Buonasera merliniani! :)
Vorrei tanto avere un giorno fisso per gli aggiornamenti, ma purtroppo
lavorando non posso permettermi questo lusso, peciò spero mi
perdonerete se a volte ritardo un po'.
Comunque questo capitolo è bello ricco: vedremo le reazioni
di Merlino e Alex dopo il loro ultimo incontro al bar, il famoso
galà di beneficienza (si è tenuto davvero, un
paio di anni fa, ed erano anche circolati dei rumors sul Principe
William e Taylor Swift) e nel finale... beh, questo non ve lo spoilero
;)
Ringrazio tutti per aver letto e commentato lo scorso capitolo e vi
auguro un'ottima settimana!
Vostra,
_Pulse_
__________________________________________________________________
19. Sweet
dreams
Era tornato il gelo.
Non in senso letterale: le temperature di Londra erano fin troppo nella
norma, ora che il cielo si era annuvolato e una sottile pioggia
sembrava non voler dar tregua alla città.
Era tornato il gelo tra Alex e Merlino.
L’aveva scoperto quella mattina, quando Alex non si era
presentata a far colazione nella loro suite – lei che giusto
la sera prima si era mostrata tanto entusiasta all’idea
– e Merlino invece di esserne sorpreso aveva scrollato le
spalle e in silenzio era tornato a rintanarsi nella propria camera da
letto con uno dei vassoi.
Rimasto solo e senza più appetito nel grande salotto della
suite, Artù aveva deciso di scoprire che cos’era
successo tra loro.
Merlino non aveva aperto bocca in proposito, anzi l’aveva
proprio ignorato. Sperava che almeno Alex fosse più propensa
a sfogarsi.
Bussò rapidamente alla porta della suite e dovette aspettare
un po’, prima di sentire la serratura interna scattare. Alex
aprì la porta quel tanto che bastava per vedere chi ci fosse
dall’altra parte e al contempo nascondere ciò che
aveva alle spalle. Ad Artù quel particolare non
sfuggì, come non sfuggirono i suoi occhi gonfi ed arrossati,
segno inconfutabile di un pianto recente.
«Giuro che lo ammazzo», mormorò a se
stesso come promemoria. Quindi rivolse un tenero sorriso ad Alex, ma
questa lo interruppe ancor prima che potesse aprire bocca.
«Mi dispiace per la colazione, ma non è un buon
momento».
«Che cos’è successo?», le
chiese e fece per entrare, posando una mano sul legno della porta; Alex
però oppose resistenza, rendendo ancora più
sottile la fessura che gli permetteva di intravedere la sua figura
nella semioscurità della stanza.
«Alexandra? Fammi entrare, per favore».
La ragazza scosse lentamente il capo, mordendosi le labbra.
«Mi vuoi dire che cosa ti prende? Sto iniziando a
preoccuparmi», sbottò Artù.
Non ottenendo alcuna risposta, perse definitivamente le staffe. Dando
un colpo deciso alla porta riuscì a farla indietreggiare
quel tanto che gli permise di intrufolarsi nella suite e di rimanere
sbigottito di fronte al disastro che vi regnava. Era tutto a soqquadro,
come se un tornado avesse deciso di fare una breve sosta nel salotto,
ribaltando il divano e la poltrona e frantumando qualsiasi oggetto di
vetro o ceramica presente– tra cui il tavolino intorno al
quale avevano cenato la sera prima – per poi continuare per
la propria strada, ignaro della distruzione che aveva arrecato.
Mentre Artù cercava invano di unire i puntini,
l’asta di sostegno delle tende si staccò
definitivamente dalla parete e cadde a terra, facendo entrare nella
stanza la luce di quel giorno piovoso.
«Come diavolo…?», iniziò a
chiedere voltandosi verso Alex, ma non riuscì più
a continuare: le parole gli morirono in gola, guardando i suoi occhi di
nuovo lucidi di lacrime e le sue spalle scosse da silenziosi singhiozzi.
«Non volevo. Te lo giuro Artù,
è… è successo, non ho potuto
fermarlo».
Piangendo, lo abbracciò ed affondò il viso nel
suo petto. Artù si guardò intorno ancora una
volta, incredulo che Alex fosse stata davvero l’artefice di
quel di disastro, poi si fece forza e respirando profondamente la
strinse a sé, posandole un bacio tra i capelli spettinati.
Ci volle un po’ prima che si calmasse. Artù la
fece sedere sul divano – dopo averlo risistemato al suo posto
ed aver tolto decine di frammenti di vetro dai cuscini – e
con calma la invitò a spiegarle che cosa l’aveva
portata a reagire in quel modo.
All’inizio fu comprensibilmente restia, poi si arrese
all’evidenza di aver un disperato bisogno di confidarsi con
qualcuno e gli raccontò tutto: di come una settimana prima
aveva rivelato ancora una volta a Merlino di amarlo
incondizionatamente, di quello che le aveva detto il mago a proposito
del suo desiderio di riposo dopo che il loro destino si fosse compiuto
e delle molteplici confessioni che le aveva fatto la sera prima, al bar
dell’hotel. Era stato troppo, semplicemente, e non era
più riuscita a tenersi tutto dentro. I suoi sentimenti
– la rabbia, la paura, la frustrazione – erano
stati i canali che la magia aveva sfruttato per tornare libera.
Quando finì il proprio racconto, Artù aveva
almeno un milione di pensieri e di preoccupazioni che gli affollavano
la mente. Per questo decise di procedere per priorità:
numero uno, la sicurezza di Alex.
Dopo averle preparato una tazza di tè usufruendo della
piccolo bollitore in dotazione nella suite, le disse di rilassarsi ed
aspettarlo lì.
«Dove vai adesso?», gli chiese, tesa come una corda
di violino.
Artù sospirò, abbassando le spalle. «Da
Merlino. Deve sapere quello che è successo qui dentro, lui
è l’unico che
può…».
«No». Alex si alzò di scatto dal divano,
senza trovare nessun posto a portata di mano dove poter lasciare la
tazza di tè. La tenne quindi tra le mani, aggiungendo:
«Non farlo, ti prego. Se dovesse scoprirlo potrebbe lasciarmi
qui mentre voi questa sera andrete al galà, oppure potrebbe
decidere che nessuno di noi ci andrà. Non possiamo
rischiare».
Artù ebbe come la sensazione che si stesse arrampicando
sugli specchi, come se non gli avesse detto tutto e avesse paura della
reazione di Merlino per un altro motivo, ma non lo diede a vedere.
«Ma visto che è Merlino che paga il conto
dell’albergo, penso proprio che debba essere avvisato delle
condizioni in cui si trova questa camera».
Detto questo si voltò ed uscì dalla porta, senza
dare il tempo ad Alex di obiettare nuovamente.
***
Artù era piombato in camera sua nello stesso momento in cui
aveva deciso di alzarsi dal letto ed affrontare la giornata, invece di
lasciare che gli scivolasse addosso.
Con Alex la sera precedente era stato un vero e proprio disastro: non
aveva risolto pressoché nulla e aveva addirittura ottenuto
un altro grattacapo, ma piangersi addosso era del tutto inutile.
Artù lo colse con i jeans infilati per metà e
anziché arretrare per l’imbarazzo come credeva
avesse fatto, non se ne curò minimamente e col fiatone
esclamò: «È successo ancora».
Merlino lo fissò e tirò su la schiena,
abbottonandosi i jeans. «Avete fatto le scale invece di
prendere l’ascensore? Sapete che non dovete sforzarvi,
potreste avere un attacco in qualsiasi momento».
«Merlino, hai sentito quello che ho detto? È
successo ancora!».
«È successo ancora
cosa?!»,
gridò a sua volta lo stregone, lanciandogli
un’occhiata spazientita.
Artù fece un respiro profondo, massaggiandosi le tempie.
«Alex ha usato di nuovo la magia, senza volerlo, e la sua
camera è ridotta male, molto male».
Il cuore gli schizzò in gola, battendo
all’impazzata. Ma prima che potesse dire qualsiasi cosa, il
re di Camelot aggiunse: «È come con Morgana. Devi
aiutarla, Merlino».
Il nome della sorellastra di Artù gli fece sanguinare il
cuore e riportare a galla il suo incubo più frequente,
quello che lo svegliava nel cuore della notte madido di sudore e con la
sua voce ancora nella testa.
«Non posso aiutarla, se lei non vuole», si
lasciò scappare, riferendosi al pensiero che
l’aveva tormentato tutta la notte, ovvero che probabilmente
aveva trovato una fonte magica di cui non gli aveva parlato. Ma questo
Artù non poteva saperlo e rispose in base a ciò
di cui era appena venuto a conoscenza.
«Senti, mi ha raccontato tutto quello che vi siete detti ieri
sera e nonostante io non sia d’accordo con la maggior parte
dei tuoi programmi per il futuro – ammettilo, sono pessimi
– per quanto riguarda Alex devi fare tutto il possibile
perché sia al sicuro. Se la ami come dici, non puoi
arrenderti».
Merlino non si sarebbe mai aspettato che Alex andasse a piagnucolare da
Artù. Ad ogni modo, se Artù era venuto a sapere
delle sue intenzioni tanto meglio, aveva una conversazione scomoda in
meno da affrontare.
«Non ne ho alcuna intenzione, infatti», rispose
sbrigativo, afferrando la felpa blu con la zip e superandolo.
***
Alex camminò avanti e indietro nel salotto della suite,
mordicchiandosi le unghie. Aveva provato a fermare Artù, un
tentativo fiacco e poco convinto che non aveva portato ai risultati
sperati. Forse perché una parte di lei
voleva
l’aiuto di Merlino.
Si era sentita svuotata quando rientrata nella suite aveva lanciato
quell’urlo di rabbia, ma era stata una sensazione piacevole.
Si era sentita meglio, come se si fosse liberata di un peso. Gran parte
di quella che lei aveva stupidamente chiamato
“rabbia” era sparita. Solo ora si rendeva conto che
in realtà si trattava magia, pura ed incontrollabile magia.
E pensava anche di aver capito da che cosa l’avesse
assorbita: l’unico oggetto proveniente dal passato e
strettamente legato alla magia, nato proprio grazie ad essa, era
Excalibur.
La preziosa spada forgiata per il re di Camelot non aveva effetti
positivi su di lei, lo capiva, ma era comunque terrorizzata dal
pensiero che qualcuno potesse portargliela via. Anche in quel momento
avrebbe tanto voluto aprire l’armadio e scavare tra i vestiti
per impugnarne l’elsa e beneficiare della sicurezza che le
infondeva, ma era a diversi chilometri di distanza.
Tornò a sedersi sul divano, facendo attenzione a non pestare
le schegge di vetro sulla moquette. Si prese la testa fra le mani e le
sfuggì una risata, pensando che si trovava nella stessa
situazione del povero Bilbo Baggins: aveva trovato per caso un tesoro
pericoloso, capace di renderla ciò che non era per natura, e
pur sapendolo non riusciva a liberarsene. Non da sola, almeno.
La trovarono così, quando Merlino e Artù
entrarono nella sua stanza.
«Alex, stai bene?», le chiese immediatamente lo
stregone, inginocchiandosi di fronte a lei.
L’infermiera annuì con un cenno del capo,
guardando Artù sulla soglia della porta.
«Come avete fatto ad aprire?», fu la prima cosa che
chiese.
«Al check-in mi sono fatto dare un doppione di entrambe le
nostre chiavi, in caso di necessità»,
spiegò Merlino distrattamente, intento ad esaminarle gli
occhi e a sentirle le pulsazioni con due dita sul suo polso, proprio
come un vero dottore.
«Quindi saresti potuto sgattaiolare in camera mia mentre
dormivo?».
«A giudicare dal tuo aspetto, dubito che tu abbia dormito
questa notte. E poi perché mai avrei dovuto?».
Alex roteò gli occhi al cielo, assumendo
un’espressione tra l’annoiata e
l’irritata. «Non ne ho idea. Per tenermi
d’occhio, magari? Sai come siamo fatti noi Pendragon: ci
impegniamo al massimo per vanificare gli sforzi altrui e farci del male
con le nostre stesse mani».
Merlino la fissò con le labbra serrate e poi si
voltò verso Artù, spettatore silenzioso e
piuttosto confuso.
«Potete lasciarci soli per un momento?», gli chiese
con gentilezza.
Il re spalancò la bocca e dopo un attimo di esitazione,
sfiatò: «E dove dovrei andare?».
Merlino lo guardò con una certa eloquenza, lasciando intuire
persino a lei che avrebbe voluto dirgli che quello non era un
suo problema.
Scocciato, Artù uscì dalla suite sbattendosi la
porta alle spalle.
Rimasti soli, Alex e Merlino si fissarono per qualche secondo, fino a
quando entrambi non provarono l’istintivo impulso di baciarsi
o strozzarsi.
Il mago fu il primo a reagire, sollevandosi ed incrociando le braccia
al petto. «Se vuoi che mi scusi per aver mandato a monte il
tuo matrimonio, sappi che non lo farò».
«Perfetto, perché non le voglio le tue scuse. Non
avrei mai sposato Keith, tradimento o meno».
Non avrebbe voluto dirlo, non in quel momento. Aveva già
messo il proprio cuore a nudo troppe volte di fronte a lui, senza
ottenere nient’altro che rifiuti. L’aveva capito
ormai che si trattava di una portata non gradita, assaggiata e poi
sputata, da rimandare in cucina.
Gli occhi di Merlino le bruciavano addosso come tizzoni ardenti,
perciò continuò ad evitarli mentre si metteva
sempre più in ridicolo: «Ti sei preso il mio cuore
quella notte di capodanno, senza chiedere. Sei entrato nella mia vita
senza chiedere, l’hai cambiata, l’hai resa migliore
e allo stesso tempo peggiore… Tutto questo ancor prima di
rovinare il mio matrimonio. Ne avevi il diritto?».
«Non volevo che soffrissi, io…».
Lo azzittì con un movimento della mano. «Il dolore
è inevitabile, non puoi controllarlo. Ho sofferto questa
notte, persino adesso ho il cuore a pezzi. Che hai intenzione di fare
in merito?».
Un sorriso amaro le incurvò le labbra, scorgendo
l’impotenza negli occhi di Merlino. E l’ennesima
crepa si aprì sul proprio cuore: non avrebbe mai ceduto ai
sentimenti, poco ma sicuro.
«Lo sai che io e Myra eravamo amiche?», gli
domandò, avvicinandosi a lui d’un passo. Merlino,
forse senza rendersene conto, arretrò.
«Sì, me l’aveva detto».
«Come credi che mi sia sentita, quando hai iniziato a
trascorrere ore ed ore nella sua stanza, ignorando tutto il resto? Ero
gelosa. Ma stavo con Keith, in un certo senso lo amavo. Non sono mai
intervenuta nella tua vita, non mi sono mai messa in mezzo,
perché non ne avevo il diritto».
«O forse non ne avevi il fegato», la
incalzò Merlino, rivolgendole improvvisamente
un’occhiata gelida, che la fece irrigidire sul posto.
Le redini della conversazione le scivolarono di mano e si
sentì piccola piccola sotto il suo sguardo serio.
«La predica non dovrebbe venire da me, visto che ho mentito
per tutta la vita, ma se fossi stata onesta con te stessa, se avessi
rotto con Keith a tempo debito e fossi entrata nella stanza di Myra
esprimendo i tuoi sentimenti per me… Non dico che io e te
avremmo avuto un lieto fine, questo non posso farlo, ma almeno Keith e
Myra non si sarebbero nutriti di false speranze.
«E per quanto riguarda me, io ho preso una decisione quella
sera e ci ho convissuto come meglio ho potuto. Ero lì,
dall’altra parte della strada, quando Myra è stata
investita. Ho visto l’auto avvicinarsi sempre di
più, sapevo che cosa sarebbe successo, e avrei potuto usare
la magia per impedirlo. Ho scelto di non farlo perché avevo
un giuramento da mantenere e come hai detto tu il dolore è
inevitabile: milioni di persone ogni giorno hanno degli incidenti, di
fronte a me o dall’altra parte del mondo non ha importanza.
Come mago è stata una mia scelta lasciare che Myra venisse
investita, ma come essere umano l’ho soccorsa e le sono stato
accanto come ho potuto».
Fu Merlino quella volta ad avanzare, prima di uno e poi di due passi,
fino a trovarsi a pochi centimetri dal viso di Alex. Lei
continuò a guardarlo negli occhi, nonostante sentisse il
cuore pesante come piombo.
«Sì, sapevo che tu e Myra eravate amiche e che
facevate jogging insieme. E non sai quante volte, seduto al suo
capezzale, ho ringraziato il cielo che tu quella sera fossi di turno in
ospedale. Avrei reagito diversamente, se ci fossi stata tu di fronte a
quell’auto».
Sollevò una mano e Alex rimase immobile quando ne
posò delicatamente il dorso sulla sua guancia. Chiuse gli
occhi a quella carezza e rabbrividì quando sentì
il respiro di Merlino sul suo orecchio.
«Il dolore è inevitabile, ma non
c’è nulla che non farei per evitarlo a
te».
Alex posò la mano sulla sua, scivolata sul suo collo. Forse
non si sarebbe più fermata se lasciata a se stessa, ma il
rumore secco di un quadro che si staccava dalla parete alle loro spalle
e cadeva a terra li riportò bruscamente alla
realtà.
Merlino allontanò la mano e si guardò intorno,
imbarazzato, fino a quando non si schiarì la gola e
mormorò: «Dovrei proprio andare ad avvisare la
reception».
Era già alla porta, quando Alex ritrovò la
propria voce per chiedergli: «Che cosa dirai?».
«Non ne ho idea», sospirò.
«Saremo fortunati se non ci getteranno per strada a
calci».
***
«Sei sicura di stare bene?».
Alex sollevò la testa dal piatto di uva a cui stava
togliendo con cura i semini e sbuffò, facendo svolazzare la
sua frangetta.
«Sarà la decima volta che me lo chiedi.
Sì, Artù, sto bene».
«Scusami, è che… nemmeno io ho mai
avuto un buon rapporto con la magia e mi terrorizza sapere che tu ce
l’abbia».
L’infermiera si sistemò meglio sulla sedia,
incrociando le gambe, e si portò alla bocca un chicco
d’uva.
«Immagino quante streghe abbiano cercato di propinarti filtri
d’amore per diventare regine di Camelot»,
esclamò, un sorriso sbarazzino sul volto.
Artù la fissò tanto seriamente che Alex si
sentì a disagio ed abbassò lo sguardo.
«Non scherzare», l’ammonì.
«Certo, è capitato pure quello,
ma…».
Respirò profondamente, chiedendosi se fosse il caso di
parlarle di Morgana. Soprattutto, lui era pronto ad affrontare
l’argomento? Aveva riflettuto molto su ciò che gli
aveva detto Merlino l’ultima volta che avevano parlato di
lei, di come il suo destino sarebbe potuto cambiare se avesse avuto
qualcuno accanto che la guidasse e le mostrasse come la magia potesse
essere uno strumento per fare del bene. E aveva immaginato che poteva
essere una delle tante ipotesi che non avrebbero mai più
avuto la possibilità di verificare.
Con Alex però era diverso, lei era ancora lì con
loro ed era loro dovere aiutarla. Artù non avrebbe fatto lo
stesso errore una seconda volta: era pronto a stendere una mano
– anche entrambe, se necessario – verso di lei e a
non lasciarla andare.
«La mia sorellastra… anche lei possedeva il dono
della magia», iniziò a raccontare, disegnando con
l’indice dei motivi immaginari sul legno lucido del tavolo.
«Era troppo spaventata di deludere mio padre, di venire
cacciata o addirittura di essere giustiziata, perciò nascose
il suo segreto per anni, come Merlino. Nessuno fu lì per lei
quando la paura dei propri poteri la bloccava nel letto, nessuno
l’aiutò a controllarli… La pressione e
l’odio per mio padre, in continua lotta contro la magia,
crebbero fino a diventare insostenibili. Venne in contatto col lato
malvagio della magia e ciò che imparò lo
sfruttò per arrecare danni a Camelot. Al contrario di
Merlino, Morgana pensava che la magia potesse aiutarla ad ottenere
ciò che era suo di diritto: un posto nel mondo, la
felicità… Non importava quanta gente ne
soffrisse».
«Morgana, hai detto?». Alex aveva gli occhi
sgranati per l’incredulità. «Credevo che
fosse… Non è mai stata tua promessa
sposa?».
Artù sorrise, ricordando gli anni della propria giovinezza,
quando l’idea di avere Morgana per moglie l’aveva
sfiorato più e più volte.
«Tutti a corte speravano in una nostra unione, tutti tranne
nostro padre. Lui ovviamente sapeva la verità, mentre io e
Morgana l’abbiamo scoperto molto tempo dopo, quando ormai le
nostre strade si erano separate».
Alex parve rifletterci per un po’, fino a quando non
posò di nuovo gli occhi nei suoi, chiedendo: «Beh,
dove volevi andare a parare parlandomi di lei?».
«Volevo solo dirti che io e Merlino ci saremo, per
te». Allungò una mano verso di lei ed attese che
Alex vi posasse sopra la propria, quindi la strinse con forza e
delicatezza allo stesso tempo, in modo protettivo. «Devi solo
permetterci di aiutarti».
L’infermiera sorrise ed annuì, ma nel farlo non
sembrò molto convinta. Infatti la sua espressione
mutò rapidamente, divenendo una maschera impenetrabile,
mentre i suoi occhi sembravano aver abbandonato la realtà,
distratti e lontani.
Artù si chiese che cosa le passasse per la mente, se avesse
già iniziato a chiudersi in se stessa. Aveva già
perso una sorella, non poteva perdere anche lei a causa della magia.
«A che cosa stai pensando?», le chiese quasi a
bassa voce, chinandosi verso di lei con le braccia incrociate sul
tavolo.
Alex scrollò le spalle, segno che comunque aveva prestato
attenzione. I suoi occhi però continuavano a fissare il
vuoto, immersi in un altro tempo e in un altro luogo.
«Una volta Merlino mi ha detto che la magia come la si
descrive nelle favole non esiste. Allora non avevo capito fino in fondo
che cosa volesse dire, ma lui stesso si è arreso
all’evidenza che la magia non è la soluzione ai
problemi, che è solo una toppa temporanea che prima o poi si
squarcerà di nuovo, peggiorando la situazione. Per quanto ci
si sforzi per usarla per fare del bene, ti si ritorcerà
sempre contro. È stata la magia a distruggere tutto
ciò che amava… e per questo l’ha
rinnegata».
Artù chiuse gli occhi, cercando di non pensare che in quel
“tutto ciò che amava” erano compresi
anche sua moglie e suo figlio.
«Hai perfettamente ragione», mormorò.
«Ma non si può semplicemente smettere di lottare,
non ci si può arrendere all’evidenza. Sai che
cos’ha detto a me, una volta?».
«Che cosa?».
Gli veniva ancora da ridere se ripensava a come Merlino si era
agghindato, trasformandosi in Dolma, per non farsi riconoscere da lui e
Ginevra.
«Che nella magia non c’è alcuna
malvagità, poiché essa dimora nei cuori degli
uomini. Può darsi che ora si sia ricreduto, non gliene farei
una colpa, ma è stato grazie alla magia se più e
più volte ha salvato la mia vita e centinaia di altre vite
innocenti. E se davvero il mondo sta morendo perché non
c’è abbastanza magia a sostenerlo, allora vuol
dire che è qualcosa di importante e di necessario. Sono i
metodi dei custodi, le loro trame e i loro inganni, ad essere sbagliati
e malvagi, tanto da aver fatto apparire colpevole la magia».
Colpito dal suo prolungato silenzio, alzò lo sguardo e
trovò Alex a bocca aperta, con un chicco d’uva tra
le dita.
«Che cosa c’è?», le chiese,
imbarazzato dal suo sguardo.
Alex si sciolse in un tenero sorriso, il primo della giornata.
«Artù Pendragon, ora capisco perché sei
diventato il re leggendario che tutti conoscono. E non riesco ad
esprimere a parole quanto io sia onorata di essere una tua
discendente».
Nonostante quelle parole lusinghiere gli avessero accarezzato
l’anima come un balsamo, riuscì a stemperare
l’atmosfera alzandosi dal tavolo ed esclamando:
«Smettila e sbrigati con quell’uva. Ci aspetta una
lunga giornata».
Non fece in tempo ad udire la risposta di Alex però: Merlino
entrò nella stanza, facendoli sobbalzare entrambi per la
sorpresa.
«Ho pagato un risarcimento record per i danni, ma a quanto
pare non ci cacceranno», esclamò, abbozzando un
sorriso.
Alex sospirò, invitandolo a proseguire con un movimento
circolare del polso. «Non è finita qui,
vero?».
«No, infatti. Purtroppo tu sei stata bandita per sempre da
questo e da ogni altro hotel della catena. Mi dispiace».
Artù guardò lo stregone con sguardo sgomento. Non
gli era mai piaciuta la parola “bandita”, almeno
non da quando si era trovato costretto a cacciare Ginevra dopo il suo
tradimento con Lancillotto. Merlino dovette leggergli nel pensiero, ma
fu Alex a parlare per prima, scrollando le spalle con noncuranza.
«Non credo che ci sarei mai tornata in futuro, comunque.
Sarò anche di stirpe regale, ma non ho un forziere pieno di
monete d’oro sotto al letto!».
Artù si chiese come facesse lei a sapere dove un tempo
teneva i suoi risparmi, mentre Merlino scoppiò a ridere
stringendosi l’addome tra le braccia.
Strano ma vero, quella volta fu la risata di Merlino a contagiarli,
facendoli sorridere. E Artù provò il forte
desiderio di abbracciarlo, per tutto quello che aveva fatto e
continuava a fare per lui. Avendo una certa reputazione da mantenere,
optò per stringergli il collo con un braccio e sfregargli le
nocche di una mano tra i capelli, facendolo strepitare come ai vecchi
tempi.
Magari agli occhi di Alex avrebbe fatto la figura
dell’irritante bulletto, ma Merlino avrebbe di certo capito.
***
«Artù, a che punto siete?»,
domandò Merlino alla porta chiusa di fronte a sé,
sistemandosi il farfallino nero. «Posso entrare?».
Un mugolio frustrato fu tutto ciò che ottenne e, preoccupato
che Artù si sentisse male, non ci pensò su due
volte prima di aprire la porta e piombare all’interno della
principesca camera da letto.
Artù stava bene, ammesso e concesso che il tentativo di
strangolamento con la cravatta fosse involontario.
Merlino lo raggiunse con due brevi falcate e gli liberò il
collo, permettendogli di tornare a respirare regolarmente.
«Grazie», tossicchiò il re, paonazzo.
«Guarda qui che disastro che avete fatto»,
esclamò Merlino a mezza voce, arretrando di un passo per
poterlo guardare dalla testa ai piedi. Quindi posò gli occhi
nei suoi, scuotendo leggermente il capo: «Capisco che non
vogliate dipendere da nessuno, ma non c’è davvero
niente di male nel chiedere un po’ d’aiuto quando
se ne ha bisogno. Lasciate fare a me».
Lo stregone iniziò a sbottonargli la camicia bianca
– aveva saltato un’asola ed era tutto da rifare
– e Artù osservò il soffitto, forse
immaginando a come l’avrebbe preso in giro Alex se
l’avesse visto in quel momento.
Ad un tratto, come se il silenzio lo infastidisse, esordì:
«Allora, vogliamo parlare dei tuoi pessimi piani per il
futuro?».
«Non c’è nulla di cui
parlare», tagliò corto Merlino, ma il re di
Camelot non si arrese.
«Oh sì, invece. Credi davvero che ti
permetterò di…?».
Il mago alzò di scatto il capo e gli lanciò
un’occhiata truce, parlandogli sopra: «Si tratta
della mia vita e, credetemi, è durata fin troppo».
«Quindi che cos’hai intenzione di fare? Restituire
la magia a questo mondo e morire da eroe? Tempo fa mi hai detto di non
esserlo. E non lo diventerai, sacrificandoti per ciò che i
guardiani della magia vogliono. Gliela darai vinta e basta!».
«Quali altre alternative abbiamo?!»,
urlò Merlino, smettendo di abbottonargli la camicia per
portarsi un pugno alla bocca, gli occhi lucidi di lacrime.
«Non possiamo lasciare che il mondo muoia per
ripicca».
«Troveremo un altro modo, insieme».
«No, voi dovete starne fuori».
«Che cosa? Sei per caso impazzito?».
Merlino scosse il capo e prima che Artù potesse afferrarlo
per le spalle gli voltò la schiena. Con un fil di voce,
confessò: «Non posso vedervi morire
un’altra volta. Qualsiasi sia il motivo per cui siete tornato
dal mondo degli spiriti, farò in modo che non dobbiate
tornarci. Avete una seconda possibilità e giuro che non la
sprecherete cercando di combattere il destino al mio fianco».
Artù riuscì finalmente a posargli una mano sulla
spalla e lo costrinse a voltarsi. Lo guardò fisso negli
occhi per quella che sembrò un’eternità
e col suo tono più solenne, sussurrò:
«L’ho sempre detto che sei un idiota, ma non
credevo fino a questo punto».
Merlino aprì la bocca per ribattere stancamente, ma
Artù aggiunse: «Lo faremo insieme, o moriremo
provandoci».
«Ma Cathleen…».
«Quando arriverà il momento, Cathleen
capirà. Per quanto riguarda Alex,
invece…».
«Ne abbiamo già parlato,
Artù».
Il re sospirò, leggendo il dolore negli occhi
dell’ex servitore. «È una Pendragon, non
si arrenderà fino a quando non avrà ottenuto
ciò che vuole. È solo una questione di tempo,
prima che tu ceda».
«Oh, ora finalmente capisco perché
Ginevra…».
Artù lo interruppe colpendolo alla nuca, nonostante le sue
labbra si fossero incurvate in un sorriso.
«Ahia!».
«Te la sei andata a cercare. Ora muoviti, o faremo
tardi».
Merlino tornò ad occuparsi in silenzio del suo completo
elegante, spazzolandogli con cura le spalle della giacca ed annodando
con maestria quella specie di cappio che si usava indossare in
occasioni così galanti.
Osservandolo con attenzione, non poté fare a meno di notare
i segni di stanchezza sul suo viso – la pelle chiara
più pallida del solito, quasi trasparente, le borse sotto
gli occhi arrossati, i capelli neri spenti e con qualche bagliore
argentato di tanto in tanto – e del lieve tremore delle sue
mani, nervose e freddissime. Sembrava peggiorare ogni giorno un
po’ di più, come se le sue energie avessero
già iniziato a consumarsi.
«Merlino».
«Uhm?».
«Anche tu puoi chiedere il mio aiuto, se ne hai
bisogno».
Merlino lo fissò come se avesse appena affermato che gli
asini erano in grado di volare, fino a quando non mostrò un
nuovo sorrisetto.
«Se è come per il giorno libero che non ho mai
avuto…».
Artù roteò gli occhi al cielo e
sbottò, irritato da come riuscisse sempre a rovinare tutto:
«Alla fine ho mantenuto la mia parola: ti ho concesso
millequattrocento anni!».
Il volto di Merlino si incupì e Artù
capì di aver esagerato.
«Perdonami, non dovevo. Ma dicevo sul serio: puoi contare su
di me, se mai dovessi aver bisogno d’aiuto».
Lo stregone annuì, abbozzando un sorriso. «Lo so.
Grazie, Artù».
Il re di Camelot strinse le labbra e gli diede un pugnetto sulla
spalla, facendolo mugugnare silenziosamente dal dolore.
***
Quando anche il secondo dei due uomini che avevano fatto parte del
viaggio con lei uscì dall’ascensore, Alex diede le
spalle alla porta scorrevole e guardò di nuovo il proprio
riflesso nelle pareti dorate.
Il vestito che Merlino le aveva fatto consegnare dal facchino che il
giorno prima li aveva accompagnati nelle loro rispettive suite era
firmato Versace e sembrava esserle stato disegnato direttamente sulla
pelle, talmente le donava.
Era dello stesso colore degli abiti da sposa tradizionali e allo stesso
tempo era diverso da qualsiasi vestito avesse mai visto: due strette
fasce le avvolgevano i seni e l’addome, incrociandosi
all’altezza dello stomaco per poi separarsi sulla schiena,
dov’erano sorrette da una rigida striscia di pelle dorata a
forma di otto – o di infinito rovesciato, come le piaceva
chiamarlo – tempestata di grossi rubini dalla forma
esagonale.
Anche le gambe erano fasciate come il bozzolo di una farfalla, ma solo
fino al ginocchio; da lì in poi partiva un sottile velo di
seta color cremisi che le arrivava fino ai piedi, fresco e leggero come
le estremità delle fasce che dal fondo
dell’infinito rovesciato arrivavano a toccare persino il
pavimento, a mo’ di strascico.
Alex non riusciva ancora a credere di star indossando
un’opera d’arte del genere, un pezzo unico al mondo
che doveva valere milioni di sterline, ed era così felice e
allo stesso tempo così arrabbiata con Merlino che avrebbe
voluto soffocarlo di baci.
Aveva raccolto i capelli biondi in una specie di treccia che partiva
dal punto più alto della testa e proseguiva lungo tutta la
curva del cranio, fino alla base del collo, e sperava davvero che non
si sfaldasse sul più bello: sarebbe stata una vera
catastrofe.
Stava giusto controllando lo stato della propria acconciatura e
dell’ombretto dorato che si era messa sulle palpebre, quando
le porte dell’ascensore si aprirono di nuovo, mostrando una
hall insolitamente affollata e rumorosa, la quale però si
acquietò all’improvviso quando mise piede fuori
dalle pareti riflettenti.
Decine di occhi si puntarono su di lei e Alex si sentì tanto
in imbarazzo quanto lusingata, mentre i suoi tacchi riecheggiavano sul
pavimento in marmo. Tenne la testa bassa e l’alzò
solo quando si trovò accanto ai divanetti su cui si erano
accomodati Artù e Merlino in sua attesa. Persino loro la
fissavano a bocca aperta, incapaci di esprimere un qualsiasi giudizio.
Alex si strinse i pugni sui fianchi, rossa come un peperone.
«Giuro che se nessuno dice niente, torno in camera a
cambiarmi», sibilò.
Artù schizzò in piedi e si chinò
leggermente in un baciamano. «Sei così bella che
faresti impallidire qualsiasi principessa».
«Troppo gentile», ribatté, rispondendo
all'inchino.
Ma Artù, ostinato come un mulo, ci tenette a precisare:
«Dico sul serio. Mi ricordi mia madre, sai?».
Alex boccheggiò per qualche secondo, ricordando quando il re
di Camelot le aveva confessato di non aver mai conosciuto sua madre
perché morta dandolo alla luce. Intercettò lo
sguardo di Merlino e ad un suo cenno del capo rimase in silenzio,
ringraziando nuovamente il sovrano con un semplice sorriso.
Quando fu il turno dello stregone, la sua gola si seccò
all'improvviso e la situazione non fece che peggiorare quando dal nulla
esclamò: «Qualsiasi uomo al mondo sarebbe
combattuto, vendendoti».
«In che senso?».
Merlino si avvicinò al suo orecchio e sussurrò:
«Toglierti il vestito oppure no?».
Alex sentì un forte brivido percorrerle la spina dorsale,
dal punto della schiena in cui Merlino posò la mano alla
nuca, dove la baciò delicatamente, e qualcosa le morse il
basso ventre. Sembrava l’inizio di uno dei suoi sogni ad
occhi aperti…
Riuscì faticosamente ad abbozzare un sorriso quando il mago
si scostò e la invitò a voltarsi per aiutarla ad
indossare il cappotto. Con estrema dedizione le sistemò il
colletto e le accarezzò le spalle, poi tornò ad
appoggiare la mano sulla sua schiena per accompagnarla verso
l’uscita, dove un’auto con autista privato li stava
attendendo.
«Che cos’hai in quella valigetta?», gli
chiese ad un tratto, mentre la portiera del bagagliaio veniva aperta.
«Una cosa di cui, se tutto andrà per il meglio,
non avremo bisogno. Quello che mi preoccupa è che
cos’ha lui in quella borsa». Merlino
indicò con un cenno del capo la sacca da ginnastica che
Artù stava consegnando all’autista e Alex
corrugò la fronte, stupita che l’antenato non
l’avesse messa al corrente.
Non ebbe però il tempo materiale per preoccuparsi: era
troppo concentrata sulla missione che doveva portare a termine, per
quanto folle e disperata fosse. Doveva farlo per i bambini
dell’ospedale, ma anche per se stessa.
A quel proposito si voltò verso Merlino, seduto di fronte a
lei sull’auto di lusso, e lo colse intento a guardare fuori
dal finestrino con sguardo assorto.
Ancora una volta l’età dei suoi occhi le
colpì il cuore, facendola sentire misera ed insignificante,
solo una piccola parentesi all’interno di
quell’espressione molto più larga e complessa di
quanto potesse anche solo comprendere che era la sua lunghissima vita.
«Ehi, va tutto bene?», le chiese
all’improvviso Artù, sfiorandole una mano.
Alex sobbalzò leggermente, rivolgendogli poi un piccolo
sorriso. «Sì, sto bene. Pensavo solo ai bambini
dell’ospedale. Tu li hai sentiti, Merlino?».
«Mentre ti aspettavamo, Abby mi ha chiamato».
«Oh».
Abigail era la sua confidente, l’unica oltre ad
Artù che sapesse quanto amasse Merlino in realtà,
e il fatto che lei e lo stregone potessero parlarne alle sue spalle le
faceva un strano effetto, ma si costrinse ad ignorare la propria vocina
interiore e a sorridere.
«Che cosa ti ha detto?».
Merlino scrollò le spalle, sospirando. «Nulla di
nuovo: Mark è un vero osso duro, la fa disperare. Mi ha
chiesto se il nostro ritorno è confermato per
domani».
«Certo! Ho promesso ai bambini che per Pasqua avremmo fatto
la migliore caccia alla uova di sempre».
Artù si chinò verso di loro e gettando
un’occhiata all’autista, chiese a bassa voce:
«Che cosa sarebbe?».
Ormai aveva capito che era inutile attirare l’attenzione
degli altri con le sue domande e aveva imparato a farlo con discrezione.
Merlino aprì la bocca per iniziare con la spiegazione, ma
Alex sollevò una mano, intimandogli di non dire niente.
«Lo scoprirai da te», disse ad Artù,
emozionata al solo pensiero.
Lo stregone ridacchiò e tornò a guardare la
strada scorrere fuori dal finestrino.
Ci impiegarono circa un’ora a raggiungere il Castello di
Windsor e quando lo avvistarono, imponente sopra la collina,
Artù fu il primo a riprendersi dalla stupore e ad esclamare:
«Questa sì che è una degna residenza
reale!».
Merlino e Alex si scambiarono un’occhiata e si sorrisero, ma
lo stregone distolse lo sguardo quasi subito, lasciando
l’infermiera con l’amaro in bocca.
Se solo questo fosse stato in grado di renderlo felice e se solo ne
avesse avuto il fegato – come le aveva detto Merlino proprio
quella mattina – si sarebbe protesa in avanti e lo avrebbe
baciato proprio lì, di fronte ad Artù.
Ma che lei l’avesse fatto o meno, comunque il mago non
sarebbe stato felice. Di conseguenza, doveva cercare di limitare i
danni per se stessa ed accontentarsi dei sogni.
***
«Non riesco a
capire perché Mark si comporta così.
Più io mi avvicino, più lui si allontana. Eppure
giusto ieri mi ha detto che mi ama! Che cosa vuol dire tutto questo,
Merlino?».
«È
solo spaventato».
«Spaventato di
cosa?».
«Di star male,
di vederti star male… della morte».
«Anche io ho
paura di morire, puoi giurarci, ma… noi siamo vivi, adesso,
e non possiamo buttare via la nostra felicità pensando al
dolore. Sono convinta che si debba cogliere l’attimo.
C’è pure un proverbio in latino che lo
dice!».
«Carpe
diem
».
«Esatto,
quello lì! Tu che ne pensi? Ho ragione oppure
no?».
Dire che non le aveva risposto era poco. Le aveva direttamente chiuso
il telefono in faccia, con il cuore che gli batteva fortissimo nelle
tempie.
Gli erano tornati alla mente tutti i momenti in cui si era inflitto
volontariamente le pene più atroci, in particolar modo dopo
la sua ultima parentesi felice con Louise. Con lei era stato
così in alto ed era caduto così in basso, e
così malamente, che aveva giurato a se stesso che non
avrebbe più amato nessuna, e se non ci fosse riuscito
– perché doveva ammetterlo, era un tipo a cui
bastava poco per innamorarsi (e Freya ne era la prova) –
almeno avrebbe impedito a quell’amore di sbocciare,
accontentandosi di fantasticare.
Era stato il caposaldo a cui aveva sempre fatto riferimento da quando
aveva capito che Alex poteva diventare qualcosa di più,
eppure le cose erano degenerate fino a quel punto, facendolo stare
tanto male quanto una rovinosa caduta.
Le parole di Abigail avevano sfondato una porta che era riuscito a
tener chiusa fino a quel momento, anche se con estrema fatica, e tutti
i pensieri che vi aveva celato dietro gli erano cascati addosso,
cogliendolo impreparato.
Aveva detto ad Alex che avrebbe fatto di tutto per evitarle di provare
dolore, eppure farla soffrire era sempre stata la sua
specialità. Quella mattina ne aveva avuta la conferma,
quando gli aveva sbattuto in faccia che aveva il cuore a pezzi a causa
sua.
«Che hai intenzione di fare in merito?», gli aveva
chiesto.
Quelle parole continuavano a rimbombargli nella mente, impedendogli di
concentrarsi.
Stese una mano verso di lei per aiutarla ad uscire dall’auto
e fu quasi doloroso vedere il suo sorriso, sentire la stretta della sua
mano e poi lasciarla andare da Artù, il quale le porse il
braccio da vero cavaliere.
«Che hai
intenzione di fare in merito?».
***
«Siamo dentro. Siamo dentro, è
incredibile».
«Mettevi per caso in dubbio le mie
abilità?».
Alex si portò una mano sul petto, trasalendo, e si
voltò verso Merlino, così vicino al suo corpo da
poterne sentire il calore.
«Non ti ho sentito arrivare», disse, prendendo tra
le dita il calice che le offrì.
Aveva appena bevuto un sorso, in grado di mandare in estasi le sue
papille gustative, quando rischiò di sputarlo.
«Dov’è Artù?».
Merlino sorrise, indicandolo dall’altra parte del salone, che
intratteneva un gruppo di giovani e bellissime donne. Sembrava
così tranquillo e rilassato nel suo abito blu notte, i
capelli biondi dall’aspetto spettinato e gli occhi blu
luminosi come non li aveva mai visti. Dava quasi
l’impressione di essere il padrone di casa, talmente si
muoveva con grazia e disinvoltura.
«Il re che è in lui si sta mostrando»,
le sussurrò Merlino, leggendole nel pensiero.
«E tu non dovresti essere al suo fianco?».
Sollevò il capo verso di lui e scorse i suoi occhi brillare
di orgoglio.
Avrebbe dato di tutto per poter vedere ciò che stava vedendo
lui in quel momento: una festa a Camelot, i cavalieri in piedi attorno
alle tavole imbandite che innalzavano le coppe d’oro per un
brindisi, le dame di corte che applaudivano gentilmente e la regina che
guardava amorevolmente il suo re e gli accarezzava un braccio. E
Merlino, il Merlino che tutti quanti avevano sempre ritenuto un
semplice servitore, che correva da una parte all’altra per
riempire quelle coppe d’oro e servire da mangiare, gettando
di tanto in tanto un occhio ad Artù per accertarsi che tutto
andasse per il meglio, senza mai lamentarsi per la fatica o la poca
riconoscenza che gli dimostrava. Vederlo sorridere gli bastava.
«Alex, mi stai ascoltando?».
L’infermiera sbatté rapidamente le palpebre,
tornando alla realtà. «Eh?».
Merlino accennò una risata, sistemandole la frangetta come
se fosse la cosa più naturale del mondo. «Ho detto
che Artù se la caverà egregiamente anche senza di
–».
Non fece nemmeno in tempo a terminare la frase che due agenti di
polizia furono scortati all’interno del salone da un ometto
basso e tarchiato, con gli occhiali spessi e pochi capelli bianchi
sistemati in un riporto di fortuna.
«È lui, sì, il signore col completo blu
notte», esclamò abbastanza ad alta voce
perché tutti lo sentissero, Artù compreso.
Il re di Camelot si indicò, gettando poi
un’occhiata preoccupata a Merlino ed Alex.
«Che cosa diamine sta succedendo?»,
domandò l’infermiera, guardando terrorizzata i due
agenti avvicinarsi ed invitare sì gentilmente
Artù a seguirli, ma prendendolo anche per le braccia.
«Temo lo scoprirò presto», rispose
Merlino a denti stretti, pronto a raggiungere il proprio re. Alex
però gli strinse una mano prima che potesse allontanarsi, in
modo da poterlo seguire tra la folla.
«Tu devi rimanere qui, devi cercare di parlare con il
Principe», le ricordò severamente.
«Non se ne parla, io vengo con te».
«Non puoi, Alex», ripeté, sospirando.
Quindi le prese il volto tra le mani e fissando intensamente gli occhi
nei suoi mormorò: «Pensa ai bambini in ospedale.
Noi ce la caveremo».
«Controllerò costantemente il cellulare, attendo
tue notizie».
Merlino annuì e prima di allontanarsi le posò un
fugace bacio sulla guancia, pericolosamente vicino alle labbra.
Si scambiarono un ultimo sguardo prima che le pesanti porte del salone
venissero richiuse dai maggiordomi, poi Alex respirò
profondamente e buttò giù l’intero
bicchiere di champagne che teneva ancora tra le mani tremanti.
***
«Scusate… Ehm, scusatemi, posso sapere che
cos’è successo?».
«Lei chi è?», domandò uno
degli agenti di polizia, dallo sguardo arcigno.
«Mi chiamo Merlino e quello che state portando
chissà dove è il mio migliore amico».
«Il signor Artù Pendragon, a quanto ne so. E tu
sei il suo migliore amico,
Merlino?
Non farmi ridere».
Lo stregone roteò gli occhi e tirò fuori dalla
tasca interna della giacca un documento
d’identità, mostrandolo all’agente
mentre continuavano a camminare lungo un corridoio senza fine.
«E va bene,
Merlino»,
cedette il poliziotto, anche se con una certa irritazione.
«Il tuo amico qui è accusato di furto».
«E che cosa avrebbe rubato, di preciso?».
«Un pezzo di grandissimo valore, non solo storico: una corona
che si dice risalga al Sesto secolo».
Il sangue gli si gelò nelle vene, ma ebbe comunque la forza
di non darlo a vedere, rimandando a più tardi la sfuriata
che avrebbe fatto al solo ed unico re.
«L’ho riconosciuta subito!», si intromise
l’ometto che aveva condotto da Artù i due agenti
di polizia. «Il signore qui presente è stato
accompagnato da me da un maggiordomo perché voleva
consegnare un pezzo da poter mettere all’asta questa sera. Io
gli ho spiegato che tutti gli articoli dovevano essere inviati
anticipatamente, in modo da poter essere autenticati e valutati, ma ha
insistito così tanto che ho fatto uno strappo. A quanto pare
ho fatto bene!». Si mise a ridacchiare in un modo
così irritante che Merlino avrebbe voluto strappargli la
lingua e fargliela ingoiare.
«Potete immaginare il salto che ho fatto quando ho aperto la
borsa e ho visto la corona! Sapevate che era scomparsa da
più di cinquant’anni? Faceva parte della
collezione privata dello storico d’arte Wojciechowski. Dico
faceva perché gli è stata rubata, più
di cinquant’anni fa appunto. La sua era una delle collezioni
più ricche al mondo e sarebbe diventata di sicuro la
più
ricca se quel fattaccio non fosse mai accaduto, ma purtroppo... Da
allora ha smesso di acquistare, ha iniziato addirittura a vendere, e
tutte le fatiche di una vita sono risultate vane».
Merlino avrebbe voluto acidamente ribattere che quell’uomo
avaro e privo di scrupoli aveva tutt’altro che faticato per
aggiungere pezzi alla propria collezione. Non si era mai sforzato di
uscire di casa, rintanato nel suo bunker di massima sicurezza, e i suoi
pezzi più pregiati, tra cui proprio la corona di
Artù, erano spesso e volentieri macchiati di sangue
innocente.
Ingoiò quel boccone amaro e rimase in silenzio,
perché lui non poteva di certo saperle tutte quelle cose
– insomma, non era nemmeno nato, all’epoca!
– e si concentrò sul problema che doveva
assolutamente risolvere: scagionare Artù e proteggere se
stesso.
«E credete davvero che sarebbe stato così stupido
da donarla all’asta, se avesse saputo tutte queste cose?
È ridicolo!», urlò.
I due agenti si fermarono e si voltarono verso di lui, fissandolo come
se avesse appena risolto il caso dell’anno.
«Intendi forse dire che il qui presente signor Pendragon non
aveva idea della storia di quella corona?».
«Guardatelo!». Quasi scoppiò a ridere,
indicando l’espressione sconvolta ed spaurita di
Artù. «Vi sembra la faccia di un efferato ladro,
quella?».
I due agenti si scambiarono un’occhiata incerta, poi quello
che sembrava il cattivo della situazione, quello dall’aria
arcigna, sbottò: «Sentiamo, Grissom, sai anche
come ha fatto ad ottenerla?».
«Io credo proprio di sì».
Artù gli lanciò un’occhiataccia, che
Merlino ricambiò con una ancora più severa,
aggiungendo: «Mio nonno».
«Tuo… nonno?».
Merlino spiegò della collezione di armi e reliquie medievali
di suo nonno, che lui aveva ereditato automaticamente quando era
passato a miglior vita. Ciò che non aveva di sicuro
ereditato però era la sua stessa passione e quindi aveva
disordinatamente ammucchiato tutto in soffitta, lasciando quelle
“cianfrusaglie” alla mercé della
polvere. Non si era nemmeno dato la briga di catalogare tutto quanto,
ma non si sarebbe stupito se quella vecchia volpe di suo nonno avesse
ottenuto qualcosa in maniera poco legale.
Difese a spada tratta Artù, affermando che come al solito
era andato a ficcanasare nelle sue cose e con l’intenzione di
fare colpo su qualche bella ragazza non aveva pensato di documentarsi
su ciò che aveva trovato.
«Nemmeno io sapevo la storia di quella corona, l’ho
scoperta adesso grazie al signor…».
«Zielinski», si presentò
l’ometto, porgendo una mano dalle dita tozze e sudaticce.
«Consulente d’arte. Al vostro servizio».
«Com’è che siete tutti polacchi, voi
fissati?».
«Come, scusi?».
«Ho detto che i polacchi sono sempre pieni di
interessi!».
Il consulente gongolò, tutto contento per la lode, e Merlino
concluse: «Perciò potrei esserci benissimo io tra
di voi, in questo momento».
I due agenti lasciarono andare Artù per potersi avvicinare
allo stregone, il quale sollevò le mani ed
arretrò d’un passo.
«Sono più che disponibile a fornirvi qualsiasi
tipo di informazione abbiate bisogno, posso anche acconsentirvi una
perquisizione a casa mia per restituire al mondo dell’arte
tutto ciò che potrebbe esserci in quella soffitta,
ma…».
«Non puoi dettare condizioni con noi,
Merlino»,
lo interruppe bruscamente il poliziotto cattivo, prendendolo per un
braccio. «Abbiamo bisogno che tu venga in centrale per una
deposizione, dopodiché procederemo anche con la
perquisizione».
«Ma il galà…!».
«Il Principe William non noterà nemmeno la tua
assenza, stai tranquillo».
Merlino si arrese e si lasciò trascinare via, voltando il
capo verso Artù, trovandolo con gli occhi sgranati per
l’incredulità e la confusione.
«Una cosa soltanto, scusatemi!», esclamò
all’improvviso il mago, girandosi nuovamente verso il re.
«E ora che c’è?»,
mugugnò il poliziotto arcigno, sfinito.
«Artù, dì ad Alex che la tua medicina,
nel caso dovesse servirti, è nella valigetta che ho portato
con me. Diglielo, mi raccomando, è importante».
Artù annuì, ma Merlino dubitò che
avesse intuito veramente a che cosa si stesse riferendo.
Sperò almeno che lo dicesse ad Alex: lei era la Pendragon
con più cervello e non ci avrebbe messo molto a capire.
«Finito? Abbiamo molto lavoro da sbrigare».
Il poliziotto gli diede uno strattone tutt’altro che gentile
e lo incitò a camminare verso l’uscita, dove i
lampeggianti blu della volante erano ancora accesi e un piccolo
gruppetto di fotografi di gossip stavano per fare un salto di
qualità.
«Sarà una lunga notte».
Merlino ancora non sapeva quanto avesse ragione; non
l’avrebbe mai nemmeno sognato.
***
«Tu
che cosa?!».
Alex non riusciva a credere alle proprie orecchie.
«Mi dispiace, io…».
«
Ti dispiace?
Ma come hai potuto essere così stupido?!»,
urlò a bassa voce, fermando un maggiordomo per prendere da
un vassoio una tartina e ficcarsela in bocca tutta intera. Fame nervosa.
Artù abbassò il capo e si fissò le
scarpe lucide. «Volevo sbarazzarmi di quella corona, lasciare
andare ciò che non sono più… Pensavo
che questa fosse l’occasione giusta, ma ho
sbagliato».
«E pensare che Merlino ti aveva pure raccontato che
l’aveva rubata!». Sbuffò sonoramente,
stringendo la pochette nella mano e trattenendosi solo per miracolo
nello sbattergliela in testa più e più volte.
Artù le prese un polso e cercò il suo sguardo per
scusarsi per l’ennesima volta, ma Alex si liberò
fin troppo facilmente e sibilò: «È
meglio che vada a prendere un po’ d’aria, o sento
che potrei dire qualcosa di cui poi mi pentirei».
Detto questo si allontanò e senza sapere bene dove andare
per trovare un po’ di solitudine si diresse verso la prima
uscita che vide, la quale la portò nell’immenso
giardino circondato su tutti e quattro i lati dalle costruzioni. Si
trattava del Cortile Superiore, altrimenti chiamato Quadrangolo proprio
per la sua forma.
Alex camminò fino alla statua equestre situata in un angolo
del giardino e si sedette sul bordo della bassa fontana alla sua
sinistra, maledicendo le sue scarpe aperte: un sassolino le si era
infilato sotto al piede, facendole vedere le stelle.
Sospirò di sollievo, togliendosi i tacchi e posando i piedi
nudi sull’erba curata. Aprì la pochette e
controllò ancora il cellulare, sperando disperatamente che
Merlino le avesse scritto un SMS per rassicurarla. Ovviamente non era
così.
Abbattuta, l’occhio le cadde sul pacchetto di sigarette che
aveva infilato nella pochette all’ultimo minuto.
Non aveva proprio ripreso a fumare, ma da quando aveva smezzato quella
sigaretta con Merlino molte volte non riusciva più a farne a
meno, specialmente quando era agitata o preoccupata.
Quello era proprio uno di quei momenti, ma in giro non vedeva nessun
posacenere. Provò a pensare ad altro per cacciare via
l’improvvisa voglia di nicotina, ma non ci riuscì.
Dicendosi che tanto peggio di così non poteva andare,
voltò le spalle alla porta a vetri da cui era uscita e con
una gamba sotto l’altra si accese una sigaretta.
Il primo tiro le fece rilassare le spalle e alzare il viso verso la
luna che illuminava quella notte scura e senza stelle. Non fece in
tempo a fare il secondo però che una voce la fece trasalire
dallo spavento, tanto che la sigaretta cadde nell’acqua della
fontana.
«Taylor, ti ho cercata ovunque. Non sapevo fumassi».
Alex si voltò e rimase di stucco quando vide il Principe
William in persona fermarsi ad un metro dalla statua, colto di sorpresa
almeno quanto lei.
«Mi perdoni, da dietro l’ho scambiata per la
signorina Swift», spiegò, imbarazzato.
Alex non seppe se ringraziarlo o meno, ma di una cosa era certa: era
stata colta in flagrante mentre fumava, scalza per giunta, dal Duca di
Cambridge, l’unica persona che avrebbe potuto decidere le
sorti del loro ospedale. Doveva trattarsi di un incubo,
nient’altro.
Impacciata, si alzò e si coprì i piedi nudi col
vestito, torturandosi le mani. «Sono desolata, Vostra
Altezza, io…».
«La capisco, questi eventi possono essere molto
stressanti».
Si avvicinò tenendo una mano in tasca e sotto la luce della
luna stiracchiò un sorriso nervoso, gettando
un’occhiata circospetta alle sue spalle, dove un uomo dalle
spalle possenti strette nello smoking – una delle sue guardie
del corpo, magari? – lo fissava così intensamente
da non sbattere nemmeno le palpebre. Quindi le sussurrò:
«Non è che me ne offrirebbe una? Se mia moglie
dovesse scoprirlo mi ucciderebbe, ma non riesco a resistere».
Alex si sforzò per non guardarlo a bocca aperta e
frettolosamente tirò fuori il pacchetto di sigarette,
lasciando che ne prendesse una tra le labbra. Poi
gliel’accese proteggendo la fiamma dell’accendino
con le mani.
«Grazie, le sono debitore, signorina…?».
«Ahm, sì, Greenwood. Mi chiamo Alexandra
Greenwood, è un vero onore conoscervi».
Il Principe le strinse la mano con un sorriso e poi si sedette sul
bordo della fontana, invitandola a fargli compagnia. Alex si
accomodò, rigida come un pezzo di legno e muta come un
pesce, nonostante la sua voce interiore le urlasse di sfruttare il
momento per parlargli dell’ospedale. Era lì per
questo!
Si schiarì la gola e aprì la bocca per dare
finalmente voce ai pensieri, ma il Principe William la interruppe sul
nascere, chiedendo: «Lei sa per caso
cos’è successo poco fa? Ho sentito che
è arrivata la polizia – in effetti non si fa che
parlare di questo – ma nessuno sa con esattezza
perché».
L’infermiera sospirò e si massaggiò la
fronte. «Credo di aver capito che uno degli ospiti volesse
mettere all’asta una corona che era stata rubata
cinquant’anni fa».
«Oh, capisco. Una bella sfortuna».
«Già…».
«Com’è che ho l’impressione
che conosca quell’ospite?».
Alex sollevò di scatto il capo ed incrociò lo
sguardo del Duca, sorridente e comprensivo allo stesso tempo. Non
poté far altro che confessare.
«Perché è così. E ammetto di
essere preoccupata per lui. Ho paura che possa finire nei guai,
nonostante sia del tutto innocente».
«Se è davvero innocente, allora non ha nulla da
temere».
«Grazie», mormorò abbozzando un sorriso.
Nemmeno nel più strano dei sogni il Principe William
l’avrebbe consolata, indi per cui doveva per forza trattarsi
della realtà. Questo la convinse a raccogliere tutto il
proprio coraggio. Peccato che prima che potesse sfoderarlo il Principe
spense la sigaretta sotto un piede e poi la raccolse per nasconderla
all’interno di un fazzoletto di seta.
Alzandosi in piedi, esclamò: «Beh, signorina
Greenwood, la ringrazio infinitamente per questi cinque minuti di
relax. E mi raccomando, che resti un segreto tra noi».
Alex sgranò gli occhi, guardandolo allontanarsi. No, non
poteva lasciarsi scappare quell’occasione. Aveva una promessa
da mantenere.
«Vostra Altezza, aspettate!», urlò senza
nemmeno rendersene conto, spinta dalla disperazione.
Il Duca di Cambridge si voltò e la osservò
stupito mentre gli correva incontro a piedi nudi sopra la ghiaia, i
tacchi e la pochette stretti al petto.
«Forse mi prenderete per pazza, forse è
ciò che sono, ma la verità è che io
non sono venuta qui per fare beneficenza, ma per parlare con voi. Non
pensavo che ne avrei mai avuta la possibilità, ma se il
destino ci ha fatto incontrare dev’esserci
senz’altro un motivo».
«Vostra Altezza», si intromise la guarda del corpo,
affiancando il Principe con aria allarmata. «Forse
è il caso che torniate dentro».
«No, voglio sentire cos’ha da dire»,
rispose il Principe William.
Alex si sentì così felice che non
provò nemmeno più dolore alle piante dei piedi.
Gli spiegò di essere un’infermiera e di lavorare
nel reparto oncologico più grande ed attrezzato del Galles,
al quale però già da tempo mancavano i fondi
necessari al mantenimento delle costose macchine e al finanziamento dei
laboratori di ricerca. Senza l’aiuto dello Stato decine di
bambini rischiavano il trasferimento in altre strutture e per le loro
famiglie sarebbe stato davvero insostenibile. Desiderava solo che quei
bambini potessero ricevere le cure necessarie, un reparto oncologico in
grado di accoglierli e di dare loro speranza.
«Mi appello al vostro buon cuore. Siete la nostra unica
speranza ormai».
Il Principe William la guardò con espressione
compassionevole, cosa che non la rassicurò per niente.
Quando poi le prese una mano tra le sue, racchiudendola in maniera
quasi protettiva, fu ancora peggio.
«Sono molto dispiaciuto per la situazione in cui si trova il
suo ospedale e ammiro la sua determinazione, ma dubito che io possa
concretamente fare qualcosa. Di queste questioni se ne occupa il
Ministero della Sanità e…».
«Ho capito, non avete bisogno di aggiungere altro»,
disse pacatamente, ritirando la mano. «Grazie per avermi
ascoltata, Vostra Altezza».
Dopo aver chinato il capo con reverenza, lo superò e
rientrò nel lussuoso corridoio, rischiando di andare a
sbattere contro uno dei tanti carrelli portavivande.
Sotto gli occhi sbigottiti dei maggiordomi, Alex saltellò
prima su un piede e poi sull’altro per rimettersi i tacchi;
quindi chiese loro dove fossero tutti quanti.
«Nella St. George’s Hall, signorina».
«Molte grazie».
Raggiunse il salone dov’erano state apparecchiate due
lunghissime tavolate e quasi rimase senza fiato di fronte
all’altissimo soffitto dalle travi in legno costellato da
centinaia di stemmi, ai dipinti appesi alle pareti e ai mezzi busti
d’alabastro posti tra le finestre ogivali e i caminetti
accesi.
Quando si riscosse, percorse quasi di corsa l’intero
corridoio tra le tavolate, scorgendo solo di sfuggita tutte le
celebrità del cinema e della moda per i cui autografi, se
fosse stata pienamente in sé, avrebbe dato di tutto.
L’unico viso che le interessava al momento era quello di
Artù e quando finalmente lo trovò aveva il
fiatone.
«Alex, non riuscivo più a trovarti! Vieni, ti ho
tenuto il posto», esclamò, alzandosi per scostarle
la sedia dal tavolo.
«Ce ne andiamo», disse invece
l’infermiera, afferrandolo per il braccio e trascinandoselo
dietro con tanta forza da impedirgli di obiettare.
Non fecero in tempo però a raggiungere la porta
d’uscita. Il Principe William fece la sua entrata trionfale
dall’altro capo della sala e Alex sentì i suoi
occhi bruciarle tra le scapole non appena iniziò a parlare
al microfono, salutando i presenti e ringraziandoli della loro presenza.
Spiegò che dopo cena si sarebbe svolta l’asta di
beneficenza il cui ricavato sarebbe stato donato a vari ospedali
oncologici del Paese e li elencò tutti. Alex
sperò fino all’ultimo che aggiungesse un nome alla
lista, ma non accadde. Allora si voltò, adirata, e come
sospettava trovò gli occhi del Duca di Cambridge su di
sé.
Facendole un’impercettibile cenno col capo, concluse:
«Ovviamente non sono solo queste le strutture che ne
avrebbero bisogno, perciò invito ognuno di voi, nel vostro
piccolo, a fare del bene ovunque ce ne sia bisogno. Ricordate le vostre
origini, tornate nelle cittadine in cui siete nati e cresciuti e
partite da lì. Che Dio vi benedica e lunga vita alla
Regina».
«Lunga vita alla Regina!», rispose in coro tutta la
sala e Alex vide con la coda dell’occhio Artù
vacillare al suo fianco, come se fosse sul punto di svenire. Questo la
distrasse dalla rabbia cocente che avrebbe di certo riversato in
qualche modo poco proficuo, magari urlando che erano tutti degli
ipocriti, il Principe compreso, oppure facendo molto di peggio.
«Ti senti bene?», gli chiese preoccupata,
posandogli una mano sul braccio.
Artù si portò una mano sul petto e la
guardò negli occhi, respirando profondamente più
e più volte. Alla fine annuì e con un fil di voce
disse: «Andiamocene».
Alex si trovò perfettamente d’accordo con lui e
uscirono dal salone mentre uno dopo l’altro i maggiordomi
portavano all’interno i loro carrelli portavivande, stracolmi
di pietanze degne della famiglia reale.
«Quindi sei riuscita davvero a parlarci»,
ricapitolò Artù, anche se con una smorfia sul
viso, sdraiato sui sedili in pelle della loro auto.
Alex sapeva che non gliela stava raccontando giusta e aveva paura che
stesse peggio di quanto affermasse, ma il re di Camelot era testardo
almeno quanto lei.
«Sì, ma non è servito a nulla.
L’intero viaggio è stato inutile: non abbiamo le
donazioni per l’ospedale, tu hai perso per sempre la tua
corona e Merlino è stato portato in centrale. Si
è rivelato un disastro colossale!».
«Magari il Principe questa sera parlerà con sua
moglie, ci penserà su e cambierà idea. Io lo
facevo di continuo, sai?».
«Io non ci conterei troppo», bofonchiò.
All’improvviso Artù rovesciò gli occhi
ed iniziò ad annaspare alla ricerca d’aria. Alex
capì subito quello che stava succedendo e per prima cosa
urlò al loro autista di premere quel maledetto acceleratore,
poi tirò su il vetro divisorio in modo che non sentisse
nulla di ciò che sarebbe accaduto di lì a poco.
L’infermiera si chinò accanto ad Artù e
posò le mani sul suo petto, come aveva visto fare da
Merlino, concentrandosi per richiamare a sé la magia. Si
sforzò e pregò con ogni fibra del suo corpo, ma
non accadde nulla. Che avesse esaurito ogni sua risorsa quella notte,
mettendo a soqquadro la propria suite?
«E ora che cosa faccio? Che cosa diavolo faccio?!»,
strepitò, gli occhi colmi di lacrime.
«La valigetta», rantolò Artù.
«Che cosa?».
«Merlino ha detto… la valigetta».
Alex ricordò ciò che Merlino le aveva detto quel
pomeriggio, quando gli aveva chiesto che cosa ci fosse nella valigetta
che teneva tra le mani:
«Una
cosa di cui, se tutto andrà per il meglio, non avremo
bisogno».
A quanto pare quella sera nulla voleva andare per il meglio.
Alex tirò giù ancora una volta il vetro scuro che
li separava dall’autista e gridò di accostare
immediatamente.
«Ma, signorina, siamo in autostrada!».
«Per la miseria, alla prima piazzola si fermi! È
un’emergenza!».
Furono i due minuti più lunghi della vita di Alex, impotente
di fronte ad un Artù che riusciva a malapena a respirare,
con un rivolo d’acqua che dalla bocca gli colava lungo la
guancia.
Quando finalmente sentì l’auto rallentare e
deviare sulla sinistra, Alex aprì la portiera ancor prima
che si fermasse del tutto e balzò giù,
sollevandosi il vestito per non inciamparvi.
«Apra il bagagliaio, si sbrighi!», urlò
all’autista, il quale corse a fare come gli aveva chiesto.
Alex afferrò la valigetta e disse che potevano rimettersi in
marcia verso Londra.
«Posso sapere che succede?!», chiese
l’autista, asciugandosi con un fazzoletto la fronte imperlata
di sudore, nonostante tirasse un vento freddo più invernale
che primaverile.
«Il mio amico è diabetico e al galà si
è lasciato un po’ andare. Ma ho la situazione
sotto controllo, sono un’infermiera. Lei pensi soltanto a
portarci all’ospedale più vicino il più
velocemente possibile».
Detto questo sì che l’autista si
rilassò. Saltò al volante e corse a
più non posso, tanto che alla fine fecero la strada che
all’andata avevano percorso in un’ora in poco
più della metà del tempo.
Alex, intanto, fece per aprire la valigetta, ma non ci
riuscì a causa della combinazione numerica.
«Qual è il codice? Artù, il
codice!», urlò, dandogli leggeri schiaffetti sulle
guance. Ormai era andato, non poteva più contare sul suo
aiuto.
Alex cercò di pensare come Merlino e la prima cosa che le
venne in mente fu l’anno in cui lui e Artù si
erano conosciuti. Inserì la data, mettendoci uno zero
all’inizio, ma la serratura non si sbloccò. Decise
di provare allora con la data in cui Artù era perito: un
altro buco nell’acqua.
«Che tu sia maledetto, Merlino! Tu e il momento in cui ti ho
conosciuto!».
Alex si prese la testa tra le mani, lasciando che le lacrime le
scivolassero sulle guance mentre Artù aveva smesso del tutto
di agitarsi: il suo polso era quasi impercettibile ormai, il suo
respiro un soffio d’aria freddissima.
«Aspetta», mormorò ad un tratto,
realizzando ciò che aveva appena detto. «Il
momento in cui l’ho conosciuto…».
Alex trafficò freneticamente con i numeri, inserendo
l’anno del loro primo incontro. Non funzionò
nemmeno quello, ma non disperò, dato che ufficialmente loro
due si erano incontrati non una ma ben due volte.
«Due-zero-uno-zero», mormorò e socchiuse
gli occhi, pregando.
Finalmente sentì la serratura sbloccarsi e
scoppiò in una risata di sollievo, che ben presto le
morì in gola quando si trovò davanti un cristallo
bianco inserito in una specie di anello di metallo.
«E con questo che cosa dovrei farci?», si
domandò frustrata.
Le bastò però prenderlo tra le mani
perché una scossa la travolgesse da capo a piedi,
lasciandola stordita ed indebolita. Sentì le energie venirle
meno a poco a poco, mentre le incisioni sul metallo si accendevano una
dopo l'altra, emettendo un bagliore caldo, e il cristallo accumulava al
suo interno sempre più luce: stava assorbendo dal suo
organismo ogni traccia di magia ancora rimastale.
Seguendo il proprio istinto portò il cristallo sopra al
petto di Artù ed immediatamente si sentì
trascinare verso di esso, come se fosse stato prepotentemente attratto
da qualcosa.
Alex ricordò all’improvviso l’idea che
Artù aveva avuto e a come lei stessa l’aveva
definita: una calamita attira magia negativa. Merlino era riuscito a
costruirne un prototipo e stava funzionando!
Il corpo del re di Camelot infatti iniziò a rilassarsi, il
suo respiro tornò regolare e poco tempo dopo
riaprì gli occhi, fissandola con sguardo spaesato e confuso.
Alex si lasciò andare ad un sospiro di sollievo e si
spostò, sedendosi sul sedile di pelle di fronte al suo.
«Come ti senti?», gli chiese, ignorando il cerchio
alla testa.
Artù non rispose ed indicò nella direzione del
cristallo. «Le tue mani…».
Alex abbassò di scatto lo sguardo e solo allora
avvertì l’intenso calore che le stava bruciando i
palmi delle mani. Immediatamente mollò la presa e quasi
svenne, guardando la propria pelle ustionata. Ciò che le
impedì di perdere i sensi fu il lento sollievo che
provò dal momento in cui smise di impugnare
l’anello: pian piano le ferite si cicatrizzarono, la pelle si
rigenerò e i palmi delle sue mani tornarono come nuovi,
senza che lei facesse alcunché.
Incredula incrociò lo sguardo di Artù, poi
contemporaneamente posarono gli occhi sul cristallo che ora conteneva
una specie di macchia scura, una goccia liquida che girava e rigirava
all’interno della pietra chiara, cercando forse una via
d’uscita.
«È quello che penso che sia?»,
domandò Alex.
«Il cristallo ha estratto ed intrappolato un po’
della magia nera di cui è impregnato il frammento di
spada», disse Artù, esterrefatto.
Come ipnotizzato allungò una mano verso il cristallo, ma
Alex lo fermò prima che fosse troppo tardi. Si tolse in
fretta la sciarpa dal collo e con essa intorno ad una mano
sollevò l’anello per sistemarlo di nuovo nella
valigetta, che richiuse con uno scatto secco.
«È meglio che nessuno lo tocchi per un
po’, almeno fino a quando non l’avremo fatto vedere
a Merlino», affermò ed Artù
annuì, tornando a sdraiarsi sui sedili di pelle.
Affaticato com’era, ci mise meno di un minuto ad
addormentarsi. Alex lo imitò poco dopo, sfibrata e con il
manico della valigetta ancora stretto in pugno.
***
Era da poco passata la mezzanotte, quando Merlino rientrò
nella hall dell’albergo col cravattino sciolto e i capelli
spettinati.
Alla centrale di polizia l’avevano subissato di domande ed
era riuscito a risultare tanto credibile nel dimostrarsi completamente
estraneo ai fatti da ritardare di qualche giorno la perquisizione a
casa sua, agevolato anche dal cambio di giurisdizione. Avrebbe avuto
tutto il tempo necessario per trasferire nel bunker tutte le poche cose
che ancora avrebbero potuto comprometterlo o aumentare i sospetti nei
suoi confronti. In poche parole, se la sarebbe cavata.
Di certo nulla di tutto ciò sarebbe successo se
Artù non si fosse comportato da idiota come suo solito, ma
era talmente stanco e ansioso di sapere che cos’era successo
al galà durante la sua assenza che non ce la fece proprio ad
arrabbiarsi con lui. Quando entrò nella suite, inoltre, lo
trovò sdraiato sul divano mezzo addormentato, col volto
pallido e sciupato.
Immediatamente gli portò una mano sulla fronte e gli
controllò le pulsazioni con due dita sul suo collo, ma i
suoi parametri sembravano nella norma.
«Merlino, sei arrivato finalmente».
Il mago si sollevò e lo guardò irritato,
incrociando le braccia al petto. «Sì, grazie
tante. Vi sentite bene?».
«Sì, grazie ad Alex».
«In che senso?».
Artù indicò la valigetta posata sul tavolo da
pranzo e poi gli raccontò per filo e per segno tutto
ciò che era successo da quando era stato portato via dai due
agenti.
Riportò quello che Alex gli aveva detto a proposito della
sua infruttuosa conversazione col Principe William, descrisse le
occhiate che i due si erano lanciati proprio prima che se ne andassero
e poi gli spiegò come Alex gli aveva salvato la vita
utilizzando il cristallo che c’era nella valigetta.
«L’autista ci ha lasciato di fronte
all’ospedale, ma abbiamo solo fatto finta di entrare. Quando
se n’è andato siamo andati da McDonald’s
e Alex ha mangiato tipo il doppio di me. Non sapevo che la magia
causasse questi effetti collaterali».
Merlino quell’ultima parte l’aveva ascoltata solo
distrattamente, troppo assorto nell’esaminare il cristallo
dentro cui si agitava ancora quel concentrato di magia nera.
«Probabilmente posso fare qualche modifiche perché
l’anello non si surriscaldi», disse a se stesso.
«Ma il fatto che funzioni è…
strabiliante».
«Merlino, mi stai ascoltando? Se permettiamo ad Alex di
utilizzare la magia dovremo metterla a dieta e farle fare molto
allenamento, perché se continua così rischia di
prendere peso e…».
«Alex. Devo andare da Alex, scusatemi».
Merlino scorse Artù boccheggiare come un pesce fuor
d’acqua, indeciso se dire ciò che stava pensando
oppure no. Alla fine non gli diede il tempo di fare una scelta,
chiudendosi la porta alle spalle.
Lui la sua decisione l’aveva finalmente presa.
***
Alex si alzò faticosamente dalla chaise-longue e,
infastidita dal modo in cui le stavano tempestando la porta di pugni,
gridò: «Arrivo, arrivo!».
Si sciolse anche l’ultimo pezzo di treccia, lasciando che i
capelli lunghi le scivolassero intorno al viso e sulla schiena, ed
aprì la porta, trovandosi di fronte Merlino.
«Oddio, sei tornato!», urlò al settimo
cielo, gettandogli le braccia al collo. Stringendolo ancora forte, gli
tirò un pugnetto su una spalla. «Aspettavo una tua
chiamata, un messaggio, qualsiasi cosa!».
Merlino la scostò da sé prendendole i fianchi tra
le mani e la guardò dritta negli occhi, accostando la fronte
alla sua.
«Questa mattina mi hai detto che hai il cuore a
pezzi», esordì, cogliendola alla sprovvista.
«Lo sai che esagero, non devi prendermi sempre sul
serio».
«Mi hai chiesto che ho intenzione di fare in
merito», continuò imperterrito e il suo sguardo
determinato e il modo in cui le cingeva i fianchi la fecero
rabbrividire. Si era per caso addormentata sulla chaise-longue?
Merlino avanzò d’un passo, stringendosi Alex
addosso, così da potersi chiudere la porta della suite alle
spalle. Le prese il mento tra due dita e concluse: «Ho
intenzione di smetterla di farti soffrire, di far soffrire entrambi. Ho
intenzione di essere felice, di vivere, senza pensare al dolore o alla
morte. Carpe diem».
Alex corrugò la fronte, chiedendosi se fosse impazzito o se
la stesse prendendo soltanto in giro. Forse la stanchezza e le ore
passate in centrale gli avevano fatto perdere il contatto con la
realtà.
«Okay Merlino, forse è meglio
se…», iniziò a dire, ma fu bruscamente
interrotta dalle labbra del mago che intrappolarono le sue in un bacio
mozzafiato, travolgente e passionale.
In qualche modo, nonostante tutte le sue terminazioni nervose stessero
andando in cortocircuito, una parte del suo cervello rimase
razionalmente lucida, tanto che mentre Merlino la sollevava e
continuando a baciarla la trasportava verso la camera da letto, Alex si
diede un pizzicotto sul braccio. Lo sentì, lo
sentì come sentì le labbra bollenti di Merlino
iniziare a tracciare un percorso invisibile sul suo collo, scendendo
sulle clavicole e verso lo sterno. Era tutto vero, non si trattava di
un sogno, e lei non si era nemmeno lavata i denti.
Ad un passo dal letto, Merlino le fece toccare di nuovo terra solo per
sfilarle di dosso il vestito e calciarlo via come se fosse uno straccio
qualunque. A quanto pare lui non era affatto combattuto in proposito.
Alex gli tirò via la giacca e poi la camicia, maledicendo i
bottoni e i baci sul collo di Merlino, di cui però non
avrebbe mai fatto a meno.
Alla fine riuscì a spogliarlo e per non esitare con le dita
sulle sue cicatrici corse a sbottonargli i pantaloni. Merlino
però la fermò e la gettò sul letto,
salendole sopra per dedicarsi al suo corpo con minuzia e dedizione.
Alex avrebbe tanto voluto che la prendesse subito, ma non appena le
mani e la bocca di Merlino iniziarono ad esplorarla ci
ripensò, invasa da scariche di piacere tanto intense da
desiderare che non si interrompesse nemmeno per sfilarsi i pantaloni.
«Dio, perché hai aspettato tanto?»,
disse ad un tratto, giocando con i suoi capelli mentre le baciava il
ventre piatto.
«Pensavo a cosa fosse più giusto per
te». Merlino risalì fino a morderle il labbro
inferiore, tirandolo delicatamente. Quindi le fece inarcare la schiena
perché i loro bacini si scontrassero.
«Come potrebbe non essere giusto?»,
esalò lei, piantando le unghie tra le sue scapole.
«Non ti fa un po’ ribrezzo, pensare a me come
Dragoon?».
Alex aprì gli occhi e lo fissò per qualche
secondo prima di ribaltare la situazione con un colpo di reni ed
esclamare con tono malizioso: «Ma tu non sei come Dragoon
adesso, non mi pare».
«No, ma…».
«Shhh». Alex gli posò un dito sulle
labbra e si sistemò meglio a cavalcioni su di lui.
Mentre trafficava per slacciarsi il reggiseno, Merlino le
scostò i capelli dal viso con entrambe le mani, fino a
sollevarsi per accarezzarli con le labbra.
«Grazie a Dio te li sei sciolti»,
mormorò. «Quell’acconciatura non si
poteva vedere: sembravi un cucciolo di stegosauro».
L’infermiera inarcò le sopracciglia e fece
penzolare il reggiseno di fronte al suo viso. «Il cucciolo di
stegosauro più sexy che si sia mai visto, mi
auguro».
«Assolutamente».
Merlino afferrò il reggiseno e con uno strattone improvviso
la fece cadere di nuovo su di sé, così da poter
assaporare ancora una volta le sue labbra e godere del calore della sua
pelle sulla propria.
«Ti amo, Alexandra Greenwood-Pendragon»,
sussurrò il mago respirando tra i suoi capelli, mentre lei
gli baciava il pomo d’Adamo.
«Io non ho mai saputo il tuo cognome».
«Il mio vero cognome? Non lo sa nessuno, neppure
Artù. Tutti mi hanno sempre conosciuto come Merlino, o
Emrys».
«Emrys», ripeté assorta, ricordando la
lettera firmata da quella Louise. Lei lo chiamava in quel
modo…
Merlino le accarezzò il viso con una mano, cercando il suo
sguardo. «Ehi».
«Ehi», lo imitò, abbozzando un sorriso.
«La verità è che non mi importa se hai
più di mille anni, se hai amato altre donne prima di
me… Quello che conta è che ora il tuo cuore
appartenga a me».
«Fino alla fine dei miei giorni»,
sussurrò in tono solenne.
Il sorriso di Alex si allargò e si addolcì mentre
si lasciava abbracciare e rotolava con lui tra le coperte, liberandosi
a vicenda degli ultimi indumenti che indossavano.
Sotto il suo corpo, Alex gli accarezzò il viso e gli
scostò i capelli dalla fronte con tenerezza. «Ti
amo anche io, Merlino».
Il mago si chinò sul suo orecchio e le sussurrò
il proprio cognome.
Alex sentiva il cuore scoppiarle: era l’unica al mondo a
conoscere quel dettaglio di lui, lei che fino ad un paio di mesi prima
non sapeva quasi nulla sul suo conto. Aveva confidato a lei quel
segreto, perché l’amava, e Alex non
l’avrebbe mai e poi mai tradito.
Suggellò quella promessa con un bacio e smise ufficialmente
di sognare.
***
«No…
Il tempo per tutti questi spargimenti di sangue è finito. Mi
biasimo per quel che sei diventata, ma… questo deve
finire».
«Sono una
Grande Sacerdotessa, nessuna lama forgiata dall’uomo
può uccidermi».
La trapassò
con Excalibur, mozzandole il respiro.
Col suo corpo adagiato
contro il proprio, gli occhi implacabili fissi nei suoi colmi di dolore
e sulla sua bocca dischiusa, sussurrò: «Questa non
è una lama forgiata dall’uomo. Come la tua,
è stata forgiata dal fuoco di un drago».
Spinse più a
fondo la lama e Morgana trasalì nuovamente, poi
serrò gli occhi e si abbandonò alla sua stretta.
Merlino la
accompagnò a terra, quasi con dolcezza, e sotto gli occhi di
Artù estrasse Excalibur dal suo ventre.
Le labbra della strega
si mossero, ma non un suono echeggiò nel silenzio spettrale
del bosco. Merlino la guardò impassibile, nonostante una
parte di lui stesse morendo con lei, mentre le sue ultime parole gli
rimbombarono nella mente grazie alla telepatia.
"C’è
stato un tempo in cui ti amavo. Come siamo arrivati a questo?".
Col cuore in frantumi,
Merlino cacciò indietro i ricordi e non rispose alla sua
domanda. Anche volendo, non avrebbe saputo cosa dire.
«Addio,
Morgana».
La strega smise di
respirare e i suoi occhi rivolti verso il cielo in tempesta divennero
vitrei.
Merlino
spostò il capo di lato per evitare di versare lacrime per
lei – non di fronte al suo re, – e raggiunse
Artù, sorretto dalla pietra contro cui l’aveva
fatto sedere perché riposasse. Continuava a fissare la
sorellastra, ma c’era qualcosa di diverso nel suo sguardo,
qualcosa che Merlino non riuscì a decifrare.
Quando finalmente
Artù sollevò il viso verso il suo, lo
trovò sfigurato dal dolore, dalla rabbia e dal disprezzo.
«Che cosa hai
fatto?», gli chiese una volta, due, tre, sempre
più forte, fino a quando non scoppiò a piangere
contro la sua spalla, chiamando il nome di Alex.
Con il terrore a
gelargli il sangue nelle vene, Merlino si voltò lentamente
verso il corpo di Morgana e una chioma bionda e spettinata gli
offuscò la vista.
«No»,
mormorò incredulo, sopraffatto dal dolore. «No,
Alex, no…».
Raggiunse il corpo della
ragazza gattonando sul terreno ricoperto di foglie secche e rami
spezzati, ferendosi i palmi delle mani e stracciandosi i pantaloni.
Si chinò sul
suo corpo immobile e più e più volte vi
avvicinò le mani, senza mai trovare la forza di afferrarlo.
Quando ci riuscì, le pelle gelata del suo viso e i suoi
spenti occhi verdi lo fecero urlare dalla disperazione.
La strinse forte a
sé, alcune ciocche dei suoi capelli biondi tra le dita, ma
nonostante la chiamasse a squarciagola Alex non si risvegliava. E le
parole di Morgana continuavano a tormentarlo, ripetendosi ancora e
ancora nella sua mente, pronunciate però dalla voce di Alex:
"C’è stato un tempo in cui ti amavo. Come siamo
arrivati a questo?".
Merlino aprì gli occhi di scatto e fece per mettersi a
sedere sul letto, ma un peso sul proprio petto lo fece desistere.
Abbassò gli occhi e scorse un braccio sottile e candido
abbandonato all’altezza dei suoi capezzoli. Lo percorse fino
a raggiungere una spalla nuda, su cui scivolavano le stesse ciocche di
capelli biondi che aveva impugnato nell’incubo da cui era
appena uscito. Solo allora riuscì a tornare nel mondo reale,
ricordando la nottata appena trascorsa con Alex.
Spostò con delicatezza il suo braccio, posandolo sul
cuscino, e si avvicinò al suo corpo, mettendosi sdraiato su
un fianco e puntellandosi su un gomito per scostarle i capelli dal viso
ed ascoltare il suo respiro contro la propria gabbia toracica. Chiuse
gli occhi, iniziando a seguire anche i battiti del suo cuore, e quando
si fu calmato del tutto tornò ad appoggiare la testa sul
cuscino, la punta delle dita ad accarezzarle lentamente
l’avambraccio.
Fare l’amore con Alex era stato un vero sogno ad occhi
aperti, il sogno migliore e più appagante che avesse mai
fatto. In un certo senso si era sentito rinascere, era tornato a vivere
sul serio dopo anni in cui aveva fatto solo finta, recitando una parte
con così tanta naturalezza da imbrogliare persino se stesso.
Era felice, felicissimo, eppure la paura per ciò che prima o
poi, inevitabilmente sarebbe accaduto era ancora lì, dietro
l’angolo, pronta ad assalirlo.
Non aveva paura di morire, non ne aveva mai avuta. Aveva paura di non
riuscire a proteggere le persone che amava, aveva paura della
sofferenza e del dolore che la propria morte avrebbe portato nei loro
cuori. In parole povere, di ciò che avrebbe provato Alex nel
dirgli addio.
E da qualche tempo a quella parte aveva anche un’altra paura,
forse anche peggiore della precedente: temeva per la sicurezza di Alex,
per la sua vita.
Erano giorni ormai che tutte le volte che gli incubi gli facevano
rivivere la morte delle persone a lui care, esse venivano
all’improvviso sostituite da Alex. Era successo con la morte
di Freya, con quella di suo padre, di Artù e ora con quella
di Morgana. Ma mai prima d’allora l’incubo aveva
subìto tante variazioni: i personaggi non avevano mai
cambiato le loro battute, né si erano comportati in maniera
differente da come li ricordava.
Morgana non gli aveva mai rivolto quelle parole e dubitava che in punto
di morte avrebbe anche solo potuto pensarle: la rabbia e
l’odio l’avevano cambiata, rendendola ben diversa
dalla principessa di cui un tempo Merlino era stato innamorato.
Perciò, da dove provenivano? Perché in ogni
incubo Alex si ritrovava morta tra le sue braccia? Che quei dettagli
non fossero solo un caso, un riflesso delle sue paure più
grandi, ma piccoli indizi che col tempo avrebbero costruito un vero e
proprio sogno premonitore?
Avrebbe continuato a tormentarsi all’infinito, ponendosi
sempre le stesse domande, se Alex non avesse rivolto il viso verso il
suo, sorridendogli con gli occhi verdi socchiusi.
«Buongiorno raggio di sole», sussurrò
accarezzandole una guancia con il pollice.
Alex mugugnò, stropicciandosi gli occhi con una mano ed
intrecciando le gambe alle sue. «Sto ancora
sognando?».
«Non è stato un sogno», rispose Merlino
sorridendo, per poi sollevare il capo e posare le labbra sulle sue in
un bacio appena accennato. Alex lo afferrò per la nuca e non
contenta gliene strappò un altro.
Poi il mago l’avvicinò di più a
sé e le avvolse le braccia intorno alla schiena, iniziando
ad accarezzarle i capelli, dalle mille sfumature bionde a causa del
sole che brillava fuori dalla finestra panoramica.
Alex si schiarì la gola e tracciando con la punta
dell’indice delle forme immaginarie sul suo petto –
una delle quali gli riportò alla mente il simbolo dei druidi
– gli chiese timidamente: «Lo so che non dovrei
chiedertelo, ma quand’è stata l’ultima
volta che hai… insomma…».
«Il 2 Settembre 1939, il giorno prima che la Gran Bretagna
dichiarasse guerra alla Germania».
Alex deglutì sonoramente, ma non gli chiese altro. Merlino
si pentì della propria sincerità: probabilmente
avrebbe dovuto glissare, o almeno dare quell’informazione con
un po’ più di tatto… Così
sembrava davvero che avesse contato i giorni dall’ultima
volta in cui aveva fatto sesso.
Era comunque troppo tardi per rimangiarsi tutto e fu la stessa Alex a
riprendere la parola, anche se in tono ancora più incerto.
«Quindi tu e Myra davvero non avete
mai…?».
«Sei proprio gelosa di lei, eh?»,
esclamò, interrompendola.
Le baciò teneramente la fronte, massaggiandole una spalla, e
la rassicurò dicendo: «No, tra me e Myra non
è mai successo niente. E d’ora in poi non dovrai
più preoccuparti di lei».
«Che intendi dire?».
«L’agente Fisher è venuto a dirmi che ha
dato le dimissioni e si è trasferita dai suoi genitori a
Swansea».
Alex si sollevò, tirandosi il lenzuolo sul seno.
«E per quale motivo avrebbe dovuto farlo?».
«Non ne sono sicuro, ma credo che si sia sentita in colpa per
quello che ha fatto insieme a Keith. Mi ha scritto una lettera, ma
è stata criptica a riguardo. Però voleva che ti
dicessi che le dispiace e che sei fortunata ad avermi
accanto».
«Come minimo la seconda parte te la sei inventata»,
lo prese in giro, sorridendo furbescamente.
Merlino sgranò gli occhi, fingendosi mortalmente offeso.
«Che cosa? Non lo farei mai!».
«Allora lo pensa solo perché non ti conosce
veramente! Non sa che sei uno stregone complessato, misterioso e con
un’ambigua ossessione per un certo
Artù».
«Ambigua ossessione per… Ah, questo non dovevi
dirlo!».
Alex ridacchiò e saltò giù dal letto
portandosi dietro il lenzuolo, sfruttando i secondi che Merlino
sprecò nel cercare e nell’infilarsi i boxer.
Quando la raggiunse in salotto, Alex inciampò in un lembo
del lenzuolo e insieme caddero sul divano, ridendo sommessamente mentre
le loro bocche erano impegnate a fare altro.
«Perché volevi sapere quand’è
stata la mia ultima volta?», le chiese ad un tratto,
sogghignando.
«No, nessun perché…
curiosità», rispose evasiva, tanto che Merlino si
scostò dal suo viso e con le braccia appoggiate ai lati del
suo capo la fissò intensamente.
«Dimmelo. Giuro che non mi offendo, se… Insomma,
sono passati settantacinque anni, è normale che io sia un
po’ arrugginito».
Alex lo guardò sorridendo e gli prese il viso con una mano
fino a fargli venire le labbra da pesce. «Stai zitto,
stupido. È stato il miglior sesso della mia vita».
«È la verità? Giuri?».
«Te l’ho detto che sei complessato!».
Merlino rise e si tuffò di nuovo sulle sue labbra, scendendo
ad accarezzarle le spalle, i seni, i fianchi sopra e sotto al lenzuolo
che l’avvolgeva.
Si staccarono l’uno dall’altra, atterriti, solo
quando sentirono dei colpi alla porta e poi una voce inconfondibile.
«Alex? Alex, sei sveglia?».
L’infermiera guardò il mago, chiedendogli
silenziosamente che cosa doveva fare. Merlino si alzò in
fretta e furia e aiutandola ad alzarsi la spinse verso la camera da
letto, dove Alex si infilò il pigiama e urlò,
fingendosi assonnata: «Arrivo, un attimo!».
Alex si diresse verso la porta e prima di aprire guardò
Merlino nascondersi dietro l’angolo e mostrarle il pollice
rivolto verso l’alto. Allora abbassò la maniglia e
sorrise ad Artù, dandogli il buongiorno.
«Ciao», la salutò lui, fortunatamente
senza dar segno di voler entrare. «Scusami, ti ho
svegliata?».
Alex scrollò le spalle. «Come mai qui?
È successo qualcosa?».
«In realtà sì: ho perso
Merlino».
«Hai
perso
Merlino?», ripeté, rischiando di scoppiargli a
ridere in faccia.
«Ieri notte mi ha detto che sarebbe venuto da te, ma poi non
è più tornato. Il suo letto è ancora
intatto e, indovina, non mi risponde al cellulare. Hai idea di dove
possa essere?».
«Ahm… no, nessuna».
Artù iniziò a guardarla con sospetto.
«Ma ieri è venuto qui, giusto?».
«Sì, sì, certo. È venuto a
chiedermi come stavo e a ringraziarmi per averti salvato la vita, ma
poi se n’è andato. Pensavo fosse tornato da
te».
Il re di Camelot la fissò, meditabondo, e Alex si
sforzò di mantenere l’espressione più
seria del suo repertorio. Alla fine Artù dovette crederle,
perché sospirò e disse:
«Proverò a chiamarlo ancora. E quando si
rifarà vivo giuro che gli farò passare un brutto
quarto d’ora».
«Mi sembra giusto. Tienimi aggiornata, mi
raccomando».
Artù annuì e si allontanò,
già con il cellulare in mano. Alex chiuse la porta alle sue
spalle e non fece in tempo a tirare un sospiro di sollievo che Merlino
la sollevò per le gambe, facendogliele intrecciare intorno
alla propria vita.
«
Ti sembra
giusto, eh?», le chiese, mordendole il labbro.
«Grazie per averlo salvato, comunque».
«Figurati», rispose Alex, offrendogli il collo e
stringendo una mano tra i suoi capelli. «Non potremo
mentirgli per sempre. Se dovesse scoprire che noi
due…».
«C’è solo una cosa che possiamo fare per
entrare nelle sue grazie».
«Che cosa?».
Merlino incatenò lo sguardo al suo.
«Sposarci».
Alex non riuscì a far altro che guardarlo a bocca aperta per
un paio di interi minuti. Quando ritrovò il controllo della
propria voce, squittì: «Stai
scherzando?».
«Mai stato più serio di così. Sposami,
Alexandra Greenwood-Pendragon».