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XXII. Confessioni notturne
«Sì»
fece eco Anna, con un mormorio a mezza bocca. «Sarà una
lunga notte.» Mani sui fianchi e sguardo rabbuiato, fissava lo
scrittoio della zia Woodhams come fosse stato alla radice delle loro
disgrazie. Alzò la voce: «Non la passeremo impreparate:
ci accampiamo in biblioteca. Aspettami là. Io devo prendere una
cosa.» E prima che Lily potesse indagare, Anna
era già fuori dalla camera.
Risalì il corridoio fino alla
propria stanza da letto e vi
sgusciò dentro, riaccompagnando la porta. Si ritrovò costretta a
far
quanto aveva giurato di non osare mai più: andò alla
cassettiera, si accovacciò sui talloni e aprì
l’ultimo cassetto.
Guardò il libriccino di ruvida pelle. Guardò la temuta valigetta. Prese tempo:
il tempo di inghiottire un respiro profondo, di battere lentamente le
palpebre, di umettare le labbra. Infine, raccolse il libro e
sollevò la valigetta; adagiò entrambi sul letto e si
spostò verso il comodino, per
riesumare la darringer dal fondo del cassetto. In un gesto dettato
dall'abitudine, abbassò il cane e si accertò che il
tamburo ruotasse a dovere. Nel mentre, con la coda dell’occhio,
colse la propria figura, intrappolata nello stretto abito nero,
riflettersi nello
specchio del vanity.
Allora, alzò lo sguardo e si mirò apertamente.
Se era in
procinto di affrontare quel che temeva, se era giunto il momento di
tornare ai vecchi tempi, tanto valeva farlo a dovere.
Cinque minuti più tardi, lo specchio incorniciava una donna in vesti inequivocabilmente maschili ― e di conseguenza altamente funzionali. Solo per la comodità Anna aveva davvero
interesse, tanto da non percepire nulla di intollerabile o
inappropriato nel panciotto marrone che stringeva la camicia di
calicò, dal colletto sbottonato, e nascondeva le bretelle dei
robusti pantaloni di tela di cotone; erano arrotolati un palmo
sotto al ginocchio, in modo da lasciar scoperti gli stivaletti. Anna non
indossò né giacca, né fazzoletto al collo ma,
gettando sulla schiena la treccia corvina, quasi rimpianse di aver
lasciato ai Martin il fido cappello dalle falde larghe.
*
Lily sembrava aver
interpretato alla lettera le parole di Anna. Aveva portato in
biblioteca una pila di coperte e aveva riempito il carrello delle
vivande con gli avanzi del pranzo e con il bottino
di una mezza razzia della dispensa: acqua, tè e caffè, pane e
focaccine, una zuppiera di fagioli bolliti con pancetta e un vassoio da
carne di manzo in salsa alle erbe, un’insalata di uova soda e
barbabietola, quanto restava di un tortino alle mandorle e noci.
Anna, entrando in biblioteca, trovò la cameriera alle prese con
il
caminetto: stava smuovendo le braci, aizzando le fiamme contro i grossi
ciocchi
coperti di muschio ed edera secca. Lei sistemò libro e
valigetta sopra la greppina, stando attenta a non pestare Milton,
trotterellatole in contro a coda diritta. Da Lily si attendeva una
banale
esclamazione di sorpresa, in merito al cambio d’abito, ma
l’amica ― pur dopo un’occhiata non priva di
perplessità ― assai più pragmaticamente accennò
alla greppina, mise via l'attizzatoio e chiese: «Che cosa sono
quelli?»
«Li ho portati con me dalla Nova Scotia.» Anna stava
battendo il perimetro della biblioteca: controllò che le porta
dello studio, del parlour e dell’atrio fossero chiuse a chiave ―
e che ogni chiave fosse nella toppa. «Avevo sperato di non
dovermene mai più servire. Ma, arrivate a questo punto, spero
invece che potranno esserci utili.» Scrutò la veranda,
attraverso la portafinestra: non c’erano luci, nella campagna, e una nuova falce di luna, sottile come la punta di
un’unghia, languiva in un tetro cielo senza stelle.
A quel punto, Anna tornò indietro,
recuperò valigia e libro e sedette a gambe
incrociate accanto a Lily. Alle spalle il camino, davanti a loro il
basso tavolino che per tante sere aveva ospitato il Backgammon dello
zio Woodhams.
I due ganci scattarono sotto le dita di Anna.
La valigetta venne aperta.
Lily sbatté le palpebre.
La valigetta custodiva un massiccio revolver: un
Beaumont-Adams del Settanta. Ma, di tutto il contenuto, la rivoltella
era l'oggetto meno peculiare. V’erano un accerino, una
robusta corda color polvere, mezza
dozzina di sacchetti di tela e un panno verde ― il quale, palesemente,
avvolgeva
altri
oggetti. Infine, un pugnale protetto da una grezza
guaina di pelle. Anna
lo sollevò: il manico era pallido, percorso da fitte
venature, simile alla corteccia di un albero. Mise a nudo la
lama: larga, opaca e
ricurva. «Questa è una delle poche armi che
possono ferire uno
spirito» annunciò, senza enfasi né timori.
«Il manico è di corno. Il corno di un cervo bianco,
catturato durante la luna
piena.»
Lily dischiuse le labbra ma, quale che fosse l’esclamazione di
tramortita incredulità che Anna le lesse nello guardo, non
sembrò riuscire a cavarsela di bocca. Milton le balzò in grembo, ma lei gli badò.
Anna rinfonderò il pugnale. Prese il panno verde. Lo
srotolò. La stoffa rivelò una lunga piuma d’aquila,
con il calamo avvolto in un tendine. Insieme alla piuma c’era quella che Lily scambiò
per una piccola ciotola malamente intagliata in una pietra dai
riflessi vetrosi: blu e verdi. Si trattava, in realtà, di una
conchiglia.
Senza dir nulla, Anna aprì uno dei sacchetti di tela e ne
estrasse dei mazzolini di erbe essiccate. Usò l'accerino
per bruciarne un’estremità. Poi, sistemò il
mazzetto all’interno della conchiglia e vi agitò sopra la
piuma con una delicatezza solenne.
Un profumo dolciastro
riempì la sala e i sensi delle ragazze.
Anna osservò il fumo: il filo bianco saliva in fitti riccioli.
'Si
contorce' constantò. 'Avverte il male che infesta la casa.'
Alzandosi in piedi, pose la conchiglia sulla mensola del caminetto e
disse: «Queste
sono erbe purificatrici. Da sole non basteranno a tenere lontana
l’Ombra, ma le renderanno più difficile usare i suoi
poteri.»
Lily inghiottì. Guardò il lampadario che sibilava sopra le loro teste.
«Perché? Non è sufficiente la luce?»
«La luce è fondamentale. Ecco perché temo che
tenterà di spegnerla. Non ricordi l’altra notte, come si
è accanita contro la lampada?»
Lily si strinse Milton al petto; la bestiola, tranquilla e inconsapevole, faceva le fusa.
Anna guardò Lily: le parve penosamente diversa dalla vivace
ragazza con lo sguardo di bambina che, un mese addietro, l’aveva
travolta
di domande, mentre prendevano il tè nell’attico. Adesso
era
una giovane donna pallida, spenta e abbattuta. Gli eventi degli ultimi
giorni dovevano averle gettato addosso una tale spaurita confusione
eppure, nonostante tutto, non aveva abbandonato Bon Fleur Place.
Non aveva abbandonato Anna.
E Anna capì che era il momento di dirle la verità. O,
almeno, la parte di verità dalla quale ― sperava Anna ― Lily
avrebbe potuto trarre un poco di sollievo, forse, una volta passata la
nuova ondata di confusione. Tornò seduta: la schiena contro il tavolo, una gamba stesa verso
il camino, l’altra tirata al petto. Sfilò l’anello
dal dito e lo affidò al palmo di Lily.
La cameriera alternò uno sguardo di mesta perplessità tra gioiello e
proprietaria.
«L’anello fu fatto realizzare da mio padre»
esordì Anna. «Ma la
pietra apparteneva a mia madre. È un cristallo di rocca. I
nativi la usano durante le cerimonie di purificazione. Questo
cristallo fu benedetto da una sciamana Ahawiti.» Fece una pausa. Lily non disse nulla. E Anna
riprese: «Il che gli ha conferito una capacità
particolare. Pensa all’ago di una bussola. Pensa a come è in
grado di puntare verso nord. Il cristallo funziona in modo simile. Quando
qualcuno di ― come posso dire? Quando qualcuno di non umano causa
una morte, o un atto malvagio e violento, lascia sempre una
traccia. Un calco invisibile, un solco, una traccia impossibile da
percepire per la maggior parte dei viventi.»
«La fontana!» esclamò Lily, in un soffio di spaurita realizzazione.
«Ed è accaduto per puro caso» continuò Anna,
poggiando stancamente l’avambraccio sopra il ginocchio.
«Nel momento in cui misi piede in questa casa, giurai a me stessa
che non avrei più nemmeno sfiorato questi oggetti. Ma... mi sentivo in colpa. Così, per
rimediare, decisi di indossare l’anello. ― Una sciocchezza, lo
so! ― In ogni caso, ricordi quel pomeriggio, quando ricevemmo la visita
di William Hall e tu venisti a chiamarmi, in giardino? Io ero sul bordo
della fontana. Avevo appena visto il cristallo farsi rosso. È
così che la pietra percepisce la traccia di malvagità. ―
Portai l’anello con me quando andai a King Street, dopo aver
parlato con Bert. E anche là, nello studio, il cristallo divenne
rosso. Se potessi entrare nella vecchia dimora dei Mallory, nella
camera dei bambini, sono sicura che il cristallo avrebbe la stessa
reazione.»
Lily restituì l’anello, cauta e timorosa. «Quindi» disse, con un fil
di voce, «tutti questi oggetti appartenevano a tua madre?»
«Tutti, tranne il revolver» sospirò Anna. «Quello era di mio padre.»
«E perché... perché tua madre possedeva oggetti simili?»
Anna, indossato di nuovo l’anello, spostò lo sguardo sul
fuoco. Temporeggiò. Pensò alle parole adatte. Infine,
scelse le più semplici: «Mia madre discendeva da una
stirpe di donne ― una stirpe antica, precedente all’arrivo dei
coloni. Avevano il dovere di sorvegliare il mondo degli spiriti. Erano
poste a sentinella del fragile muro che protegge i vivi dai morti, gli
uomini da coloro che umani non sono più ― o non lo sono mai
stati. Ogni volta che una minaccia ha gravato sugli Ahawiti, ogni volta
che esseri oscuri e senza nome sono strisciati fuori dalle foreste,
una donna della mia famiglia l’ha respinta.» Mentre parlava, con gli occhi scuri rivolti alle fiamme e la luce che
danzavatra le dure linee del suo volto bruno, fu come se la sua vita passata fosse stata evocata nella stanza, al
pari di uno spettro risvegliatosi dopo un lunghissimo sonno, giunto da
una terra remota, bella e primitiva. Nel suo racconto echeggiava
il lento trotto dei cavalli pezzati ― quanti giorni aveva
trascorso in sella! ― e lo sciabordio delle acque gelide di torrenti che scorrevano tra le foreste di aceri e querce ― quante notti passate all'aperto, davanti a un misero fuoco! E,
sullo sfondo del racconto, baluginava la dorata
quiete del grano nelle pianure e al bianco silenzio
delle
montagne, il tremito delle foglie rosse d'autunno e il turbinio del
vento d'inverno, l'accorato ululato dei lupi e l'incresparsi delle
acque dei
laghi al passaggio dei castori. «Mia madre, però, era
diversa. Era irrequieta.
Insofferente alle regole. Non si accontentava di proteggere il
villaggio, non attendeva che le minacce avanzassero, andava a scovarle
di proposito. Non che non tornasse spesso tra gli Awahiti, ma per la
maggior parte del tempo viveva come una raminga, vestiva come un uomo e
non temeva i bianchi più di quanto temesse gli spiriti. Un
giorno, a furia di girovagare, incontrò mio padre. Lui andava
inseguendo un criminale ma finì accerchiato da un branco di
Teste
Volanti―»
«Di cosa?» saltò su Lily, a tanto così dallo strozzarsi col suo stesso fiato.
«Le Kanontsistóntie. Divorano carne umana.»
Lily, a occhi sgranati, riuscì solo a portarsi le mani davanti
alla bocca, prendendo a schiacciare il labbro inferiore tra i
polpastrelli.
«Mia madre gli salvò la vita» continuò Anna.
«O lui la salvò a lei. Raccontavano sempre versioni
opposte. ― Comunque, come ti ho già
raccontato, dopo la mia nascita, mia madre decise di riprendere a
viaggiare ― insieme a mio padre. Il villaggio considerò la sua
decisione come un tradimento. Non per l’aver
scelto un bianco come compagno, non era certo la prima né
l’ultima, ma per aver condiviso con lui i segreti sul mondo degli
spiriti. Non si fidavano. Credevano che simili
conoscenze, in mano ai bianchi, potessero diventare estremamente
pericolose.» Scosse il capo. «E come dargli
torto? Guarda in che situazione ci troviamo!» Sospirò. «Lei non fu
più la benvenuta e io non vidi mai il villaggio. Non per questo,
però, mia madre abbandonò la missione. Mio padre imparò da lei e io imparai da entrambi. E
quando gli spiriti erano calmi, c’era sempre una taglia da
riscuotere e quei soldi erano le nostre entrate.» Tacque. Strinse il pugno e fissò l’anello. Udì
Lily respirare forte e a fatica, come se cercasse di non lasciarsi sottrarre l'ultimo brandello di calma.
Il silenzio non si interruppe nemmeno quando Lily racimolò la
forza di levarsi in piedi. Andò al carrello. Si versò del
tè. Ne prese qualche sorso; poi, ancora
con la tazzina tra le mani, finì col collassare sulla poltrona.
«Allora... allora è questo che intendevi, quando mi hai
detto che la signora Woodhams è una tua responsabilità.
Stai raccogliendo l’eredità di tua madre.»
Anna rilassò la mano. «Avrei dovuto farlo molto tempo
fa.» Continuò a osservare il fuoco. «Dopo la morte
dei miei
genitori, sapevo benissimo quali fossero i
miei doveri, ma io non sono mai stata né forte né
coraggiosa. Non come mia madre. Ho sempre odiato
l’oscurità. Odio le creature che la abitano. Ho sperato
così tanto che quaggiù, in Inghilterra, potessi essere
soltanto Anna Hawkins. Senza quei doveri. Senza quelle responsabilità.»
«Non sarà da me che riceverai parole di biasimo...» esalò Lily.
Anna ascoltò il ticchettio dell'orologio dello zio Woodhams,
nella tasca del panciotto, ripetersi per sei volte.
«Però... ci
ho provato.» I suoi occhi si allontanaro dal fuoco,
riparandosi tra pieghe del palmo. «Quando mio padre
morì, non avevo nessun desiderio di continuare la vita del
cacciatore di taglie. Andai a Westville, con l'intenzione di restarci
solo per l'inverno. Là viveva una donna, amica di mio
padre, che gestiva una pensione: lavorai per lei in
cambio di vitto e alloggio. Il marito,
invece, lavorava in una delle miniere di carbone della zona. Era a capo
delle squadre di operai. Fu da lui che venni a sapere che nella cava
c'erano stati dei disordini. Alcuni minatori avevano detto di
aver visto una creatura aggirarsi nelle gallerie. ― Una figura nera. Con gli occhi rossi.»
Lily si agitò sulla poltrona.
«Girava
voce che fosse il fantasma di uno dei minatori morti nel crollo
avvenuto una decina di anni addietro.»
«E lo era?» sussurrò Lily.
«Sì, lo era ― come scoprii in seguito, quando cominciai a indagare di nascosto
―
ma un altro dettaglio rendeva la faccenda ancor più allarmante
agli occhi dei minatori: a una settimana dalla prima apparizione, il
figlio maggiore del
proprietario della cava era morto precipitando giù dalla
terrazza
della magione di famiglia. Nessuno capì se fosse stato un
incidente o un suicidio.
L'unica
cosa certa era che quel giovane, Michah Tremblay, era morto alla
vigilia dei suoi ventuno anni. Padre e madre, fratello e
sorella sconvolti e distrutti.
Ma Michah era nato dal primo matrimonio del signor Tremblay: un
anno come vedovo e subito s'era trovato una nuova moglie. Michah e il
fratellastro, Gideon, avrebbero dovuto ereditare entrambi
la miniera e tra i due non correva buon sangue. Allora ce ne impiegai,
di tempo, per mettere insieme i pezzi! Ma adesso l'intera faccenda
sembra persino banale: Gideon Tremblay aveva usato l'anima di quello svenutato minatore per
liberarsi del fratello maggiore. E stava progettando di uccidere anche
la sorella. Non sopportava neppure l'idea di rinunciare a quel poco di
eredità destinata alla dote di lei. Io
sapevo cosa doveva fare: una notte, mi intrufolai all'interno della
magione... ma... ma arrivai troppo tardi. Vidi quella ragazza... non
aveva che quattordici anni... in piedi, sul cornicione della
terrazza. Corsi verso di lei―»
Anna serrò le labbra: le mancava la voce. Strizzò le
palpebre e chinò il capo, strofinando i polpastrelli lungo le sopracciglia.
Mai, prima di allora, aveva raccontato la
storia a voce alta.
«Non
certo la prima che volta che vedevo un cadavere!
Eppure, quella piccola ragazza, sul
prato nero... il suo collo piegato in quel modo innaturale... e i suoi
occhi... aperti... che fissavano me, lì, impietrita sulla
terrazza, come a chiedermi 'perché non mi hai salvata?'
'Perché non ti sei mossa prima?' Non riuscirò mai a
togliermela dalla testa - quell'immagine.»
Lily andò di nuovo a sedersi accanto ad Anna. Da principio non
disse nulla: la guardò e adagiò la piccola mano bianca
sulla spalla di Anna. «E che ne fu di Gideon Tremblay?»
«Mi sorprese sulla terrazza. Io ero così sconvolta che gli
dissi tutto. Gli dissi che sapevo cosa aveva fatto.»
«E lui?»
«Rise,
dicendo che avrebbe raccontato alla polizia
che ero stata io a spingere Nelly. Ero una ladra, una sporca meticcia,
che era stata sorpresa in casa. Quale giudice non gli avrebbe
creduto? Quale difesa potevo offrire io, davanti a un'accusa del
genere?» Anna strinse i denti. «Sua sorella giaceva
cadavere là sotto e lui... quel miserabile moccioso, un pallido
flaccido ragazzino... sogghignava e rideva! Io persi la testa. Lo
aggredii. Non per ucciderlo, no... ma... lui sbatté il
capo contro il marmo della balaustra e―» Anna dovette tacere: due
volte il petto si alzò e si abbassò in un respiro. «Col poco di lucidità che mi restava, frugai il
suo corpo in cerca dell'oggetto che gli permetteva di controllare
l'Ombra. Fui fortunata. Lo trovai: un medaglione con la foto di quelli
che dovevano essere stati i figli del minatore. Scappai via e appena fui
abbastanza lontana dalla magione, bruciai la foto. Nei giorni
successivi, feci fondere il medaglione. Ma allora ero giù sulla
strada per Yarmouth. Lasciai la città quella stessa notte.
Scappai letteralmente dall'altro capo del Paese.»
Anna guardò la poltrona vuota: la poltrona dello zio Woodhams.
Le parve di poterlo ancora vedere lì, il caro zio, sorridente e
ottimista, la pipa in mano e lo sguardo luminoso, colmo di paterna
gentilezza. E ricordò il sogno fatto dopo la
scoperta della fontana. Nel sogno, aveva gettato via l’anello. E le sue mani si ricoprivano di sangue.
Anna aveva davvero le mani sporche di sangue.
Del sangue di suo zio. Come del sangue di Nelly Tremblay. E di Gideon Tremblay.
Chiuse occhi. Le
tremava il respiro. «Non mi perdonerò mai. Il cristallo mi
ha avvertito. Sapevo che qualcosa di terribile era accaduto in questa
casa. E ho voluto ignorarlo ugualmente. A tutti i costi. Di
proposito. Ho ucciso io mio zio.»
«Anna!» esclamò Lily. «Non dire certe cose! Tu... tu hai chiesto ai Blackwell!»
«Ho fatto un tentativo, non ho ricevuto risposta e tanto
m’è bastato per sentirmi autorizzata a fingere che non
fosse successo nulla.»
«La signora Woodhams e il signor Hall sono i soli
colpevoli» insistette Lily. «Tu non hai nessuna colpa. Tu
non hai fatto nulla di mal―»
«Questo è il punto!» esclamò Anna. «Io non ho fatto nulla. Ma avrei dovuto. Avrei dovuto continuare a domandare. A cercare. A comprendere.»
Lily scosse la testa. «Anche se così
fosse, a questo punto, a cosa possono servire tutti questi ‘avrei
dovuto’?» Spostò la mano sul viso di Anna: con la
punta delle dita tracciò un carezza dal sopracciglio allo
zigomo, poi coprì la guancia di Anna con la piccola mano calda.
«Cosa dobbiamo fare adesso: questa è l'unica
domanda che conta.»
Anna si sforzò di annuire. Ricambiò il tocco di Lily, stringendole con delicatezza il polso della mano sollevata.
«Hai
ragione. Devo pensare all'adesso. E te lo prometto,
Lily. Ti terrò al sicuro. Non perderò anche te.»
«Lo so. Io mi fido di te.»
Cadde un breve silenzio.
«Che cos'è il libro?» chiese, poco dopo, Lily. «Ha l’aria vecchia.»
«Un cimelio di famiglia. I segreti degli spiriti furono sempre
tramandati di racconto in racconto. Ma, una volta
anziana, la madre di mia nonna decise di adottare i metodi dei coloni e
affidarsi all’inchiostro.» Anna raccolse il
libro e ne sollevò la copertina. Mostrò a Lily le pagine
ingiallite: ritratti di esseri mostruosi, volti deformi e corpi
bestiali, si alternavano a paragrafi scritti in una lingua che, per
usando lettere familiari, non era certo inglese.
«È la lingua degli Ahawiti?» tentò di raccapezzarsi Lily.
«Sì.»
«Dunque è una... specie di grimorio?»
«Non conosco quella parola.»
«Un libro di incantesimi. Come quello delle streghe.»
«Oh, no. Nessun incantesimo. Qui c’è solo quanto
serve a respingere le cose malvagie. Nient'altro. Non lo apro da
anni. I disegni mi danno gli incubi. Però, mi sembra di
ricordare che la mia antenata si fosse presa la briga di trascrivere
qualcosa... » Sfogliò le fragili pagine.
«...riguardo alle Ombre.»
«Qualcosa?» pigolò Lily, in precario equilibrio tra
angoscia e speranza. «Come un altro modo per cacciarle
via?»
«Se siamo fortunate.»
Non lo furono.
Anna ritrovò le pagine dedicate alle Ombre: la somiglianza tra
le scheletriche figure sulla pagina e la creatura che si nascondeva a
Bon Fleur era lampante, ma districarsi in quella selva di
calligrafia sbiadita e linguaggio vecchio di tre generazioni fu arduo.
Anna era abituata a riconoscere il suono
delle parole, non la grafia; e le sue conoscenze erano comunque
circoscritte a termini quotidiani. Non aiutava neppure il fatto che
fosse passato moltissimo tempo dall'ultima volta
che Anna aveva pronunciato anche una sola frase nell'ostica lingua
materna.
Passarono le ore.
Le erbe si consumarono. Il fuoco ebbe bisogno di nuovo
bracciate di legno. Lo studio e la veglia vennero intervallate da una
cena rapida: nessuna delle due ragazze era nello stato
d'animo adatto a rimpinzarsi, solo Milton si leccò i baffi,
reclamando la sua doppia razione a suon di fusa e miagolii.
Giunse mezzanotte.
L’una, le due, le tre.
Non accadde nulla. La villa era silenziosa e la notte taceva.
Alle tre e venti in punto, Anna si alzò dalla poltrona e
scosse la spalla di Lily, che sonnecchiava sulla greppina.
«Ho trovato qualcosa!»
«Buone notizie?»
«Dipende dai punti di vista.»
«Oh...»
«Se ho capito bene» sospirò Anna, con il libro aperto tra le mani, «la
mia bisnonna ha trascritto il resoconto di tutti gli incontri con le
Ombre di cui avesse memoria. Lei non ne affrontò mai, ma
chi che venne prima di lei sì. Sette volte. In cinque
casi, le Ombre furono sconfitte distruggendo l’oggetto a cui
erano legate. Una volta, chi dominava l’Ombra si pentì, bruciò di persona l'oggetto e rimandò
indietro la Nalusa. Ma nel settimo caso, fu
troppo tardi.»
«Troppo tardi per cosa?»
«Troppo tardi per sfruttare il legame tra la Nalusa e l’oggetto.»
Lily, muta e sperduta, fissava Anna.
«Più una Nalusa si nutre di
anime altrui e più si allontana da chi fu in vita.
Un’Ombra alla quale dovesse venir concesso di continuare a
nutrirsi per anni finisce col diventare qualcos’altro. Non
più uno mero spirito, ma una creatura fatta di materia solida: le
ossa tornano ad essere ossa. La sua carne torna ad essere carne.
Ciò che le mie antenate ne dedussero fu che, se in questa nuova
creatura non v’è più nulla di umano, l’oggetto che un tempo era amato dall’essere umano perde
ogni potere di controllo. Né può essere usato per bandirla dal mondo dei vivi.»
«E da quale punto di vista questa può essere una buona notizia?» gemette Lily.
«Forse non avremo bisogno di scoprire quale sia l’oggetto e
sottrarlo a mia zia.» Anna chiuse il libro.
«Possiamo combattere l’Ombra apertamente. Come fecero le
mie antenate: la trafissero con una freccia dalla punta
infuocata.»
«Quindi che cosa vorresti fare?» biascicò
Lily. «Attendere che l’Ombra continui a uccidere,
così che diventi un bersaglio a cui appiccar fuoco?»
«È pur sempre un piano di riserva.»
«Che non potremmo attuare, se le prossime vittime saremo noi!»
Solo in quel momento, Anna vide l’ovvio quanto insuperabile ostacolo.
Si passò una mano sugli occhi: le sembrava di avere le tempie strette in una morsa.
«Giusta osservazione.»
«Possibile che non ci sia nemmeno un’indicazione su come individuare l’oggetto?» riprese Lily.
«Non una parola! Almeno non di quelle che sono riuscita a
tradurre.»
«Anna...»
«Mh?»
«Quanto tempo è che non dormi?»
«Non ho tempo di dormire.»
«Ma ne hai bisogno.»
«Non ci riuscirei comunque.»
«Tentar non nuoce: concediti un po’ di riposo e magari ne
gioverà anche la traduzione del libro. Resterò io
sveglia. Prometto di chiamarti al minimo rumore.»
Anna protestò. Lily insistette, imperterrita, e alla fine il
buon senso l'ebbe vinta: Anna, pur con una certa intima riluttanza,
mise via il libro e si distese
sulla greppina. Lily prese il suo posto in poltrona. Entrambe si
raggomitolarono nella propria coperta, mentre Milton, a pancia
all’aria,
si rotolava sul tappeto davanti al camino.
«Anna» chiamò Lily, sottovoce.
«Sì?»
«Perdonami.»
«Per cosa?»
La cameriera sospirò; teneva un gomito contro il bracciolo, il
mento sul palmo e gli occhi bassi. «Per non averti creduto subito.
Se avessi saputo quale peso ti porti sulle spalle.»
Anna abbozzò un sorriso. «Lascia stare»
sbadigliò. «Ho sbagliato io. Non dovevo pretendere che
credessi alla mia storia senza darti le giuste spiegazioni.»
Chiuse
gli occhi.
In capo a dieci minuti, al contrario delle sue previsioni,
già dormiva della grossa.
Il sonno fu profondo, ma inquieto. L’angoscia presente si fuse al
dolore passato. Anna vide la scarna croce che aveva piantato sulla
tomba di suo
padre e vide l’angelo di pietra che vegliava quella dello zio
Woodhams. Sentì di nuovo le labbra di William Hall sulla sua
bocca e sentì le mani nere della Nalusa attorno al suo
collo. Si svegliò, di soprassalto, credendo di soffocare. Aveva dormito per due
ore, ma le sembrava di aver poggiato la testa sul cuscino solo un minuto prima.
Si sentiva più fiaccata e confusa di prima.
E qualcuno la stava effettivamente toccando: era Lily, che le
scrollava una spalla.
«Anna! Anna!» Il sussurro tremava di preoccupazione. «C’è qualcuno sulla veranda!»
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➽
Note autrice.
Ben ritrovati,
lettori cari!
Dopo una vergognosa assenza di più di due mesi, torno a pubblicare. A mia
discolpa posso solo dirvi che il 2017 è
iniziato col botto. Nel senso che mi sono ritrovata con un botto di roba di
cui occuparmi e il tempo da dedicare alle revisioni - e relativa
energia mentale necessaria - si è ridotto in modo drastico.
MA non ho gettato la spugna e, se qualcuno bazzica ancora da queste
parti con la voglia di sapere come andrà a finire la storia,
eccoci di
nuovo qui!
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