ReggaeFamily
Welcome
to the Skye Sun Hotel!
[Shavo]
Leah
era una ragazza niente male. Non potevo certo definirla di una
bellezza abbagliante, però era particolare: presentava dei
lineamenti marcati, un viso spigoloso e grandi occhi scuri. I capelli
corti e sottili le ricadevano disordinati sul capo e sfioravano
appena le spalle; di corporatura era esile, non mostrava chissà
quali forme, ma sfoggiava un look semplice e dalle tonalità
scure, nonché un atteggiamento fiero e sicuro di sé che
la rendeva intrigante.
O
almeno, quelle furono le mie prime impressioni quando la conobbi. Si
era subito offerta, notando che stavo male, ed ero certo di non aver
fatto una buona impressione su di lei. Mi ero seduto sul divanetto
della hall che ancora tremavo, sudavo freddo e mi sentivo
tremendamente spossato.
Daron
e John entrarono nell'albergo poco dopo che Leah si fu allontanata,
preceduti dal tassista e dal nervoso receptionist che ci aveva
accolto.
Il
batterista si guardò intorno e mi individuò, quindi mi
raggiunse.
«Ti
senti bene?» mi domandò con le sopracciglia aggrottate.
«Di
merda» bofonchiai. Avevo come l'impressione che tutto, intorno
a me, stesse volteggiando.
John
stava per dire qualcosa, ma proprio allora Leah si ripresentò
di fronte a me con una bottiglia d'acqua da due litri.
«Ecco
a te, Shavo... giusto? Che razza di nome è mai questo?»
blaterò, allungandomi la bottiglia.
«Sì,
giusto. È un nome armeno, ma Shavo è la forma
contratta» spiegai distrattamente, per poi tracannare diversi
sorsi d'acqua. Era fresca e dissetante, mi fece sentire subito
meglio.
«La
forma contratta di cosa?» indagò la ragazza con
curiosità, accovacciandosi nuovamente di fronte a me.
Lanciai
un'occhiata perplessa a John e lui sollevò le mani in segno di
resa, per poi allontanarsi e raggiungere Daron al banco della
reception.
«Shavarsh»
risposi infine, bevendo ancora qualche sorso.
«Capisco.
Da quelle parti avete tutti quanti dei nomi così...
singolari?» mi interrogò visibilmente divertita.
«Non
ti piace?»
Si
strinse nelle spalle. «Non saprei se mi piace o non mi piace.
So solo che non lo avevo mai sentito. A Las Vegas la gente si chiama
Jim o Tom, forse John... e Nathan, Patrick, Samuel...»
Sollevai
una mano per fermarla. «Okay, messaggio ricevuto. E comunque,
il mio amico si chiama John, ed è armeno pure lui» le
feci notare poi.
«Oddio,
adesso mi vuoi dire che tutti e tre provenite da quel posto? Gesù,
che ci fate in Giamaica?»
Sorrisi
mestamente. «Abitiamo a Los Angeles.»
Leah
roteò gli occhi al cielo. «Ripeto: che ci fate in
Giamaica?»
«Siamo
qui in vacanza, e tu? Dal Nevada ai Caraibi, mica male»
osservai, per poi alzarmi dal divano con la bottiglia in mano. La
superavo di almeno dieci o quindici centimetri, così dovetti
chinare leggermente il capo per poter studiare la sua espressione.
«La
mia storia è molto lunga e intricata» rispose evasiva.
«Fammi
un riassunto» insistetti, esibendomi in un sorriso sornione.
«Ti
basti sapere che il mio genitore di sesso maschile mi trascina qui
ogni volta che ha due giorni di ferie» disse infine.
Annuii.
«Fantastico. Ma quanti anni hai? Ancora te ne vai in vacanza
con il tuo paparino?» ammiccai.
«Non
si chiede l'età alle signore. Ti saluto, Shavarsh, è
stato un piacere. Ci si vede in giro» concluse, poi mi diede le
spalle e si diresse verso l'uscita.
«Leah!»
le gridò dietro il receptionist. «Dove vai?»
Lei
gli rivolse soltanto un cenno con la mano e uscì dall'albergo.
Leggermente
confuso e spiazzato, raggiunsi i miei amici vicino al banco della
reception.
«Si
sente bene?» si preoccupò subito il ragazzo che ci aveva
accolto.
Gli
mostrai la bottiglia d'acqua piena per metà. «Quest'acqua
è stata miracolosa» scherzai.
«Mi
dispiace di averla lasciata nelle mani di quella ragazza... lei non
lavora qui, sa. È una cliente abituale, considera questo posto
come casa sua e spesso si impiccia in cose che...» prese a
giustificarsi lui.
«Con
me è stata gentilissima. Nessun problema» lo interruppi.
«Bene.»
Il tizio ci guardò a uno a uno.
«Be'?
Ci accompagna lei alle nostre stanze o dobbiamo chiedere alla sua
amica impicciona?» sbottò Daron all'improvviso,
utilizzando un tono piuttosto indisponente e acido.
Il
receptionist sussultò e io dovetti sforzarmi in maniera
disumana per non scoppiare a ridere. «Daron, su, sii gentile»
finsi di rimproverarlo.
«Col
cazzo.»
«Oh,
be'... seguitemi, prego» farfugliò il ragazzo, facendosi
goffamente carico di alcuni dei nostri bagagli.
Daron
sbuffò e afferrò qualche altra borsa, così anche
io e John lo imitammo.
«Possibile
che in questo albergo ci sia solo tu, ragazzino?» domandò
bruscamente il chitarrista, mostrandosi profondamente irritato. In
realtà se la stava spassando alla grande, lanciava a me e John
occhiate complici e si tratteneva a sua volta per non ridere.
L'altro
trasalì e premette in fretta e furia il pulsante di chiamata
dell'ascensore. «Il fatto è che il signor Samuel Skye è
in città per alcuni affari, lo stagista è in infortunio
e io...»
«Molto
interessante, ma ti rendi conto che noi dobbiamo portarci dietro i
bagagli da soli?» sbraitò Daron.
«Ve
li avrei recapitati io più tardi, avrei fatto un secondo
viaggio, non...»
«Lasciamo
perdere» tagliò corto il mio amico, rinchiudendosi in un
silenzio carico di risentimento.
Forse
quella sua tendenza a darsi un atteggiamento antipatico e piuttosto
snob poteva sembrare fuori luogo e spesso gli avevo detto di non
esagerare, però era troppo divertente notare quanto le persone
rimanessero disarmate e disorientate da quel suo modo di comportarsi.
Non
appena l'ascensore panoramico prese a salire verso il terzo piano,
guardai fuori dal vetro e mi soffermai sul paesaggio all'esterno: il
sole del tardo pomeriggio tingeva di arancione l'acqua calma della
baia, la quale riluceva di mille riflessi multicolore. La spiaggia,
sulla destra della scogliera, sembrava cosparsa d'oro fuso e una
leggera brezza agitava le poche palme presenti lungo la costa.
Rimasi
a bocca aperta. Le foto che avevo visto su internet non rendevano
assolutamente giustizia a quel luogo magico e suggestivo.
Poco
dopo uscimmo dall'ascensore e il ragazzo ci guidò lungo un
corridoio ampio. Così come le pareti esterne della palazzina
erano dipinte di bordeaux, anche quelle interne riportavano la stessa
tonalità, così come le mattonelle che ricoprivano il
pavimento: era tutta una lucida e infinita scacchiera che alternava
il bianco alla più cupa sfumatura di rosso.
«Questa
è la stanza numero 22, la doppia» annunciò il
nostro accompagnatore.
Mi
feci subito avanti e gli sfilai di mano le chiavi. «Grazie.
John, hai tu la mia valigia.»
Il
batterista annuì e mi si accostò.
«Prego,
mi segua. La sua stanza è più in fondo.» Il
receptionist si era rivolto a Daron con timore.
Lui
non replicò e si limitò ad andargli dietro.
«Andiamo»
sospirò il batterista, e io infilai la chiave nella serratura.
Io
e John non avevamo avuto alcun problema a dividerci una stanza, ma
Daron era molto diverso da noi. A parte il fatto che era disordinato
in una maniera impressionante, diceva sempre di aver bisogno dei suoi
spazi. Aveva una personalità particolare, il chitarrista, ed
era spesso difficile capire cosa gli passasse per la testa.
Se
nel gruppo c'era qualcuno che si poteva definire estremamente chiuso
e riservato, be', quello era senz'altro Daron, anche se nessuno
avrebbe immaginato che lui fosse così; i fan e seguaci della
band, infatti, lo conoscevano come il più pazzo, il più
scatenato e il più fuori di testa della formazione. Sul palco
ne combinava davvero di tutti i colori, ma nella vita privata era
estremamente diverso, ed erano davvero poche le cose in grado di
scatenare il suo entusiasmo.
«Sei
pensieroso, bassista?» mi domandò John, riportandomi
bruscamente alla realtà. Era appena uscito dalla doccia e
stava frugando dentro la valigia alla ricerca dell'outfit perfetto.
Poi, stanco di tutto il disordine che regnava sul suo letto, cominciò
a disfare i bagagli e a sistemare ordinatamente tutti i vestiti
dentro l'armadio, senza neanche preoccuparsi di mettersi qualcosa
addosso.
«Stavo
ripensando al modo gentile e carino con cui Daron si è rivolto
al povero receptionist» sorrisi. «Ma tu sei patologico,
Johnny! Che diamine fai? Non ti vesti?»
«C'è
troppo disordine, non trovo i miei vestiti» si giustificò,
continuando a portare fuori diversi abiti dalla valigia.
«Ripeto:
sei patologico» conclusi, lanciando un'occhiata fiera al mio
bagaglio abbandonato ai piedi del letto, sul pavimento. John era
l'opposto di Daron sotto diversi punti di vista: era fin troppo
ordinato e meticoloso, colpa forse della precisione con cui sapeva di
dover suonare il suo strumento. Tutto doveva essere al suo posto,
seguire un ordine logico e preciso, così come ogni formula
matematica che si rispetti.
Dal
canto mio, mi sentivo semplicemente tra due fuochi, ma tendevo a
conciliare maggiormente con il batterista; era silenzioso, ma sapeva
sempre quando era il momento di dire la sua. Quando parlava, non era
mai per caso; era intelligente e colto, io un po' lo invidiavo per la
voracità con cui divorava un'enorme quantità di libri.
Era sicuramente un esempio da seguire e, cosa molto importante, non
era invadente o sfacciato.
«Ora
va meglio.» John pareva soddisfatto mentre osservava il suo
operato: aveva impilato con minuzia i suoi vestiti sui ripiani
dell'armadio e si era preso la libertà di occuparli tutti,
perché sapeva che io non avrei sfruttato quello spazio. Mi
conosceva fin troppo bene. A quel punto, afferrò un paio di
jeans neri e una camicia dello stesso colore e se li infilò,
poi indossò anche gli anfibi e mi lanciò un'occhiata.
«Sei
pronto?» gli chiesi.
«Sì,
possiamo andare. Ho fame» replicò, avviandosi verso la
porta.
Io
rabbrividii. Non avevo alcuna intenzione di buttare giù
qualcosa, ero ancora un po' scombussolato dal viaggio in aereo. Però
avrei comunque accompagnato i miei amici a cena, forse avrei preso
qualcosa di leggero, giusto per non farli preoccupare.
Seguii
John fino alla camera di Daron. Rimanemmo in attesa per un minuto,
poi il chitarrista venne ad aprirci. Stava in equilibrio precario sul
piede destro, mentre tentava di infilare l'altro nei pantaloni della
tuta. Aveva ancora i capelli fradici e dentro la stanza regnava un
caos apocalittico. John si astenne dal commentare quello scempio, ma
non poté evitare di sospirare.
«Sei
ancora così?! Ti dai una mossa?» esordii.
Daron
fece spallucce. «Ehi, abbiamo gli sbirri alle costole?»
«Sei
assurdo.» Alzai gli occhi al cielo. «Sbrigati, John ha
fame!» lo incitai.
«Sì,
sì...» Daron rientrò, lasciando la porta
spalancata. Pescò una maglietta a caso dalla valigia e se la
infilò, poi afferrò la felpa abbinata ai pantaloni e
mise su anche quella. Inforcò i suoi fidati Ray-Ban dalle
lenti scure e ci raggiunse in corridoio, tirandosi dietro la porta.
Solo
allora mi resi conto che ai piedi portava un paio di infradito rosse.
Scoppiai
a ridere. «Quelle dove le hai prese? Cristo, sono orribili!»
commentai, avviandomi insieme ai ragazzi verso l'ascensore.
«Siamo
in vacanza o no? Vuoi che vada in giro conciato come John?»
«Cosa
c'è che non va in John?» gli chiesi.
«Siamo
in Giamaica, cazzo, e lui va in giro con gli anfibi!» strillò,
e la sua voce acuta rimbombò per tutto il corridoio.
«E
allora?» insistetti.
«E
allora io vado in giro con le infradito rosse. Sono stilosissime»
concluse il chitarrista con aria soddisfatta.
John
premette il tasto per chiamare l'ascensore. Quando le porte si
aprirono, notai una figura all'interno.
Leah
sgusciò svelta in corridoio, riuscendo a passare tra me e
Daron.
«Guarda
un po' chi si rivede» la apostrofai con un sorriso conciliante.
«Ciao,
Shavarsh.»
Daron
sghignazzò e squadrò la ragazza da capo a piedi, poi
annuì e sollevò il pollice. «Carina la tua amica
impicciona» commentò poi, dando di gomito a John.
«Malakian,
ti giuro che...»
«Tu,
nanerottolo, non sei per niente carino. Quelle infradito sono
disdicevoli!» ribatté Leah senza scomporsi. «Be',
è stato un piacere. Ci vediamo in giro» aggiunse, poi
girò sui tacchi e si avviò lungo il corridoio.
Una
volta all'interno dell'ascensore, Daron parve riprendersi
all'improvviso e piagnucolò: «Perché ce l'avete
tutti con le mie deliziose scarpette? Non sono disdicevoli!».
John,
che lo stava fissando sbalordito, spostò l'attenzione su di me
e diede voce alla domanda che gli ronzava in testa da un po': «Com'è
che ti ha chiamato Shavarsh?».
Feci
un gesto noncurante con la mano. «Lascia perdere»
sibilai.
Leah,
in fondo, sembrava interessante. Se era riuscita a zittire Daron in
men che non si dica, doveva possedere un carattere bello tosto.
La
vacanza si faceva intrigante.
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