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FINALMENTE, D I NUOVO IN "ONDA"
Stefano Aloisi e Al Heron partirono una mattina di buon ora, poco dopo il
sorgere del Sole.
Ripresosi ormai quasi completamente nel fisico,il comandante Arieliano fu quasi
felice di uscire finalmente all' aperto nonostante l'aria leggera
dell'altitudine elevata e seguì Stefano fino al velivolo, sorridendo, senza però
abbandonare del tutto quel velo malinconico che lasciava trasparire la sua
costante preoccupazione per i membri del suo equipaggio, specie per la donna del
suo cuore.
"Si riprenderà, Heron. - lo incoraggiò Stefano - Vedrà che quando torneremo, lei
starà meglio. Mia moglie sa il fatto suo". In realtà, Stefano non era così
sicuro ma, in cuor suo, sentiva che comunque una soluzione sarebbe stata trovata
per tirarla fuori da quella maledetta tenda ad ossigeno.
Annamaria era più dubbiosa e, in aggiunta, seguendo con lo sguardo marito e
alieno allontanarsi verso l'aereo, avvertì un insidioso presentimento poco
positivo, ma lo tenne per sé non volendo turbare alcuno, forse neppure se
stessa. Baciò Stefano e diede ai due una sorta di benedizione per il viaggio.
"Cercate di tornare tutti interi" si raccomandò con la sua solita celata vena
ironica.
"Non stiamo andando in guerra. - rispose Stefano in tono meno scherzoso - E'
solo un volo ricognitivo. Speriamo solo di tornare con qualche buona notizia. O
soltanto con qualche notizia".
"Giusto. - riconobbe Annamaria riacquistando una tranquilla saggezza -
Basterebbe anche soltanto questo". E nel dir così, abbracciò Flavia che aveva
voluto andare con la mamma a salutare il padre che partiva. Heron lanciò ad
Annamaria uno sguardo che trafisse il suo sensibile cuore femminile. Era uno
sguardo pieno di riconoscenza e di letizia nel vedere l'amore fra lei, Stefano e
la figlia, ma anche di immenso dolore per la stessa ragione; per non poter avere
ciò che loro avevano. Poi si voltò e cominciò ad allontanarsi affiancando
Stefano verso l'aereo. Annamaria provò per lui una pena infinita. Quell'uomo
stava soffrendo in modo indicibile.
Guardando i due, vicini, spalla a spalla, Annamaria si rese conto della statura
di Heron non di molto inferiore a quella di Stefano, apparentemente accentuata
dalla tuta scura da pilota che, oltre tutto, metteva in risalto la figura
slanciata dell'alieno.
La pista di decollo era appena fuori città, ricavata nel poco spazio fra
l'abitato e i monti, ma la tecnologia, che non aveva fatto passi da gigante
nella comunicazione però nella meccanica sì, aveva prodotto aerei che erano
quasi in grado di decollare verticalmente dopo una breve corsa di rullaggio. Il
velivolo si staccò presto da terra, si alzò di alcuni metri, ripartì orizzontale
e scomparve presto oltre le creste dure e arrossate dal Sole delle montagne che
circondavano la cittadina. Le due donne rimasero ancora qualche minuto a
pensare, poi si decisero a rientrare nel centro abitato.
"Torneranno presto?" chiese Flavia, in macchina, a sua madre.
Annamaria sorrise.
"Non credo stasera per cena. - rispose - Non ce la fanno".
Anche Flavia sorrise alla battuta materna.
Annamaria calcolò rapidamente che, nonostante la velocità del mezzo, il viaggio
dei suoi uomini sarebbe durato almeno una settimana dei cui primi giorni non
avrebbe potuto avere molte informazioni fino a che i due non avessero trovato il
modo di ripristinare uno straccio di comunicazione con l'esterno.
Oltrepassata la grande barriera delle Alpi che si estendeva per molti chilometri
verso ovest, scintillante al Sole di fine luglio, Stefano puntò ancora verso
occidente, direzione Oceano Atlantico e quindi continente Americano dove aveva
scoperto che si trovavano i due più grossi, potenti ed importanti telescopi del
mondo: quello di Monte Palomar, in California, e quello di Arecibo nell'isola di
Portorico.
Volando velocissimi ad alta quota, Stefano aveva avuto premura a pressurizzare
al massimo la cabina di pilotaggio tuttavia, per molti chilometri, Heron
mantenne la maschera ad ossigeno sul volto. Volare su un aereo non era la stessa
cosa che viaggiare su un'astronave ma giunti ad un certo punto del viaggio, il
comandante alieno provò a levarsela, scoprendo presto e con piacere che riusciva
a respirare anche senza, grazie alla grande quantità di ossigeno che entrava
nell'abitacolo.
I due si sorrisero ma Heron tornò serio e sgranò gli occhi non appena in
lontananza cominciò ad intravedere la grande distesa liquida dell'oceano.
"Oddio!" esclamò con la voce strozzata dall'emozione.
Stefano restò molto sorpreso per quella esclamazione.
"Oddio?" ripeté infatti, meravigliato girandosi verso di lui.
"Si, - confermò Heron - Perché?".
"Heron.... " lo interpellò Stefano in tono deciso e vagamente solenne.
"Si?" fece Heron lievemente stupito.
"Cosa sa precisamente di Dio?".
"So che c'era. - rispose Heron quasi con una punta di tristezza - Che è
esistito. Poi è scomparso e non si è più parlato di lui. Credo di aver capito
che anche qui sulla Terra c'era un dio. C'è stato e anche qui è sparito".
Ecco un bell'argomento di cui parlare durante quel volo!
"Già. - confermò Stefano - Sembra proprio che sia così. Strano, vero?".
Heron abbozzò un sorriso mesto.
"In effetti. - ammise - Ma un vecchio amico della nostra famiglia mi disse che i
nostri avi credevano in lui e stavano bene. Poi, un giorno qualcuno dichiarò che
era tutto falso, che ci erano state raccontate solo bugie, che eravamo stati
ingannati e dovevamo credere solo in noi stessi....."
Heron si fermò e si rimise la maschera per recuperare il respiro, allarmando un
poco Stefano che si preoccupò subito per quella pausa.
"Tutto bene?" chiese infatti.
Il comandante inspirò ed espirò cinque, sei volte, quindi, si tolse di nuovo la
maschera e rassicurò Stefano, sorridendo e alzando un pollice come aveva visto
fare a un paio di pazienti all'ospedale.
Stefano si accorse di come l'uomo guardasse avidamente il mare che brillava
sotto di loro inondato dal Sole dell'anticiclone delle Azzorre.
"Non c'è il mare nel suo pianeta, Heron?" non poté fare a meno di chiedere.
"Si, c'è. - rispose il comandante - ma non così vasto".
Stefano tornò all'attacco.
"Heron, - ricominciò - lei allora ricorda qualcosa di quel che è successo. Cosa
è successo esattamente?".
Heron scosse la testa, avvilito. I ricordi non erano molti ed erano confusi.
"Ricordo solo grandi incendi. - rispose lasciandosi trasportare dall'emozione
legata ad immagini che si sovrapponevano senza un ordine preciso - Bruciava
tutto e noi dovemmo scappare dal nostro pianeta per rifugiarci dove siamo ora,
in un pianeta più piccolo e lontano dal nostro sole. Un pianeta più freddo dove
occorre molta energia per riscaldarlo e riscaldarci. Ecco perché abbiamo bisogno
di uranio".
"Ma non è pericoloso?" obiettò Stefano che aveva sentito parlare di inquietanti
incidenti alle centrali nucleari.
"No, se usato correttamente" rispose Heron, calmo.
Vedendo sotto di loro le isole caraibiche, Stefano smise di parlare
concentrandosi sull'immediata e delicata fase di abbassamento quota, nonché
quella successiva di atterraggio che però si presentava non facile. La mappa
elettronica sul quadro dei comandi rilevava infatti scarsità di zone su cui
poter scendere seppur verticalmente. Avvertì Heron di rimettersi la maschera
dovendo forse abbassare anche il livello di pressurizzazione nella cabina. Senza
discutere, Heron provvide subito a rindossare il dispositivo e senza aggiungere
altro, ma promettendosi di tornare nell'argomento Dio, Stefano si dedicò alle
manovre da compiere.
TROVARE LA CURA GIUSTA
Grindewald, ospedale
Tornata alla sua postazione abituale, all'interno del nosocomio, Annamaria fu
assalita, travolta e tempestata di domande dai pazienti - e dalle pazienti -
sfaccendati sul bello straniero che quella mattina non si vedeva più aggirarsi
fra i corridoi.
"E' ripartito?" domandò un paziente.
"E' tornato a casa?" chiese una paziente.
"Poverino! - esclamò un'altra - Era così triste!".
E via discorrendo.
Annamaria si recò al reparto malattie infettive dove gli altri membri
dell'equipaggio di Heron giacevano da giorni, inerti nelle loro stanze di
terapia intensiva, senza apparenti segni di miglioramento ma neanche di passare
a miglior vita se ci fosse stata.
Tre di loro avevano la colonna vertebrale spezzata, mentre la donna, oggetto
d'amore di Heron, aveva solo tre vertebre rotte alla base del collo, ma erano
sufficienti per tenerla in coma, anche indotto e farmacologico. Se sveglia, i
dolori sarebbero stati molto forti.
Osservandola meglio sotto la tenda ad ossigeno, dietro la plastica trasparente
del respiratore,Annamaria scoprì che in effetti era piuttosto bella, con il suo
viso dai tratti orientaleggianti che la faceva assomigliare ad una nostra
Coreana o quanto meno un'abitante dell'arcipelago indonesiano. La medicina,
finalmente sdoganata dai paletti moraleggianti esistiti fino a qualche tempo
prima, aveva compiuto passi enormi e registrato importanti progressi sulla
genetica che avevano reso malattie incurabili. come cancro e leucemia, appena
poco più gravi di una comune influenza; possibile però che non avesse ancora
trovato una cura adeguata per risanare ossa rotte? Dopo il solito giro e la
solita consultazione con colleghi e assistenti, non dovendo occuparsi di Heron e
soci, e non avendo molto altro da fare, Annamaria pensò di recarsi in biblioteca
per effettuare ricerche. Sfogliando volumi cartacei e spulciando nella memoria
dei computers, la donna scoprì che forse qualcosa del passato del pianeta era
stato salvato, almeno in quell'angolo remoto del globo. Molte notizie risalivano
infatti all'inizio del nuovo millennio e qualcuna era datata anche più indietro,
nelle quali si accennava appunto a problematiche di carattere falsamente morale.
Ma anche ad altro.
A mere questioni economiche che però avevano maggiormente inciso sul progresso
nella ricerca medica e scientifica più in generale. Fra le tante nozioni e
notizie, ne trovò una che la colpì come un macigno conferendole una certa
sicurezza di aver trovato la soluzione o una possibile soluzione ai danni
riportati da Heron e colleghi nel loro grave incidente. Verso la fine del
ventesimo secolo, un oscuro e semisconosciuto medico russo aveva messo insieme
calcio, silicio e resina di betulla, li aveva trattati per metà naturalmente con
acqua e alcool e per metà chimicamente, con una sostanza che li amalgamava e li
sintetizzava in una specie di schiuma la quale, iniettata attraverso un grosso
ago, o una sottilissima sonda, intorno all'osso fratturato, lo "fasciava" e lo
saldava in poco tempo venendo assorbito con velocità dal tessuto osseo che
ricomponeva la frattura senza la necessità di ricorrere a supporti esterni in
gesso per immobilizzare l'arto offeso come era stato in uso intervenire in
questi casi negli ospedali del mondo intero per anni, costringendo il paziente a
lunghi periodi di inutile e fastidiosa immobilità, seguiti poi da altrettanti
lunghi periodi di dolorosa fisioterapia riabilitativa.
Naturalmente, il medico era stato internato in qualche istituto per malati
mentali e dimenticato con la sua scoperta che, in qualche modo, ledeva al
traffico lucroso di gessi e fisioterapisti i quali, altrimenti, sarebbero
rimasti disoccupati.
Annamaria avrebbe voluto comunicare subito questa notizia a Stefano, ma la
comunicazione non era stata ancora ripristinata. Avrebbe voluto urlare, ma si
guardò dal farlo. Problema: dove trovare i componenti dello strano farmaco?
Calcio e silicio si reperivano un pò ovunque ma la resina di betulla? Si rituffò
fra volumi e computers e trovò anche quella: la maggior quantità e probabilità
di reperimento si registrava in Siberia! Si sorprese a fremere di impazienza e
rabbia avvertendo improvviso un consistente rallentamento del tempo. Non era mai
stata un genio in fisica ma in quel momento, come non mai, comprese appieno il
vero significato della teoria della relatività eisteiniana: se stai bene e sei
felice, il tempo vola, ma basta che ti dolga un dente o che abbia una
preoccupazione, anche piccola, e il tempo di colpo rallenta in modalità
drammatica. Ecco! La seconda tipologia di situazione era diventata concreta!
Un immaginario orologio a pendolo cominciò a scandire minuti e secondi con suono
cupo e sinistro.
Annamaria non riusciva a togliersi dalla testa l'espressione accorata di Heron
che, silenzioso e discreto, le chiedeva aiuto per lui e i suoi colleghi. Doveva
salvarli ed ora forse aveva la soluzione in mano per farlo. Doveva solo
aspettare di poterlo fare.
Portorico, Caraibi
A causa del territorio circostante, piuttosto ondulato, con pochissimo spazio
pianeggiante e a dispetto della possibilità dell'aereo di atterrare in
verticale, Stefano dovette compiere vari giri e un bel numero di manovre per
poter scendere sicuro nei pressi del telescopio di Arecibo ma, alla fine, la sua
abilità lo premiò con atterraggio perfetto ed applauso del suo compagno di volo.
"Sarebbe ottimo anche come pilota di un'astronave!" esclamò Heron soddisfatto.
"Non si allarghi, comandante!" si schernì Stefano ricordando una buffa
espressione romanesca: 'nt'allargà!, rivolta a chi si dava arie o
s'illudeva su qualcosa che avrebbe voluto accadesse.
Il gigantesco padellone del telescopio era incassato fra morbide onde del
terreno, e sormontato da una complicata struttura in metallo che doveva essere
l'antenna, la quale, ora, penzolava sopra, inerte, dondolando pigramente mossa
dal vento ed arrugginita dal tempo atmosferico e cronologico, dando al tutto un
aspetto desolante, di abbandono e colpevole incuria.
Scesi entrambi dall'aereo, Stefano ed Heron si scambiarono occhiate afflitte.
"Dubito molto che questo arnese funzionerà. - commentò amaramente Stefano -
Chissà da quanto è in queste condizioni".
Heron non rispose limitandosi a fissare l'oggetto, senza particolari espressioni
del viso.
Guardandosi poi intorno, scoprirono a qualche centinaio di metri, in fondo ad un
viale, sopra ad un'altura, un piccolo edificio bianco che, con la sua torretta,
sembrava un faro in mezzo ad un mare verde di alberi. Forse doveva esser stato
un centro ricerche o, semplicemente la residenza di qualche scienziato o
astronomo che aveva usato, o usava spesso il telescopio.
I due lasciarono l'antenna e si diressero verso l'edificio ma, ivi giunti, lo
trovarono chiuso, addirittura con il lucchetto alla porta. Stefano vide Heron
compiere una mossa di stizza. Dal canto suo, Heron si sorprese seccato per non
aver con sé neppure un'arma, persa probabilmente nell'incidente insieme con
tutte le altre. Stefano, invece l'aveva. Di solito era caricata a salve per
intimidire e riportare certi soggetti della città alla calma, ma quel giorno,
sapendo di dover andare in giro, avventurandosi oltre confine, in territori
sconosciuti, l'aveva caricata a dovere, con proiettili veri e ne usò uno
sparando al lucchetto che si aprì, docile, senza discutere. La porta di legno,
forse gonfia per le innumerevoli copiose piogge tropicali del luogo, cigolò
impietosamente e sinistramente introducendoli verso l'interno dell'edificio che
però si rivelò davvero fantascientifico, con mastodontiche apparecchiature di
acciaio non intaccato dal tempo, luccicanti nella penombra appena ferita da
sottili frecce di luce provenienti da strette finestre poste in alto nelle
pareti. Guidati da quella debole fonte luminosa, i due riuscirono a trovare la
strada per giungere alla "sala comandi", quella, per intenderci, da cui si
poteva manovrare il telescopio. E qui, Stefano lasciò il campo libero ad Heron
che dimostrò presto di trovarsi come a casa sua.
L'operazione che rubò loro più tempo fu quella di recuperare l'energia elettrica
per far ripartire i macchinari, per la quale dovettero in alcuni punti buttar
giù parti di parete al fine di ripescare cavi funzionanti. Ad un certo punto,
s'imbatterono in una specie di grossa ciabatta di congiunzione, alla quale era
collegata una fitta ragnatela di cavi. La ciabatta era a forma di croce e
Stefano giurò di vedere Heron assentarsi dal mondo per un pugno di istanti,
assumendo un'espressione facciale distaccata e distante anni luce da lui, con i
suoi occhi blu che fissavano un punto lontanissimo.
Lo vide! Era
inchiodato ad una croce! Perché? Cos' aveva fatto? Chiese spiegazioni ad una
donna che piangeva. "Lo stanno uccidendo perchè ama!" rispose lei. Si fermò a
guardare la terribile scena sotto il sole cocente che bruciava la zona già
secca di suo, finché i suoi compagni non lo richiamarono per lasciare il luogo.
Stefano scosse Heron in apparente stato di completa trance.
"Heron! - lo chiamò - Che le succede? Che cos' ha? Sta bene?" .
Heron parve uscire dallo stato catatonico.
"Sì. - rispose annuendo, ancora tuttavia incantato - Va tutto bene, capitano
Aloisi" lo rassicurò alla fine. Stefano, però, non era persuaso.
"Ha visto qualcosa? - gli domandò, premuroso e ansioso - Questo oggetto le ha
suscitato ricordi? Come mai, la croce?" chiese infine.
Heron gli rivelò il dettaglio del simbolo da lui visto sul camice di lavoro di
Annamaria.
"E' il simbolo dell'Ordine dei Medici" spiegò Stefano.
"Lo so. - confermò Heron - Me lo ha detto sua moglie. Qualcuno, molto tempo fa,
è morto su una croce".
"E' ciò che ha visto lei, pochi minuti fa?" chiese Stefano, sempre più curioso e
d eccitato da quei particolari che stavano emergendo.
"Sì" ammise Heron.
Stefano fissò quel suo compagno di avventure con uno sguardo così intenso da
costringere Heron ad abbassare la testa.
"Heron, - attaccò poi - Voi siete venuti sulla Terra, vero?".
"I miei avi forse. - rispose Heron con un timbro di voce che sembrava venire
dallo spazio - Ma non capisco perché riesca a vederlo anch'io".
Stefano non rispose. Realizzò che non avrebbe potuto. Che non avrebbe saputo
cosa dirgli. Si limitò a stringergli il braccio la cui mano teneva la ciabatta a
croce.
"Lo scopriremo, Heron. - lo incoraggiò - Anch'io voglio saperlo".
Heron sorrise. Un sorriso dolce e malinconico. Poi ricominciò a smanettare sulla
ciabatta e sui cavi ad essa collegati.
Il lavoro li assorbì per un tempo superiore alle loro aspettative. C'era da
sdipanare un notevole groviglio di fili di tutti gli spessori ma, al termine, il
groviglio si sciolse, riuscirono a connettere tutte le spine alle varie prese e
l'energia elettrica ronzò e vibrò all'interno dei sottili rivestimenti in vari
tipi di metalli, perfino oro e argento.
Riscosso il successo in quel versante, il resto fu abbastanza agevole e i
macchinari tornarono al funzionamento e alla vita.
Stefano e l' alieno si strinsero le mani con forza per celebrare quell'evento.
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