Con gli occhi
annebbiati dalle lacrime guardavo il cielo rosso ardente, come se fosse
in fiamme.
Sopra di me vedevo una figura alata, la figura alata che mi aveva
accoltellato poco prima. Chi credevo un amico, e invece si è
rivelato mio nemico.
Il coltello d'argento che avevo nello stomaco se ne stava
lì, a distruggermi lentamente.
Il sangue continuava ad uscire dalla ferita, macchiando di cremisi la
maglietta candida.
Sentivo l'aria fredda che urtava il mio corpo, nel vano tentativo di
fermare la mia caduta.
Come se la sola aria bastasse.
Lacrime di rabbia e dolore continuavano a uscire, senza sosta.
Devo togliere il coltello, pensai, con la mente accecata dal dolore.
Sapevo che il metallo mi stava uccidendo lentamente.
Afferrai il manico dell'arma con tutta la decisione che avevo in quel
momento.
Storsi il naso e, con il vento che mi urlava nelle orecchie, strinsi il
manico.
Devo farlo, devo farlo, devo farlo.
Esitai un attimo, pensando qual era la cosa giusta da fare.
Ci pensai per non so quanti interminabili istanti, poi, mi decisi.
Accompagnato da un urlo straziante, la lama uscì dal mio
corpo.
Dopo aver buttato il coltello non so dove, misi le mani sopra la
ferita, e gemetti dal dolore. Sentivo il sangue uscire, e macchiarmi le
mani.
Non auguro a nessuno di fare una fine così, con un buco
nello stomaco, con il vento che ti scompiglia i capelli e tu,
lì, incapace di fare qualsiasi cosa.
Per tutta la mia breve vita da mutaforma avevo sempre pensato di morire
da vecchio, in modo più tranquillo, con i miei cari che mi
sarebbero stati accanto in quel momento definitivo e orribile.
Non così, accoltellato da colui che credevi un amico e poi
fatto cadere dal cielo verso una morte quasi certa.
Mentre precipitavo, sentii che il dolore si era attenuato, ma di poco.
Che sia ringraziato il cielo, non ce la facevo più. Il
dolore era diventato insopportabile.
Sembrava come se il tempo si fosse fermato, o per lo meno, rallentato.
Ogni respiro pareva che durasse minuti, ogni battito di ciglia lo
stesso.
Ad un certo punto, sentii come una specie di torpore irradiarmi le dita
dei piedi e delle mani.
Era molto piacevole, così tanto piacevole che mi fece venire
sonno.
Non devo dormire. Non devo dormire.
Sbattei gli occhi, e guardai il cielo, che si era oscurato; ora era
tinto di blu, e le prime stelle iniziavano a brillare.
Poi la vista cominciò ad annebbiarsi leggermente.
Non devo dormire. Non devo dormire.
Spalancai gli occhi, e cercai di rimanere sveglio. Pensai a tutte le
cose belle che mi erano capitate nel corso della mia vita, chi e a che
cosa sono diventato.
Il torpore si irradiava sempre più nel mio corpo, come se
avesse sostituito il sangue.
I miei occhi combattevano per non chiudersi.
Non devo dormire. Non devo dormire.
Pensavo in continuazione queste parole, nella speranza che mi tenessero
sveglio.
Oramai non sentivo più nulla. Sentivo come se il mio corpo
non fosse più sotto il mio controllo.
La mia vista si annebbiò ancora di più, e sentii
le mie palpebre farsi pesanti.
Lottavo per tenere aperti gli occhi, ma la voglia di chiuderli e
lasciarsi andare era più forte di me.
Così li chiusi.
Feci un piccolo sorriso, felice di non dover sentire più
dolore o nient'altro. Sentivo solo benessere e pace.
Poi sospirai, sollevato, e il mio ultimo respiro uscì dalle
mie labbra, insieme al mio ultimo pensiero: «Non devo
morire.»
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