Tomba di fuoco

di stellumicans
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La processione del funerale di suo padre fu lunga e noiosa. Di notte, poco prima dell'alba, il corpo fu messo su una barra di legno, dipinta d'oro e intagliata da narcisi e da foglie d'alloro. Una donna, vestita di nero e con in mano un vaso di vino misto a miele e acqua, guidava la folla verso la necropoli, mentre dietro di lei altre donne della famiglia si battevano il petto e si tiravano i capelli. Gli uomini più forti dell'isola portavano in spalle la bara con il corpo, dato che a Psittalea non c'erano carri – non ce n'era bisogno. La processione era chiusa da cantori e flautisti che intonavano melodie funebri, e ai lati giovani portavano in mano torce per far luce. I cittadini, vestiti dei loro abiti migliori, camminavano lentamente, passo dopo passo, con la testa bassa. Ognuno di loro aveva portato doni, libagioni e miseri gioielli per ricordare il caro Athanasio, il più mite e dolce dei re. L'isola era vuota, come se fosse passata la Morte per ogni casa.

Athanasiade stava in mezzo alla folla, tra le coefore e il corpo di suo padre, vestito di una lunga tunica nera che gli arrivava fino alle caviglie e gli rendeva difficile il camminare. Anche lui procedeva a testa bassa, tenendo in mano la corona del re ed il suo scettro. Aveva ricevuto, dall'inizio della processione, molte condoglianze e pacche comprensive sulla spalla. Era soprappensiero, sì, ma non gli interessava l'anima di suo padre, bensì quella di Glice. Che cosa stava facendo lui, adesso? Sopportava il caldo, in quella cella stretta ed opprimente? Gli avevano portato da mangiare? Era riuscito a dormire, sapendo che domani si sarebbe svegliato per l'ultima volta? Teneva la corona in mano stretta, quasi tagliandosi con i suoi bordi affilati. Glice era cambiato, in quei pochi giorni, diventato più teso, più serio. In fondo il sangue ha questo effetto su chi si bagna di esso. Oh, Glice, Glice. Che cosa ti ho fatto?

Diede un'occhiata tra la folla, in cerca di Menodora e Policarpo, ma non si vedevano da nessuna parte. La famiglia di Glice era tenuta in gran rispetto a Psittalea, ed oltre ad avere il privilegio di curare l'educazione della casata reale, erano partecipi di ogni banchetto che il re organizzava e da sempre si arrangiavano matrimoni tra le due famiglie. Menodora stessa, sua madre, era amata in particolare dagli abitanti, quasi quanto Glice, per aver dato vita al raggio di sole che ogni giorno passeggiava per la città, cantando e recitando.

Da quando si diede notizia che le guardie lo avevano trovato nella stanza del re, con un pugnale in mano e la tunica insanguinata, non erano più usciti di casa, e in città molti dicevano che fossero scappati di notte a Salamina, per la vergogna di quello che Glice aveva fatto. Altri invece sognavano complotti e contese tra famiglie, dicendo che Menodora stessa avesse incaricato il figlio con la morte del re, affinché la loro famiglia potesse prendere sopravvento. Ormai sull'isola restavano solo lontani cugini e parenti che negavano l'appartenenza alla famiglia e insistevano di aver sempre saputo che c'era qualcosa di marcio in Glice.

Arrivarono alla necropoli quando il sole stava di già sorgendo. Deposero il suo corpo su una lastra di pietra nella tomba reale e, uno ad uno, il più anziano di ogni famiglia entrò nel sepolcro e lasciò i propri tributi attorno al re. Ad Athanasiade fu chiesto di tagliarsi una ciocca di capelli e deporla sul corpo, cosa che fece con non poco disgusto.

Dopo che le libagioni furono versate, un uomo si fece avanti, schiarì la voce e recitò, davanti agli anziani e ai parenti del re:

«Quale dolore ha conquistato gli animi di noi semplici mortali,
quale dolore! Da quando tu, Athanasio, 

hai abbandonato il tuo trono dorato per la cinerea dimora che è l'Ade...»

Athanasiade fece una smorfia. Chi era questo? Glice non avrebbe mai scritto qualcosa del genere, qualcosa di così banale e melodrammatico. Glice avrebbe saputo comporlo sul momento. Avrebbe solo guardato il volto grigio di Athanasio o le sue mani o i suoi vestiti o la palpebra destra, e subito sarebbe stato in grado di eseguire il più toccante e commovente elogio mai sentito dagli abitanti di Psittalea, come se fosse lui stesso figlio di Athanasio. Ed era come se lo fosse: il re era affezionato a lui, e gli chiedeva spesso, da quando aveva scoperta la sua abilità innata per la poesia, di comporgli e recitargli poesie. Da sempre era rimasta una decisione sottintesa e ovvia che sarebbe stato lui a comporgli anche l'elogio.

Ma Glice non poteva più farlo, e avevano dovuto chiamare questo dilettante.

«...figlio di Santippo, a sua volta figlio di Teofilacto,
lasci qui, figlio, Athanasiade, somigliante a te
in viso e carattere, mite e bonario come il mare che...»

Athanasiade dovette trattenere un'altra espressione di disgusto. Per cosa si meritava, suo padre, un elogio? Non era un eroe di guerra – Psittalea non aveva neppure un'armata: era troppo spoglia e misera per necessitarla – né aveva mai partecipato ai giochi Olimpici. C'erano numerosi uomini sull'isola che si meritavano elogi: l'anziano Diocle – che si diceva fosse così anziano d'aver partecipato alla guerra di Troia – morto annegato cercando di salvare il pronipote; Trifone – il vecchio e abile dottore dell'isola – morto dopo aver contratto una malattia che stava cercando di curare. Perfino il caro Cleito, che aveva curato così diligentemente l'educazione di tre generazioni di principi, si meritava un elogio quando era morto. Perfino Glice se lo meritava. Ma suo padre? No. Era solo un uomo che era per caso nato da un re, anche lui uomo nato da re. Suo padre non aveva mai fatto niente. Niente di niente.





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