Tomba di fuoco

di stellumicans
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Trascorse i seguenti cinque giorni nella sua stanza, le finestre coperte, la porta serrata e custodita per la maggior parte del tempo. Da fuori sentiva, a stento, rumore di navi e soldati in marcia. Era riuscito a farsi dare notizie da una delle guardie: i Persiani si erano accampati in città in preparazione di una spedizione militare contro Atene, a causa di chissà quale offesa subita dal Gran Re. Era straziante. Tutto quello che avesse mai sognato, a pochi passi dalla sua porta.

Suo padre aveva avuto ragione: Glice era più che contento di fargli compagnia. Recitava su sua richiesta i suoi episodi preferiti e, a volte, riusciva a intromettere anche Athanasiade stesso, facendogli fare la parte di Agamennone o di Creonte o di qualunque altro megalomane che lui preferiva. A pranzo inventava filastrocche e cantilene basandosi su qualunque piatto gli fosse servito, e in cambio Athanasiade gli illustrava famose battaglie, usando fichi e ossa di pesce. La notte si baciavano, castamente – senza fretta, senza furia – con una coperta di lino che gli separava e le mani serrate. Erano cresciuti, ormai quasi uomini, ma niente era cambiato.

La quarta sera, una guardia gli riferì che i Persiani stavano per andarsene, e che la sera seguente si sarebbe schiarito tutto ("Di già?" "Di già"). Tornò al suo posto vicino a Glice con un nuovo ardore dentro. Suo padre l'aveva, per un'altra volta, tenuto lontano dalla grandezza che Athanasiade sapeva di possedere.

«Di cosa parlavi con quella guardia? Cos'è successo?»

«Niente. Tieni, mangia» disse, e porse i piatti di cibo ai suoi piedi, sedendosi vicino a lui.

Glice prese incurante una sardina e la buttò in aria, prendendola poi con la bocca. «Ascolta qua.» Finì di masticare e cominciò a poetare. Era sempre di sera che diventava più romantico.

«Alba nemica degli amanti, perchè sorgi così in fretta
quando sono sotto le sue braccia?
Non puoi girarti, tornare indietro ed essere notte,
e cessare quella luce che come veleno sgorga nella mia stanza?
Non puoi aspettare a gettare la tua luce sui nostri—»*

«Glice?»

Glice si fermò. «Sì?»

«Tu mi ami?»

«Certo che ti amo.»

Athanasiade aveva smesso di essere sorpreso dalla sua sincerità. Glice non esitava; lo diceva con così tanta convinzione che si domandava perchè l'avesse chiesto. Lui non ci riusciva. Negli anni in cui si erano divertiti a baciarsi nescosti dentro a sgabuzzini o dietro ai cespugli che crescevano fitti vicino a casa sua, Athanasiade non gli aveva mai detto di amarlo. Forse perchè credeva non fosse vero. Forse perchè sapeva che se l'avesse detto, tutto sarebbe diventato molto più reale. Ma Glice aveva sempre risposto così, ed avrebbe sempre risposto così.

Si alzò dal suo posto e si avvicinò al suo letto, filando la mano sotto il cuscino. Tirò fuori un pugnale con il manico d'oro. Lo pose a Glice. Aveva preparato un intero discorso per fargli intendere quello che voleva e per convincerlo ma ora, nel silenzio di quella stanza, Glice sembrava, per una volta, capire.

«Mio padre dorme senza serrare le porte, e le guardie si fidano di te. Mi inventerò qualcosa da dire quando ti troverano, non lascerò che ti succeda niente.» Glice non rispondeva, lo sguardo che si muoveva tra il pugnale e lui. «Ti prego.»

«Perchè?»

«Perchè tu mi ami.»

La quinta sera, Glice entrò nella stanza del re.

Athanasiade fu destato il sesto giorno da un'ancella: poteva finalmente uscire. Disse di non aver idea di come il pugnale ricevuto in regalo da suo nonno fosse finito tra le mani di Glice o tra le costole del padre.

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*poesia basata sul frammento 172 di Meleagro di Gadara





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