ispezionò infilandoci
le dita, ma non sentiva nient’altro che il freddo contatto del cristallo.
La tartaruga mutante adolescente si lasciò sfuggire un altro
sospiro. Questa situazione gli piaceva sempre meno. Doveva uscire subito da qui.
Cercò i suoi nunchaku alla cintura, ma, com’era da
aspettarsi, non li aveva più con sé. Ispezionò le piccole tasche interne:
niente shuriken, presi anche quelli. Stessa sorte alla lama che portava sotto
le coperture del polso sinistro. Tutte le armi gli erano state prese. Oh bene,
aveva ancora i suoi pugni. Tirò indietro un braccio e prese un profondo
respiro.
Stava per iniziare a testare la resistenza del cristallo a
colpi di nocche ben assestati, quando, improvvisamente, una luce abbagliante si
accese davanti a lui.
Michelangelo chiuse subito gli occhi, accecato; la luce,
rosa sotto le palpebre, dava fastidio anche così. Attese qualche secondo per
abituarsi, quindi riaprì con cautela gli occhi, schermandoli parzialmente con
una mano.
Il mondo intorno a lui si era adesso rivelato.
Si trovava all'interno di un grande magazzino, con alti soffitti
in lamiera dotati di piccoli lucernari sporchi. Intorno alla gabbia, centinaia
di casse da imballaggio si accastellavano disordinatamente, alcune in alte
colonne che sfioravano il soffitto. Diverse serrande di ferro s’intravedevano,
chiuse, lungo una delle pareti; delle targhette segnaletiche e delle stampe di
servizio marchiavano i muri di cemento. Alcuni muletti giacevano fermi tra le
casse di legno.
Il magazzino sembrava completamente deserto.
La sua prigione di vetro era situata nel mezzo del
magazzino, lontana dalle pareti e dalle casse, posizionata su una sorta di
basamento scuro, forse di ferro, alto una decina di pollici e poco più largo del
contenitore stesso. Adesso poteva vedere che, in basso, all’altezza delle sue
caviglie, ai quattro fori nel vetro erano collegati all’esterno dei tubi neri
che correvano lungo il pavimento polveroso fino a perdersi dietro un mucchio di
casse.
Appena fuori la sua piccola cella di cristallo, un faretto
si era acceso puntando verso di lui. Lì accanto, su un treppiedi, una videocamera
accese la sua lucina rossa.
…
(Poco prima)
La notte immobile fu tranciata da tre figure che balzavano tra
i palazzi, ombre tra le ombre.
Leonardo atterrò sul tetto, un attimo prima dei suoi fratelli.
Raffaello e Donatello arrivarono con la stessa agilità, silenziosi, ai suoi
fianchi.
“Il posto è questo," disse la tartaruga mutante
mascherata in viola, controllando il proprio t-phone.
Raffaello estrasse i suoi sai, procedendo con attenzione sul
terrazzo del vecchio edificio fatiscente. Leonardo si inginocchiò, sfiorando
con un dito una macchia d'olio. Alzò gli occhi ad incontrare quelli di
Donatello, che come lui aveva notato le piccole chiazze di liquido, i detriti
metallici e i segni sul cemento del tetto.
“Bot ninja," confermò il viola annuendo. Si accosciò e
toccò l’olio. Era tiepido, contro il cemento freddo del tetto. Nell’aria era
ancora avvertibile l’odore dei fluidi dei circuiti meccanici tranciati nella
lotta.
“Appena pochi minuti fa,” aggiunse. Questa volta fu Leonardo
ad annuire.
“Qui!” chiamò Raffaello, facendo segno con una mano e
raccogliendo qualcosa da terra. Mostrò ai fratelli accorsi al suo fianco ciò
che aveva trovato: il t-phone rotto ed un foglietto di carta. Ai suoi piedi,
giacevano incrociati i nunchaku di Michelangelo.
“Era sotto il telefono," disse il rosso porgendo il
foglio al leader.
Sulla carta non vi era nient'altro che una doppia serie
numerica, su due righe: la prima serie più lunga e divisa in quattro blocchi.
“Cosa significa?” grugnì Raffaello, guardandosi intorno. “Dov’è
Mikey?”
Leonardo lesse il foglietto e lo passò a sua volta alla
tartaruga mascherata in viola, che iniziò a studiarlo attentamente. I due
fratelli maggiori lo guardarono in attesa per qualche secondo, sperando che
Donatello potesse capire subito il significato del messaggio, ma evidentemente
anche al mutante geniale così su due piedi quei numeri non dicevano niente.
“Diamo ancora un'occhiata in giro, anche sugli altri tetti,”
ordinò quindi Leonardo, sforzandosi di suonare più calmo di quanto si sentisse.
“Donnie?”
Donatello annuì, alzò lo sguardo dal foglio e si guardò di
nuovo intorno, con i grandi occhi nocciola larghi d'ansia, soffermandosi su un pezzetto
strappato di tessuto nero attaccato ad una macchia d'olio ai suoi piedi. Deglutì.
Guardò un attimo Raffaello, poi Leonardo.Tutti avevano capito, non c’era
bisogno di dirlo ad alta voce.
Michelangelo era stato catturato da Shredder.
…
Nella tana, Splinter sedeva a gambe incrociate nel dojo,
sotto il grande albero. Non stava meditando; semplicemente, aspettava.
Quando prima era squillato il telefono di Leonardo, il ratto
mutante che era stato Hamato Yoshi stava giocando a scacchi proprio col figlio maggiore.
Leonardo si era scusato col padre e maestro, aveva tentato di richiamare più
volte il fratello, quindi era andato in laboratorio da Donatello. In pochi minuti,
scambiandosi solo qualche direttiva concitata, le tre tartarughe mutanti erano
corse subito fuori dalla tana ed il loro sensei era rimasto ancora una volta ad
aspettare.
Splinter strinse gli occhi e si concentrò per reprimere sul
nascere un sentimento di rabbia e sconforto. Evidentemente, per i suoi ragazzi,
anche salire in superficie per prendere la cena non era un'azione priva di
rischi.
Un lieve rumore di passi in arrivo attirò la sua attenzione;
le grandi orecchie si girarono verso quella direzione ed il maturo mutante si
alzò in piedi: i suoi figli erano di ritorno. Splinter arrivò nella grande sala
centrale, dove c’era l’ingresso, mentre le tartarughe stavano balzando sui
tornelli per entrare. Donatello corse direttamente verso il suo laboratorio, esaminando
concentrato il foglio che stringeva in mano; Raffaello e Leonardo si accostarono
al loro maestro.
Leonardo prese un profondo respiro ed iniziò a fare la sua relazione
in fretta.
“Hanno preso Mikey, Sensei. Ci hanno lasciato un messaggio,
un foglietto con dei numeri. Donatello sta cercando di capire di cosa si tratti.”
Il ratto mutante avvertì distintamente i peli della sua
pelliccia drizzarsi sulla schiena, ma la sua espressione rimase impassibile.
“Chi…”
“Il Piede. Abbiamo visto su un tetto i segni di una lotta
con i bot.”
Splinter annuì, serio, chiudendo appena un attimo gli occhi.
Dovette chiedere, sapendo che Leonardo altrimenti avrebbe al momento omesso
l’informazione.
“È stato ferito?”
Raffaello abbassò lo sguardo e mormorò una maledizione sotto
voce, scuro in volto, con i pugni stretti.
“Non lo so, non abbiamo visto sangue, solo frammenti di
corpi dei bot,” rispose il mutante in blu, e deglutì. “Hanno lasciato questi,”
aggiunse, tirando fuori i nunchaku dalla cintura. “Ed il suo t-phone rotto.”
“Leo! Sensei!”
Leonardo aveva appena finito di parlare quando la chiamata
dal laboratorio fece convergere velocemente tutti in quella stanza. Raggiunsero
il viola, che si era seduto davanti al computer.
“È un indirizzo IP!” spiegò Donatello, digitando sulla tastiera.
“E questa... molto probabilmente…”
Il padre ed i fratelli gli si strinsero intorno, fissando il
monitor, che al momento visualizzava una finestra nella quale la tartaruga in
viola stava inserendo i numeri.
“… è la password.”
Donatello premette Invio
ed attese.
La finestra accettò il codice.
Per un paio di secondi tutti restarono fermi ed in silenzio,
osservando lo schermo.
Poi, un'immagine grigia e tremolante si materializzò.
Istintivamente tutti e quattro si avvicinarono al monitor, ma l'immagine era
troppo scura per poter distinguere qualcosa. Forse c'era una forma al centro,
che si muoveva…
“Cosa diavolo…”
Raffaello non fece in tempo a finire la frase che l'immagine
si schiarì di colpo. Inalò rumorosamente.
Sul monitor adesso si vedeva bene Michelangelo che, chiuso
in una gabbia di vetro, si schermava con una mano gli occhi dalla luce.
…
“C’è qualcuno? Gente?”
Il giovane mutante mascherato in arancione avvicinò il volto
al vetro, appoggiandolo sulle mani messe a mo’ di visore.
“Ehi?” gridò ancora. “Ah, ho capito! Tartaruga, vasca di
vetro… ah ah, divertente.”
Si allontanò dalla parete e fece un gesto sprezzante con una
mano.
“E l’acqua e la piccola palma di plastica?”
Adesso, in effetti Michelangelo non è che avesse tutta
questa voglia di scherzare. In realtà, se faceva lo spiritoso, lo faceva non
perché fosse lo stupido che poteva sembrare, ma per due motivi più che validi.
Primo, per distrarsi e calmare la sua stessa paura che iniziava a fargli
battere il cuore in modo decisamente più veloce del normale. Secondo, perché dato
che ovviamente lo stavano riprendendo, non voleva far trapelare al suo pubblico
– ovvero nove su dieci il suo nemico stesso – la paura di cui sopra.
“Sentite, se mi lasciate libero subito prometto di non
arrabbiarmi, okay? Vi assicuro che non volete vedermi arrabbiat…”
Interruppe il suo cianciare e si voltò di scatto al rumore
che sentì propagarsi alle sue spalle, come un tuono. Si mise istintivamente in
posizione di difesa. Ma intorno alla teca non c’era ancora niente. Abbassò
lentamente le mani agli inutili agganci vuoti della sua cintura.
Il rombo aumentò d’intensità e sembrava venire dai fori in
basso nella parete della gabbia. Michelangelo tese tutti i muscoli e sgranò i
grandi occhi azzurri, attento. I tubi di plastica fuori dalla teca si mossero
sul pavimento, dimenandosi e contorcendosi come grossi serpenti neri.
Improvvisamente da ognuno dei fori si riversò nella vasca un
potente getto d’acqua.
Il mutante sussultò involontariamente quando i quattro spruzzi
gelidi investirono le sue gambe. In pochi secondi, la teca si riempì di diversi
pollici d’acqua, che entrava schiumando rumorosamente.
“Cosa? Ehi!” Fece un paio di saltelli e si girò nuovamente
verso la telecamera. “Scherzavo, sull’acqua! Ehi!”
Urlò per superare il rumore dei getti, che rimbombava tra le
pareti di cristallo. “Sto benissimo anche all’asciutto, grazie! E poi è un po’
freddina per il mio habitat!”
Batté un paio di volte i pugni sulle pareti, e poi guardò
verso il basso, al liquido che aveva già sommerso completamente i suoi piedi.
Prese ancora il cristallo a pugni, con tutta la sua forza: era come colpire una
parete di roccia. Oltre a farsi male, non ottenne alcun risultato.
Il cuore gli accelerò ancora sotto il piastrone. Iniziava a
capire il significato della sua prigione di vetro. Di questo passo, pochi
minuti e sarebbe stato completamente sommerso dall’acqua.
…
Davanti al monitor, nel laboratorio di Donatello, alla vista
dell’acqua che si riversava nella gabbia, tutti e tre i suoi fratelli
sussultarono, quasi nello stesso istante in cui lo aveva fatto il loro fratello
prigioniero. Splinter rimase immobile, ma strinse il bastone un po’ più forte.
Scoppiò il caos.
“Che diavolo sta succedendo?”
“La vasca è chiusa?”
“Sì… Sembra di sì…”
“Quella… è solo acqua, vero?”
“Maledizione, riempiono la vasca d’acqua?”
“Quanto tempo ci vorrà a riempirla?”
“Non so, pochi minuti… Di questo passo direi… cinque, sei.”
“Dove si trova? Cos’è, un deposito? Dove…”
“Donatello, puoi rintracciare da…”
“Posso provare, Sensei…” Donatello aveva aperto una piccola
finestra all’interno della schermata un attimo prima che il suo maestro lo
chiedesse, ed adesso digitava freneticamente linee di comando.
Raffaello fece un passo indietro, agitato e fremente di
rabbia. Cercò gli occhi di Leonardo nello stesso momento in cui il fratello
diresse a lui lo sguardo. Gli occhi blu del leader esprimevano chiaramente
l’ansia per la peggiore delle sue paure.
Cosa gli stanno
facendo?
…
L’acqua saliva velocemente. Fredda come il ghiaccio, pungeva
la pelle delle gambe stringendole come in una morsa; la tartaruga adolescente
rabbrividì appena il liquido gelido arrivò al fondo del suo guscio.
Michelangelo aveva mille battute sarcastiche in mente, ma
una volta tanto stette zitto, focalizzato sulla necessità di fare qualcosa. Se
a quanto pare volevano tenerlo rinchiuso in questa scatola di vetro, avrebbe
preferito almeno che ci fosse aria piuttosto che acqua. Si piegò, andando sotto
la ribollente superficie del liquido in crescita, tentando di avvicinare una
mano ad uno dei quattro fori, ma comprese che la pressione era tale che anche
staccando le proprie protezioni alle articolazioni e fasce delle mani e dei
piedi non sarebbe riuscito a bloccare con questi l’afflusso dell’acqua. Si rimise
in piedi, con l’acqua che era arrivata ormai al busto, ed iniziò a sentire il
peso del suo corpo sollevarsi per il galleggiamento. Issò i piedi e si mise di
traverso, per cercare di fare forza premendo con le gambe davanti a lui e con
le mani alle sue spalle; grugnì per lo sforzo, si tese al massimo, ma senza il
minimo risultato. Si rialzò ancora ; l’acqua era già arrivata al collo. I piedi
si staccarono dal fondo e la pressione dei getti lo spinse verso la parete
opposta. Riprovò a forzare il vetro nello stesso modo con le altre due pareti,
spingendo sempre con le braccia e le gambe. La muscolatura tonica si gonfiò,
spinse con tutta l’energia che aveva in corpo, fino a sentire dolere i polsi; strinse
i denti e gli occhi, le vene sul collo si ingrossarono , ma il vetro non
cedette di un millimetro. Nel frattempo il livello era salito ancora e si
ritrovò sotto la superficie schiumante. Rimise le gambe in basso e la testa
fuori dall’acqua, riprendendo fiato dopo l’inutile sforzo; ormai non toccava
più il fondo con i piedi. Restò qualche secondo così, a galleggiare ansimante,
quindi batté ancora inutilmente i pugni contro il vetro, prese a calci tutte le
pareti, tornò ancora giù, cercando di colpire sui fori, sperando di trovare lì
più fragile la struttura, ma il getto dell’acqua smorzava ulteriormente i suoi
inutili colpi.
Quando tornò ancora su, la testa toccava adesso contro la
parte superiore della vasca; dovette piegare il collo per respirare. Ansimava
più forte. L’aria sembrava non bastasse quasi più a soddisfare i polmoni.
Tempestò di pugni il tetto di vetro, le mani ormai pulsanti di dolore, le
nocche gonfie e rosse.
Si fermò, impotente, ansante.
Tra poco avrebbe dovuto trattenere il fiato. Per quanto
tempo? L’avrebbero lasciato così per minuti? Ore? Iniziò ad inalare l’aria
sempre più velocemente, ogni boccata adesso preziosa perché non poteva
prevedere quanto tempo avrebbe dovuto aspettare prima di poter respirare di
nuovo. E il tremendo pensiero che da lì a poco avrebbe potuto prendere il suo
ultimo respiro anche in senso definitivo, fece capolino crudele nella sua mente
solitamente serena e positiva.
Alla fine, dovette alzare il viso verso l’alto, e qualche
schizzo d’acqua gli entrò in gola insieme alle boccate concitate. Tossì, sempre
più agitato, sempre più in affanno. Tenere la bocca fuori dall’acqua
gorgogliante divenne difficile. Iniziò ad ansimare e piagnucolare, premendo lo
zigomo contro il coperchio della teca.
Michelangelo Hamato ora poteva ammettere a se stesso che
stava iniziando a farsi prendere dal panico.
Lui era un mutante, un ibrido umano tartaruga. Sia gli
uomini che le tartarughe hanno bisogno di respirare aria, per vivere.
Tenuti troppo a lungo sott’acqua, gli uni prima, gli altri
dopo, muoiono.
A/N Ciao Tartapopolo!
Mi scuso con i vecchi amici di questo fandom per la lunga assenza,
ma diventa sempre più difficile conciliare la vita con le proprie piccole passioni;
siete e sarete sempre uno dei miei pensieri felici. Per chi non mi conosce
ancora, ehm, ciao, sono Lara Pink *agita la manina* e mi piace leggere e scrivere di tutto, anche fanfiction. Come questa,
scritta un sacco di tempo fa ma corretta soltanto adesso che l’influenza mi sta
trattenendo a casa dal lavor… ecchiù.
Ebbene, cosa succederà al nostro Michelangelo? Si vedrà tra
qualche giorno, quando pubblicherò il secondo capitolo di questa tree-shot ;)
L’universo è al solito quello 2012, ormai situato tra la prima
e la quarta stagione, a causa delle tragiche puntate che andranno in onda tra
pochi giorni negli States e che renderanno tutte le nostre storie fuori
continuity.
Niente, è incredibilmente bello essere di nuovo qui, dopo
tanto tempo. Al solito, spero che vi divertiate voi a leggerla come io mi sono
divertita a scriverla. Un abbraccio a tutti!
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