4 | I’m coming for You;
«Mi sembrava di avere un
uncino piantato sotto le costole, con qualcosa che tirava in senso opposto.
Come se fossi fisicamente legato a te, a prescindere dalla distanza.»
Julian Blackthorn
– Signora della Mezzanotte. Cassandra Clare
Jace sfiorò ammirato il manubrio della moto.
Ne
aveva visti tanti di quegli aggeggi, e l’anno prima ne aveva perfino guidato
uno, ma non si era mai sentito tanto eccitato al pensiero di possedere un mezzo
come quello.
Il
suo sguardo passò in rassegna la figura snella e lucida della moto e i tubi
sporchi di qualcosa che sembrava grasso, ma che Jace
supponeva fosse icore: dopotutto, le moto dei vampiri erano state truccate per
funzionare con motori demoniaci.
Era
per quello che Jace se n’era procurata una,
soffiandola a un imbecille dall’aria assonnata del clan di Raphael.
Nessun altro mezzo facilmente reperibile era in grado di volare così in alto. E
poi, aveva sentito dire che alcuni membri della caccia volassero con delle
motociclette anch’esse impregnate di magia nera. Probabilmente il mezzo dei
vampiri non avrebbe retto il confronto: presto o tardi Jace
non sarebbe più riuscito a stare al passo e sarebbe stato costretto a
rivelarsi, nella speranza che la Caccia lo prendesse con sé. Per il momento,
tuttavia, quella moto era più che sufficiente.
Sorrise
fra sé, prima di alzare la testa: la finestra della camera di Clary era socchiusa.
La
tristezza imperlò il volto del ragazzo, mentre le sue mani correvano a cercare
degli appigli: la sinistra accarezzò l’anello degli Herondale,
mentre quella destra si richiuse attorno a un foglietto piegato in quattro.
Era
un disegno che aveva trovato nell’album di Clary, la
runa che lei aveva tentato di nascondergli per giorni, senza tuttavia trovare
il coraggio di sbarazzarsene.
A
Jace era bastata una breve occhiata per intuirne il
significato, per percepire la forza e il pericolo sprigionati da quei tratti.
Non
avrebbe voluto rubarle qualcosa. Non era così che Clary
avrebbe dovuto ricordarlo: come qualcuno che aveva tradito la sua fiducia.
Ma
Jace sapeva che se gliene avesse parlato, se le
avesse spiegato i suoi piani, Clary non gli avrebbe
mai permesso di andarsene. Una parte di lui era certa che sarebbe comunque
riuscito a partire, ma l’altra non aveva dubbi sul contrario. In fondo, Clary era tanto cocciuta quanto lui. Probabilmente
avrebbero trovato il solito compromesso, pensò con un lieve sorriso: sarebbero
andati assieme. E Jace aveva già abbastanza colpe
sulle spalle, senza doversi addossare anche il rischio di perdere l’unica che
persona che fosse mai riuscita ad appropriarsi del suo cuore per intero.
Così
avevano dormito insieme un’ultima volta, mano nella mano, come i bambini
delle favole.
Senza toccarsi troppo, per non stuzzicare il fuoco celeste. Jace
l’aveva guardata a lungo, impegnandosi per mandare a memoria ogni dettaglio di
quel viso addormentato: il naso puntellato di lentiggini, le labbra sottili e
un po’ screpolate, le ciocche di capelli appiccicate al volto per via del
caldo.
Era
così minuta; così ordinaria. Eppure, mentre le diceva addio, era certo di non
aver mai visto nulla di più bello.
Era
la cosa più importante – l’unica in grado di giustificare ogni suo gesto più
avventato, gli sbagli commessi, i rischi che aveva preso.
L’amava
così tanto che il pensiero di perderla di nuovo gli lacerava il cuore – proprio
come la perdita di Alec gli aveva strappato via metà dell’anima – ma ormai
aveva preso la sua decisione.
Così
le aveva baciato la fronte un’ultima volta, e poi le labbra, soffermandosi a
sfiorarle una guancia.
Al
suo risveglio Clary avrebbe trovato una lettera sul
comodino, proprio come quella volta ad Alicante, quando l’aveva cercato per
ore, temendo di averlo perso.
Solo
che, questa volta, avrebbe dovuto aspettato in eterno: Jace
non sarebbe più tornato.
Inspirò
con forza, prima di appoggiarsi al fianco della moto. Notò che qualcuno vi
aveva dipinto sopra una scritta: NOX INVICTUS.
“Notte
vittoriosa” tradusse, ricordando di aver letto la stessa frase su un’altra
moto, un anno prima. Sorrise, ricordando la faccia furibonda del proprietario
quando aveva scoperto il suo scherzetto dell’acqua santa nel serbatoio. Jace l’aveva resa inutilizzabile, quindi quella doveva
essere un’altra moto, ma l’idea che potesse appartenere sempre allo stesso
vampiro lo fece ridere.
Nox Invictus, ripeté fra sé, salendo sulla moto.
Sarebbe stata una lunga notte.
Estrasse
lo stilo e lo infilò nell’avviamento: il motore rombò con furia e la vettura
incominciò a vibrare.
Un
brivido di esaltazione gli percorse la schiena. Sotto pagamento era riuscito a
farsi dare alcune coordinate dal sommo stregone del Bronx – un hippie sulla
quarantina che ricordava più un barbone che non un Nascosto – ma quello gli
aveva solo permesso di restringere il campo di ricerca. Avrebbe dovuto
setacciare ogni campo di battaglia di quella zona, ogni villaggio che si
preparava a combattere, ogni regione che puzzava di sangue ancora da spargere. Per
rintracciare la Caccia avrebbe impiegato diversi giorni, ma non gli importava.
Si
sentiva addosso l’adrenalina che precedeva ogni scontro e, quando diede gas e
la moto schizzò in avanti, il suo stomaco fece una capriola.
La vettura prese velocità, alimentando il
frastuono del motore e delle ruote, mescolati al frullio dell’aria.
Un urlo selvaggio sfuggì alle labbra di Jace nel momento in cui le ruote si staccarono da terra: la
moto prese quota, accelerando. Ormai Jace era
praticamente in verticale, così fu costretto a rinsaldare la presa sul
manubrio, piegandosi in avanti.
“Manca poco, Alec” gridò al vento, le
orecchie tese nella speranza di captare uno scalpitare di zoccoli e il suono
dei corni da caccia il prima possibile.
La runa parabatai
– ormai ridotta a una cicatrice – vibrava al contatto con l’aria
fredda, insinuatasi attraverso giubbotto di pelle: per un attimo, fu come se
fosse tornata in funzione. Come se Alec fosse ancora lì da qualche parte,
ancorato a lui attraverso il marchio. Come se potesse sentirlo.
“Sto arrivando.”
*
«Ero nel buio, aveva detto. Non
c’erano che ombre, io stesso ero un’ombra, e sapevo che ero morto e tutto era
finito, tutto quanto. Poi ho sentito la tua voce.»
Jace Herondale -
Città delle Anime Perdute; Cassandra Clare
Alec
sbatté le palpebre più volte, confuso e frastornato da tutto quel buio.
L’oscurità
aveva tolto peso e identità al suo corpo a adesso giaceva nel nulla, leggero,
come se non fosse altro che una proiezione.
Non
c’erano indizi, intorno a lui. Non c’erano luci, né colori.
Ogni
tanto intravedeva qualche ombra – lui stesso ne era una – ma svanivano in
fretta, così come i pensieri.
Era
come emergere da un lungo sonno, come avere l’impressione di cadere nel vuoto e
svegliarsi di soprassalto, sfuggendo al torpore dell’incoscienza.
Poi
arrivava la confusione, lo stordimento di chi si trova a metà fra il sogno e la
veglia.
Infine,
si giungeva alla consapevolezza: era stato tutto un sogno, una reazione
involontaria del proprio corpo.
A
poco a poco, Alec realizzò cosa gli stava capitando: se lo sentì fluire dentro
con la morbidezza di un fruscio d’ali.
Era
tutto finito, tutto quanto. Il buio era la sua nuova casa.
E
in quanto a lui… lui era morto.
Il
suo corpo – o l’ombra di quello che un tempo era stato un corpo – trasalì, ma
questa fu l’unica reazione che riuscì a ottenere.
Cercò
di spaventarsi, di ricordare, di provare tristezza per ciò che gli era
capitato, ma era come se le normali funzioni che l’avevano caratterizzato da
vivo fossero fuori uso.
Rimase
nel buio – solo ed immobile – per quelli che gli parvero secondi, o forse ore:
aveva perso anche la concezione del tempo.
E
poi udì una voce.
Sembrava
giovane e chiaramente maschile: lo stava chiamando, e più parlava più il buio
intorno ad Alec incominciava a svanire e il suo corpo prendeva consistenza.
“Jace?” mormorò, strizzando gli occhi.
Fu
come se, tutto a un tratto, l’alba si fosse ricordata di spuntare.
Perfino
il silenzio si attenuò, lasciando spazio ai primi rumori di sottofondo: il
fruscio dei vestiti, lo strisciare dei suoi talloni contro il pavimento, un
rumore di passi in lontananza.
“Jace, sei tu?”
Un’ombra
emerse dalla semi-oscurità, avvicinandosi fino a raggiungere sembianze umane:
era la figura di un ragazzo, in apparenza poco più grande di lui.
Gli
assomigliava perfino, si sorprese a pensare non appena il giovane lo raggiunse.
Aveva i suoi colori – capelli neri un po’ arruffati e vivaci occhi azzurri – ma
c’era qualcosa di completamente diverso nella sua espressione. Aveva un sorriso
allegro e canzonatorio, zigomi alti e ciglia lunghe. Come se tutto questo non
bastasse, gli aleggiava attorno un’aura di distratta eleganza che lo rendeva
incredibilmente attraente – e, a giudicare dalla sua espressione, sembrava
esserne consapevole.
“Sbagliato”
esclamò il ragazzo, rivolgendogli un sorriso sghembo. “Ma ci sei andato
vicino.”
Alec
aggrottò le sopracciglia, studiandolo circospetto. C’era qualcosa di lui che
gli era familiare, ma non riusciva a ricondurlo a nessuna persona di sua
conoscenza. Forse erano gli occhi: avevano la stessa tonalità dei suoi.
Magari
il ragazzo era un antenato dei Trueblood, oppure un Lightwood: dopotutto, anche i suoi genitori avevano gli
occhi azzurri.
“Sei
in vena di insulti, ragazzino?”
La
voce dello sconosciuto s’inasprì.
“Certo
che non sono un Lightworm!”
Alec
trasalì.
“Puoi
leggermi nella mente?” farfugliò, prima di rivolgergli un’occhiata confusa.
“Aspetta, hai detto Lightworm?”
“Chiunque
potrebbe farlo” ribatté il giovane, le labbra increspate in un sorrisetto
beffardo. “I tuoi pensieri sono di pubblico dominio, adesso: le anime non hanno
un corpo, quindi i loro pensieri svolazzano qua e là.”
“Perché
allora io non posso leggere i tuoi?” osservò Alec, un po’ seccato.
“Per
poterlo fare dovresti trovarti dove mi trovo io” spiegò il ragazzo,
indicandosi. “Quello che stai vedendo – e apprezzando, senz’altro – in realtà
non è altro che una proiezione. La mia anima si trova in una delle Dimensioni
Celesti più interne, ma quelle come la tua non possono superare i confini di
Annwn, che è il cerchio più esterno del Paradiso.”
Alec
si portò le mani alle tempie, sempre più confuso. Era davvero a un passo dal
Paradiso? E dove diamine si trovava Annwn? Forse non aveva più un cervello,
ma lo sentiva comunque sovraccarico.
“Le
anime come la mia?”
Lo
sconosciuto annuì.
“Quelle
che non sono libere di andare avanti.”
Alec
scosse la testa.
“Chi
sei?” scelse di domandare, mettendo da parte gli interrogativi più complicati.
Il
ragazzo tornò a sorridere compiaciuto.
“Mi
chiamo Will” rivelò, mettendosi le mani in tasca. “Will Herondale:
suppongo che tu abbia sentito parlare di me. Tutte cose belle, ovviamente.”
Alec
avvertì un fiotto di calore all’altezza delle guance. E così era quello, il
famoso Will. Con tutte le persone che avrebbe potuto incontrare da morto,
proprio lui doveva capitargli?
“Un
Herondale” ripeté, rimuginando sul suo cognome: lui e
Jace erano parenti, seppur distanziati da diverse
generazioni.
Will
allargò le braccia.
“Certo, non si vede?” esclamò,
sistemandosi il colletto della camicia. “Bellezza illegale, capelli perfetti…”
Alec
sbuffò; un moto di rabbia, mista a invidia lo attraversò, mentre lo esaminava
con maggiore attenzione: di certo non poteva negare che fosse bello.
Il
sorriso di Will si estese.
“Così
mi lusinghi” lo beffeggiò, facendolo arrossire ulteriormente. “Immagino che
competere con il fascino degli Herondale non sia
facile.”
“Sei
proprio come Jace” sbottò Alec, mettendosi a braccia
conserte. Una fitta di dolore gli percorse il petto, nel momento in cui
pronunciò quel nome. D’istinto si scoprì l’avambraccio, per cercare la runa parabatai: non c’era più. Era svanita, così come gli
altri marchi.
Un
vuoto improvviso gli echeggiò dentro, facendolo rabbrividire.
“Jace…” mormorò ancora, premendosi l’avambraccio: fu come
morire una seconda volta.
Jace non era più il suo parabatai.
Will
lo studiò per qualche istante, lo sguardo insolitamente comprensivo.
“Lo
vedrai ancora” promise, portandosi a sua volta una mano dietro la schiena. Alec
non ebbe bisogno di leggergli la mente per intuire che in quel punto, un tempo,
doveva esserci stata la sua runa parabatai.
“Prima o poi, arriveranno tutti. Jem e Jace, la mia Tessa… E anche il
tuo Magnus.”
Ancora
una volta, il dolore travolse Alec. Le ginocchia gli cedettero, schiacciate dal
peso improvviso dei ricordi.
“Magnus”
ripeté in un sussurro, gli occhi umidi di lacrime.
Sentì
mormorare il suo nome dal nulla che li circondava: erano i suoi pensieri che
echeggiavano. Il dolore gli bruciò dentro ancora per qualche istante, poi si
allontanò, così come avevano fatto i suoi ricordi.
Fu
un sollievo realizzare di non poter provare nulla di troppo intenso troppo a
lungo: non quando non aveva più un corpo, né una mente in cui contenerli.
Will
lo fissò per qualche istante, le braccia conserte e l’aria pensosa.
“Se
può farti stare meglio…” incominciò,“…Non credo che tu ti debba crucciare per chi ha occupato il
suo cuore in passato. O per chi potrebbe occuparlo in futuro.”
Alec
lo guardò con gratitudine: era sorpreso da quell’improvviso cambio di tono.
“Grazie”
mormorò, abbozzando il primo sorriso.
Will
minimizzò con una scrollata di spalle.
“Sei
un Lightworm, ma hai gli occhi di Cecy” rispose, scrutandolo attento. “E il tuo parabatai è un Herondale:
dubito che sarai mai alla nostra altezza… Ma non
posso odiare più di tanto uno così.”
Un
po’ più rilassato, Alec incominciò a guardarsi intorno: si trovava in una
stanza piuttosto ampia, decorata in stile gotico. Il soffitto era intervallato
da archi e una serie di travi era stata affissa ad almeno sei metri dal
pavimento. Un sorriso accarezzò le labbra di Alec: era una delle tante sale di
addestramento dell’Istituto. Che si trovasse ancora a New York, in fin dei
conti?
“Dici
che non posso andare avanti” ricordò, voltandosi verso Will. “Significa che
sono un fantasma?”
Tutto
a un tratto si sentì speranzoso.
“Non esattamente” rispose Will, tornando
a mettersi le mani in tasca. “I fantasmi sono quelle anime che rimangono sulla
Terra, a volte per via di faccende in sospeso, altre perché sono terrorizzate
dall’idea di andare oltre. Ma tu sei uno Shadowhunter:
ti hanno cresciuto insegnandoti che la morte va affrontata con onore. No, se sei
bloccato ad Annwn è perché qualcuno ti sta trattenendo: un vivente che non è
pronto a lasciarti andare e che sta cercando in tutti i modi di riportarti
indietro.”
“Magnus?”
azzardò istintivamente Alec.
Will
gli sorrise.
“Magnus è immortale: ha vissuto a lungo
ed è più saggio di quanto lui stesso non creda” spiegò, con un’improvvisa
sfumatura di dolcezza nella voce. “Sa quanto dannoso potrebbe essere per la tua
anima, se si ostinasse a trattenerti. No, si è imposto di lasciarti andare”
rivelò, la tristezza a coprire un po’ della vivacità nei suoi occhi. “Non è
stato facile e di certo non posso dire che stia bene…
Ma non è lui che ti tiene bloccato.”
Alec esitò, il dolore improvvisamente
presente mentre ricordava i volti elle persone a lui care.
Pensò a Isabelle, a come perdere Max
l’avesse distrutta: non poteva nemmeno immaginare quanto stesse soffrendo.
Tuttavia, non fu il suo nome a sgorgargli
dalle labbra.
“Jace” mormorò,
senza più incertezza. Non aveva bisogno di conferme: non poteva essere che lui.
Solo Jace non
si rassegnava mai di fronte all’evidenza; specialmente quando si sentiva
responsabile per qualcosa.
Will annuì.
“I
tuoi pensieri nei suoi confronti non sono particolarmente lusinghieri” osservò
poi, inclinando appena la testa.
Ancora
una volta, Alec si sentì arrossire. Si chiese se fosse normale, per i morti:
non erano sempre pallidi e freddi?
“Forse sono un po’ arrabbiato con lui”
ammise, sfiorandosi l’avambraccio: non si era ancora abituato all’assenza della
runa parabatai. “Mi rendo conto di essere
ingiusto e so che non è stata colpa sua, però…”
Un dolore sordo gli pervase il petto:
aveva provato la stessa sensazione poco prima di morire. Era come se qualcuno
lo stesse strattonando dall’interno, come se Jace stesse
cercando di strappargli via la parte di anima che gli aveva affidato.
“Quando sono morto lui era lì” ricordò,
vergognandosi del risentimento che avvertiva. “Ha cercato di uccidermi.”
“È una conseguenza del legame parabatai” spiegò Will, sedendosi su una delle panche.
“La confusione che provi. Sai perfettamente che Jace
non aveva scelta, quando ti ha attaccato: la sua volontà era legata a quella di
Sebastian. Ma due parabatai non dovrebbero mai
combattere su due fronti opposti, ed è per questo che la tua anima si sente
tradita.”
“Jace non mi ha tradito” ribatté risoluto Alec, prima
di indirizzargli un’occhiata sorpresa. “Aspetta… Hai
detto era?”
Will annuì.
“È tornato se stesso” rivelò, guardandosi
le dita affusolate. “La Gloriosa ha reciso il loro legame e Sebastian è morto
per via del fuoco celeste.”
Il sollievo cancellò le poche tracce di
risentimento rimaste in Alec, incuneandosi fra gli spazi lasciati vuoti dalla
confusione. Immaginare i suoi fratelli insieme e al sicuro da Sebastian riuscì
a rincuorarlo almeno in parte.
“Non tormentarti per quello che ha
fatto quando non era in sé” proseguì Will, intrecciando le dita dietro la nuca.
“Piuttosto, pensa a ciò che sta facendo ora: le sta provando davvero tutte per
riportarti indietro.”
“Ma non si può” osservò Alec, aggrottando
le sopracciglia. “Voglio dire, a lui è successo, ma era una cosa diversa: Raziel l’ha riportato in vita. Non è una cosa che può
succedere una seconda volta.”
“Mai dubitare di un Herondale,
Lightworm…” commentò Will, un sorriso
compiaciuto ad arricciargli gli angoli delle labbra.
“Smettila di chiamarmi Lightworm!” sbottò Alec, prima
di scivolare giù dalla panca, gli occhi improvvisamente serrati: si aggrappò al
braccio destro, travolto dal dolore.
“Fa male…”
gemette, curvandosi su se stesso.
Will si accovacciò al suo fianco.
“Adesso passa” mormorò, con lo un tono di
voce morbido che ricordava quello con cui ci si rivolge ai bambini. Solo che, sulle
sue labbra, suonava quasi di scherno.
Aveva ragione, tuttavia: il dolore
attanagliante sparì nel giro di pochi secondi.
Lentamente, Alec si tirò a sedere,
inspirando a fatica.
“Dove l’hai sentito?” domandò incuriosito
Will. “Ogni anima sente male in un punto diverso.”
Alec gli rivolse un’occhiata cauta, prima
di tastarsi l’avambraccio destro.
“È dove avevo la runa” mormorò, senza
specificare a quale marchio si stesse riferendo; Will sembrò capire lo stesso.
“Ha senso” replicò, tornando ad alzarsi. “Quello
che hai provato non è altro che il tentativo disperato di un vivente di
ancorarsi a te. Qualcuno, là sotto, sta cercando di riportarti in vita.”
“Jace” chiamò
apprensivo Alec, la mano ancora avvolta intorno all’avambraccio. D’istinto si
guardò intorno, come se sperasse di vederlo spuntare fuori da un momento
all’altro. “Quello che sta facendo è pericoloso?” chiese, tornando a fissare
Will. “Rischia di farsi del male?”
“Tutto quello che ha a che fare con la
morte è pericoloso” rispose lui, stringendosi nelle spalle.
Alec
tornò a inspirare con forza, le ginocchia strette al petto.
“Voglio
tornare a casa” pronunciò con un filo di voce, scuotendo la testa. “Voglio la
mia famiglia al sicuro.”
“Non hai più una casa” gli ricordò Will.
“Allora voglio andare da mio fratello” replicò
Alec, alzando il tono di voce. “Voglio vedere Max. Anche lui è qui, no?”
Ancora una volta, Will scosse la testa.
“Il piccoletto è andato avanti” rivelò,
sorridendo appena. “Tu non puoi raggiungerlo, ma lui può venire da te, così
come ho fatto io.”
Un barlume di speranza tornò a illuminare lo
sguardo di Alec.
“Quando posso vederlo?”
Will indicò il corridoio con un cenno del capo.
Da quella parte – Alec lo sapeva – l’Istituto ospitava le camere dei Lightwood.
“Anche adesso” rivelò il giovane Herondale, guidandolo verso la porta. “Vieni con me: ti sta
aspettando.”
*
Il rombo del motore
accompagnava le sue orecchie ormai da qualche giorno, abbracciato dal turbinio dell’aria.
Jace volava senza sosta,
interrompendosi solo per mangiare e, di tanto in tanto, per dare un’occhiata
alle coordinate lasciategli dallo stregone.
Aveva attraversato vari
continenti, inseguendo la scia della battaglia e della devastazione. Nel corso
degli ultimi giorni aveva osservato la morte in ogni sua sfaccettatura: soldati
sporchi di sangue nemico e di quello dei compagni di squadra, civili indifesi,
attentati, clan di Nascosti in combutta gli uni con gli altri.
Nulla lo scalfì a tal
punto da spingerlo a cambiare idea: l’adrenalina della ricerca, la velocità, la
sensazione di non appartenere più a nulla e a nessuno se non alla missione che
si era scelto… Ogni dettaglio di quei momenti aveva
il potere di azzerare i pensieri, aiutandolo a focalizzarsi sull’unica cosa
veramente degna della sua concentrazione.
Dopo cinque giorni di
ricerca, quelle scorribande sul filo della morte diedero finalmente i loro
frutti.
Jace, che si era concesso un
paio d’ore di riposo, era stato svegliato da uno scalpitare di zoccolo: Era
lontano e ricordava più un lento scrosciare, come il suono di una cascata.
Pochi secondi più tardi
era già in piedi, lo sguardo rivolto verso il cielo annerito: un esercito di
puntini luminosi cavalcava tra le nuvole, accompagnati da grida esultanti. Il
suono di un corno annunciò l’avvicinarsi dei Segugi di Gabriel, mentre le
stelle impallidivano e il cielo sembrava contorcersi, deformato dall’irruenza
delle figure a cavallo.
Si muovevano in fretta,
ma Jace non se ne preoccupò: era certo di poterli
raggiungere.
Un sorriso appagato si
arrampicò sulle sue labbra, mentre tornava in sella e tirava fuori lo stilo.
Infine mise in moto,
l’adrenalina che gli bruciava in corpo.
Presto avrebbe cavalcato
il vento fino a raggiungere i confini del mondo.
Presto si sarebbe unito
alla Caccia Selvaggia.
Note
Finali.
Buongiorno
e buona domenica! Con il ritardo che mi caratterizza arrivo finalmente a pubblicare
il nuovo capitolo! In questa parte ho un sacco di cose da dire, in particolare
per quanto riguarda il dialogo fra Alec e Will! Will qui ha l’aspetto di un
giovane, anche se noi sappiamo che in realtà è morto da anziano. Mi piaceva
l’idea che la sua anima avesse assunto le sembianze del Will giovane anche
perché mi sembra di ricordare che Tessa diceva che, pur invecchiando, lei lo
vedeva sempre come un ventenne o giù di lì. Per quanto riguarda il signorino Herondale, so che lo troviamo un po’ diverso – e fin troppo
gentile con Alec xD – rispetto a come abbiamo
imparato a conoscerlo nei libri, ma mi sono basata un po’ di più sul Will
adulto che ci viene mostrato nelle Cronache dell’Accademia piuttosto che su
quello delle Origini. Inoltre, confido che la morte e queste centinaia di anni
trascorse a sbirciare le vite di chi è rimasto lo abbiano cambiato almeno un
tantino!
Un’altra
cosa che ci tengo a sottolineare è la questione del legame parabatai:
Alec non è davvero arrabbiato con Jace. Tuttavia,
poiché le loro anime sono vincolate assieme dal giuramento di morire l’uno per
l’altro, quella di Alec si è sentita in un certo senso tradita nel momento in
cui Jace si è schierato contro di lui, nel momento in
cui Sebastian l’ha attaccato. Il risentimento provato da Alec, è irrazionale ed
è una conseguenza del meccanismo parabatai,
ma ha vita breve: già dal prossimo capitolo verrà sottolineato quanto il
legame fra Alec e Jace sia ancora forte, nonostante
la morte li abbia separati.
Il
prossimo capitolo è un altro di quelli a cui tengo di più e avrà parecchi
riferimenti a Lady Midnight. Si parlerà molto della
Caccia Selvaggia Di nuovo, come nel capitolo scorso, ci saranno parecchi
parallelismi con la trama originale. Faranno comparsa alcuni personaggi che
conosciamo già e rivedremo ancora Alec!
Volevo
ringraziare infinitamente le tre persone che hanno recensito lo scorso
capitolo! Mi avete resa felicissima, non so come ringraziarti! Questa storia
significa tanto per me e sono davvero contenta che qualcuno la stia
condividendo con me! Grazie ancora! A breve passerò a rispondervi!
A fra due settimane per il prossimo capitolo!
Laura