Lovely Cool Fake
[ Prima
classificata al contest «A contest for the
chocolate» indetto da Roy Mustung sei uno gnocco ]
Titolo:
Lovely Cool Fake
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: One-shot
[ 3966 parole ]
Personaggi: Edward
Elric, Roy Mustang
Genere: Malinconico,
Romantico, Sentimentale
Rating: Arancione
Avvertimenti: Shounen
ai, Movieverse, What if?
FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All
Rights Reserved.
La
vita è come una
scatola di cioccolatini.
Non sai mai quello
che ti capita.
- Tom Hanks, Forrest Gump -
Quel
giorno era stato in assoluto il peggiore che avessi mai
vissuto.
Non
avevo fatto altro che vagare
per le strade di quella nuova -
quanto sconosciuta - città alla ricerca di una biblioteca
che
contenesse nei suoi
archivi un libro che avrebbe potuto aiutarmi a tornare a casa, ma
nessuno di quelli che avevo
sfogliato era sembrato fare al caso
mio.
Il fiore all’occhiello
della Germania: Monaco
di Baviera. Veniva definita
così, eppure
in quel momento non mi serviva a nulla. Anche
adesso, mentre continuavo a
girare svogliato le pagine di uno
dei tanti libri che avevo preso in prestito, quel pensiero mi vorticava
nella
testa. Ero seduto in
un locale abbastanza
affollato, con una tazza
fumante di cioccolato caldo e con il libro aperto sul tavolino, facendo
scorrere velocemente lo sguardo su
quelle pagine un po’
impolverate alla ricerca di parole diverse da quelle che stavo
leggendo. Forse speravo che dietro a quelle lettere stampate ci fosse
altro, ma il significato, per quanto mi
sforzassi, era sempre lo
stesso. Non cambiava
di una virgola.
Sbuffai tra me e me, richiudendo il libro
con un tonfo sordo che, in quel
chiacchiericcio generale allegro e un po’ fastidioso, fu solo
come un flebile
ronzio. Lo abbandonai
sul tavolino che
avevo occupato, allungando una mano
per prendere la mia tazza e bere un sorso, non prima di aver soffiato
un po’
sulla cioccolata.
Sorseggiai il contenuto piano,
senza fretta, e mentre ero intento in quello
facevo scorrere lo sguardo nella
ressa del locale, osservando distrattamente le persone ivi presenti
senza farlo
davvero Scorgevo i loro volti, i loro
sorrisi; le amabili chiacchiere in cui molti
di loro si erano gettati
mentre brindavano, chi con qualcosa di leggero chi con alcool che
andava oltre
il limite pensabile. E ciò non faceva
altro che rendermi nostalgico. Non sapevo
perché, anche
se da un po’ di tempo tutto mi dava
quella sensazione.
Se fossero i visi così
familiari ,a richiamare tale nostalgia, non
lo sapevo con certezza: l’uomo del bar
che
serviva i clienti mi ricordava il soldato che
stava sempre di guardia al Quartier Generale, con cui ogni tanto mi
intrattenevo a parlare; un paio di uomini,
seduti al lato
opposto da dove mi trovavo io,
sembravano anch’essi militari che prestavano servizio nel mio
mondo, anche se
la somiglianza era poca. Per non parlare poi di
tante e
tante altre persone così simili a
quelle che avevo conosciuto. Era un mondo
parallelo, dopotutto, quindi non avrei dovuto
stupirmi, ma ogni qual volta incontravo un
volto familiare, ne restavo
sempre sconcertato. Forse non era
l’aggettivo
giusto, ma era qualcosa di simile la
sensazione che provavo. Stessa cosa dicasi per
mio fratello
Alphonse, che l’anno prima era
riuscito chissà come a seguirmi.
Era
stupido, dopo quel tempo
passato, farsi cogliere dal
rimorso della mia scelta. Io stesso avevo deciso
di
riattraversare quel portale e tornare in
quel mondo, e avrei dovuto quindi mettere da parte ogni apprensione o
cruccio
che mi coglieva di tanto in tanto per vivere la vita che mi ero scelto
da solo. Il ricordo
del passato,
però, spesso mi opprimeva. L’ultimo
ricordo che
possedevo del mio mondo era il suo
volto, il volto di quello stupido Colonnello.
La sua espressione triste e
distante, disperata, mentre reggeva
mio fratello per evitare che mi seguisse in quella decisione.
Quel suo unico occhio color pece
che mi osservava, poi il suo
lieve sorriso. Erano quelle le cose che
racchiudevo nel mio cuore, cose che non
sarebbero mai svanite nemmeno con il passare degli anni. Tristi
e malinconiche, certo, ma mi riportavano alla
mente lui e
tanto bastava.
Trassi un lungo sospiro, posando sul
tavolino la tazza ormai vuota,
dando una rapida occhiata all’orologio da taschino che
Alphonse mi aveva
regalato per il mio compleanno. Erano quasi le
cinque del
pomeriggio, dunque avevo poco più di
quindici minuti per raggiungere la stazione e
salire sul prossimo treno in partenza, se non volevo passare la notte
fuori
casa. E di chiamare Al, nemmeno a
parlarne. Così mi alzai,
riagguantando il mio libro e pagando la bevanda che
avevo ordinato per uscire svelto fuori in quel pomeriggio plumbeo. Rispecchiava
quasi il mio umore. Grigio
e spento.
Scossi la testa per scacciare quel
deprimente pensiero, ficcandomi
nella tasca del giaccone il libro per incamminarmi nella folla che
vigeva fra
le strade, a capo chino. Non
mi andava di guardare in faccia
nessuno. Mi sentivo
troppo giù di
morale per farlo, perché avrei visto
volti
distesi e rilassati o, nel peggiore dei casi,
visi ancor
più cupi dei miei, e quel che non mi
serviva era
proprio demoralizzarmi più di quanto
non lo fossi già.
Raggiunsi la stazione giusto sette,
otto minuti dopo. Mancava ancora un
po’ di
tempo alla partenza del treno, e
feci vagare il mio sguardo per tutto il paesaggio circostante; scorsi
persone che si affrettavano
a salire su quelli che
cominciavano già a fischiare e a sbuffar vapore, mentre
altra gente si intrattenevano
semplicemente vicino alle poche bancarelle presenti, attendendo proprio
come
facevo io. Una tra le
tante attirò
la mia attenzione, e mi avvicinai un po’ per osservarla
meglio. Era una
bancarella di dolci e
bignè, gestita da un’anziana signora
che sorrideva amabile ai propri clienti, per lo più donne
con i loro bambini. Stranamente
ci persi più
tempo del previsto a guardare la merce
esposta, controllando distrattamente
l’orario; ma alla fine mi decisi,
sorridendo
stupidamente come un infante.
«Signora, mi
scusi», la chiamai, vedendola voltarsi verso di
me con quel solito sorriso. «Una mela caramellata e un
bignè, per
favore».
Il suo sorriso
aumentò, accentuando di poco le
rughe sulla sua fronte, coperte
appena da qualche ciuffo di capelli sfuggito alla cricca in cui erano
legati. «Subito, caro», mi
disse, occupandosi
abile di tutto; prese il sacchetto di carta, poi
le pinzette, e utilizzò una tale cura
che la mela nemmeno
restò incollata quando
me lo porse con mani un po’ tremolanti a causa
dell’età insieme al bignè.
Pagai svelto, sentendo il
fischio del treno. «Arrivederci»,
la salutai chinando il capo, sentendola in risposta
rivolgermi un “A presto, giovanotto.”
Con il bignè in una mano, mi apprestai a prendere
la piccola mela caramellata,
consumando prima quella con ingordigia.
Salii sul treno
giusto qualche attimo prima che i
controllori salissero a loro
volta per dar il via alla partenza. Mi guardai
intorno alla ricerca d’un posto libero,
trovandolo e gustandomi poi
quel piccolo pranzo fino a finirlo; mi leccai
persino le labbra, accartocciando il sacchetto e
riponendolo nella tasca
vuota per puntare poi sguardo sul dolce ricoperto di cioccolato.
Il vagone cominciava frattanto a riempirsi, sommergendomi
d’un altro
piacevole chiacchiericcio, però,
quando il treno partì, mi
ritrovai a guardare fuori senza un motivo
preciso. Il paesaggio dapprima scorse lento, poi
sempre più veloce, prima di
confondersi in una sinfonia di colori e suoni di
sottofondo.
Restai ad osservarlo
sfrecciare sotto il mio sguardo,
perdendomi in esso. Il rumore delle ruote del
treno mi cullava in un
piacevole dormiveglia,
per quanto mi fossi portavo il mio dolce alle labbra, consumandolo a
piccoli morsi. Altre persone occuparono i posti
dinnanzi a me, e solo con
la coda dell’occhio
le guardai senza il benché minimo interesse. I
loro discorsi mi riempirono subito dopo le orecchie,
interrompendo la quiete
che il paesaggio fuori mi aveva donato così splendidamente.
Non mi toccò far altro che far finta di nulla,
riprendendo a mangiare. Il gusto della
cioccolata si scioglieva in bocca,
lasciandomi una piacevole
sensazione. Dolcezza, serenità ,quasi
appagamento. Era strano che un semplice dolce
al cioccolato racchiudesse
in sé così tante
emozioni, o forse ero solo io ad avere
quell’impressione.
Quando finalmente il treno
arrivò alla mia
fermata, quel buon dolce che avevo
comprato era purtroppo già finito.
Era ormai da una settimana buona che mi rimpinzavo di
cioccolata e simili. Alphonse mi prendeva sempre
in giro dicendo che era per
carenza d’affetto,
ridacchiando tra sé, ma gli avrei
dato pienamente ragione se avesse saputo cosa
mi affliggeva. In effetti era per carenza
d’affetto, quindi mi attaccavo a quel
piccolo desiderio proibito che la
cioccolata
riusciva a donarmi, gustandone il dolce sapore nel palato e sulla
lingua.
Mi distrasse dai miei
pensieri qualcosa che mi venne
addosso, facendomi
perdere l’equilibrio e finire con il sedere per terra; alzai
lo sguardo giusto in tempo per vedere un ragazzo con
una sacca sulla
spalla correre via, insinuandosi in mezzo alla folla e facendo slalom
tra
i
passanti. Nemmeno a chiedere scusa, eh? Che
razza di maleducato.
Borbottai qualcosa tra me e
me, sistemandomi meglio il
giaccone per cominciare ad incamminarmi a
propria volta fra la calca di gente, cercando di sfuggire a
quello che era ormai
divenuto un ingorgo fino a riuscire ad abbandonare la stazione senza
perderci
troppo tempo. Trovai quello stesso ragazzo che
mi aveva urtato proprio lì, intento a frugare nella
sua sacca alla ricerca di
qualcosa.
Mi avvicinai a lui senza un
motivo preciso, aggrottando la
fronte. «Ehi,
tu», lo chiamai, vedendolo
voltarsi
poi verso di me. Ero quasi ad una spanna da lui,
tanto che se avessi
allungato un braccio avrei
potuto benissimo picchiettargli una spalla, ma
mi fermai di botto non appena scorsi il suo viso.
Quei capelli sbarazzini color della notte, quegli occhi a
mandorla dal taglio orientale... e quando
incontrai quelle iridi, due oceani senza luna,
persi un battito. Non riuscii quasi a credere che quegli occhi scuri
mi stessero
osservando. Non erano i suoi, e ne ero
consapevole, ma in quel momento non mi importava.
Restai solo lì, immobile, la bocca aperta in una
muta parola; lo vidi però inclinare
di lato la testa, con un
sopracciglio nero sollevato
mentre si rimetteva in spalla la sacca dopo averla chiusa per bene.
«Aye?» mi
chiese, e alla sua voce temetti davvero di poter svenire.
La stessa identica
voce. E, sebbene fosse un po’ meno
indurita
dall’età, era
comunque sensuale e calda, ovattata e dolce.
Non seppi cosa dire,
distogliendo lo sguardo per non dover
ancora sostenere il
suo. «Nulla, scusa»,
borbottai tutto
d’un fiato, con il cervello ormai in panne.
In qualsiasi mondo, in qualsiasi modo, quel maledetto idiota
riusciva a
mandarmi in fumo ogni neurone nonostante avessi ormai
un’età considerevole. La sorte, molto
probabilmente, voleva deridermi.
«Ci siamo
già visti, per
caso?» domandò ancora, e lo vidi con la coda
dell’occhio fare qualche passo in più per
avvicinarsi a me, con un cipiglio
curioso in volto.
Sei il mio Colonnello,
evitai di dirgli, mentre sentivo la
tristezza invadermi nuovamente. Sapevo che non
era così e che non era lui, era solo
un ragazzo che gli assomigliava. Scossi quindi
la testa, sentendo un fastidioso pizzicore
agli angoli degli
occhi. Avrei fatto una figura di merda sicura,
se avessi pianto
lì. «Nay, è la
prima volta che ti
vedo», mormorai, e mi costò
molto dire quelle parole. Anche se sarebbe stata
solo finzione, mi sarebbe piaciuto
davvero tanto
gettarmi fra quelle braccia, sentire il calore di quel corpo che mi
stringeva a
sé, inebriarmi del suo odore... ma
sapevo bene che non potevo permettermelo, dovevo
mettermelo in testa. Non era lui.
«Mi hai scambiato
per qualcun altro?»
Quelle sue parole furono come
una pugnalata in pieno petto. Chinai il capo,
sentendomi un groppo in gola. Le lacrime
premevano sempre più agli angoli degli
occhi. «Se ti dicessi di
sì?» chiesi
io, non
avendo il coraggio di guardarlo in viso.
Lui, però, rise. Non
era derisorio, solo... dolce.
Dolce quanto quella cioccolata che mi tentava da un
po’. La sua mano leggera si
posò
d’improvviso sulla mia spalla, come se cercasse in
quel modo di richiamare la mia attenzione, ma a
quel gesto mi trassi quasi istintivamente indietro,
guadagnandoci
un’occhiata stranita.
Scrollò le spalle e sollevò ironicamente un
sopracciglio, così come un angolo della
bocca in quello che, dovetti dolorosamente ammettere, mi
ricordò il sorriso
sghembo e provocatorio del Colonnello. «Ehi,
scusa», rimbeccò con una punta
di sarcasmo. «Non volevo fare nulla di
male».
Mi diedi mentalmente dello
stupido, massaggiandomi le
palpebre con due dita. Riuscii ad alzare la
testa per osservarlo, stavolta,
nonostante sentissi un
fastidioso bruciore agli angoli degli occhi.
«Nay, scusami tu», mi ritrovai a dire,
agitando poi una mano come per liquidare
cortesemente l’intera faccenda. «Ho i nervi a fior
di pelle da un po’ di tempo,
mi coglie tutto alla sprovvista».
Non capii perché
mi stessi giustificando con lui
ma, in quel momento, il mio
cuore sembrava voler guidare il mio corpo e la mia voce
contrapponendosi con la
mia mente, che non faceva altro che dirmi di andarmene il
più in fretta
possibile.
«Anche io, posso
capirti»,
replicò, tranquillo e a proprio agio, stiracchiandosi
poi con le movenze d’un grosso gatto. «Colpa dei
corsi all’università, ho
indovinato?»
A quelle parole parole restai
di sasso, tanto che non mi trattenni dal
porgergli a mia volta una
domanda. Un po’ troppo personale,
forse, ma non potevo
tenermela dentro. «Scusa,
quanti anni hai?» gli chiesi,
e quasi mi pentii d’averlo fatto.
La sua espressione appagata e
ironica mutò
in una di assoluto stupore,
prima che quelle labbra sottili sulle quali mi ero incantato si
arricciassero per dar vita ad una piccola smorfia.
Quasi offesa, avrei osato dire. «Ne
compio diciannove il ventisette di questo
mese», borbottò, imbronciandosi.
«Anche tu come tanti altri mi hai scambiato per un trentenne,
eh?»
Mi venne quasi spontaneo
rispondergli di sì o che, per lo
meno, gli avrei dato qualche anno in
più. Un Roy Mustang quasi
più pic-... ehm,
giovane
di me? Com’era strano e vario il
mondo. Scossi la testa e agitai ancora una
volta la mano, distratto. Ci mancava solo che
restasse con quell’espressione
su quella solita faccia da
schiaffi. «Nay, ti sbagli»,
mi affrettai a dire,
sulla difensiva. «E’ solo che ti facevo
un pochino più grande. Te l’ho detto, mi ricordi
un mio amico e...» mi bloccai
nuovamente al pensiero di lui, e abbassai
lo sguardo per un motivo che
nemmeno io
compresi.
Perché quel ragazzo doveva
capitare proprio in
quel momento? Era a questo che pensavo mentre
incassavo la testa nelle
spalle per guardare
ancora una volta il terreno, facendo finta che lui non esistesse e che
dinanzi
a me non c’era nessuno. Ma era
alquanto difficile, la cosa.
Lo sentii avvicinarsi un
po’ di più e,
anche se con fare esitante, una sua mano
si permise di passare delicata sotto al mio mento, alzandomi il viso. Incontrati
i suoi occhi, quasi fui sul serio sul punto di
perdermi su quelle
labbra. Quelle stesse labbra che ora si
muovevano per dare vita ad
un sussurro. «Questo tuo amico ti
manca molto, vero?»
mormorò, quasi come se mi avesse letto
chissà come nel pensiero. «Ti sei intristito, e mi
dispiace».
Non mi meravigliai affatto
del suo modo di fare. In qualsiasi mondo, per
me, sarebbe rimasto sempre il mio
stupido Colonnello, e quel ragazzo me ne stava
dando la prova tangibile. Pur non conoscendomi,
si stava preoccupando per me. Non sapevo se
definirla una cosa carina o semplicemente
idiota.
«Senti, voglio farmi
perdonare», fece
con voce ovattata e morbida. «Ti
va di mangiare qualcosa con me? Offro io, mi sento in colpa».
Stavolta lo guardai,
sbattendo un po’ le palpebre, e mi
venne quasi naturale sorridere ironico, forse un
po’ amaro. Il lupo perde il
pelo ma non il vizio,
recitai in mente mia. «E’
così che chiedi
appuntamenti alle donne?» domandai, sarcastico e
stranamente indispettito. «Le abbordi alla stazione per poi
vedere se qualcuna
abbocca?»
Per l’ennesima
volta, il suo viso assunse una
strana espressione. Potei quasi giurare che
fosse imbarazzo, quello che era
andato a colorargli le
guance. Roy Mustang imbarazzato?
Il mondo stava davvero andando a rotoli. A
disagio, stavolta, si sistemò la sacca sulla
spalla, nonostante non servisse. Aveva anche
distolto lo sguardo, grattandosi con finta non
curanza dietro al
collo. «Magari ci sapessi fare, con
le donne»,
rispose infine, facendomi spalancare la
bocca dallo stupore.Non era possibile, mi
stava prendendo in giro. Non potevo credere
alle sue parole.
Avvicinai il mio volto al suo
così da poterlo
osservare meglio, vedendolo
ritrarsi un po’ quando quasi annullammo troppo le distanze. Incertezza,
disagio... inesperienza. Quegli
oceani d’antracite lasciavano trasparire
solo quello.
«P-Perché
mi guardi
così, ora?» mi chiese con voce un po’
incrinata, deglutendo, e dovetti trattenermi dal
non scoppiare a ridere come un
idiota. Invece mi allontanai un po’
mettendo da parte
quella conversazione, cercando di
dar vita al sorriso più sensuale che potevo permettermi solo
per godere del suo
imbarazzo.
«Se tanto ci tieni
ad offrirmi qualcosa, voglio
qualcosa di dolce», gli dissi,
vedendolo accigliarsi per poi tossicchiare, forse per riprendere il
controllo
di sé e delle sue emozioni.
Annuì, rivolto
più a se stesso che a
me, traendo un lungo sospiro.
«C’è un localino che li fa
proprio a pochi passi da qui.» mi informò,
facendogli cenno di seguirlo; il suo passo era
veloce ma deciso, proprio come lo ricordavo, anche
se forse un pochino impacciato. Era divertente
e un po’ malinconico, quel suo modo
di fare. L’aspetto era quello del
Colonnello, e solo di
tanto in tanto lo erano anche i
modi d’agire e di comportarsi, ma era
inutile mentire a se stessi.
Sospirai e cercai di stare al
suo passo, vedendolo poi
svoltare a destra per
scomparire in un piccolo vicolo che, quando lo raggiunsi, dava su una
piccola
taverna. Più un posto per alcool e
pasti semplici, che per
dolci. Con rinnovato spirito lui si
voltò verso di me,
sorridendo e tenendo aperta la
porta.
«Coraggio,
dai», mi incitò,
entrando per primo.
Riluttante, lo seguii,
ritrovandomi in un confortevole
ritrovo, caldo e pieno di
chiacchiere allegre. Le persone presenti
mangiavano di tutto, proprio come avevo
immaginato; c’era chi consumava un
panino al volo o chi un
brodo, o chi beveva
semplicemente qualcosa. Niente dolci, mi
aveva fregato.
Lo vidi al bancone a parlare
animatamente
con il proprietario,
scambiandosi risate e sorrisi come una coppia di vecchi amici mentre di
tanto
in tanto lui mi guardava. Stavano ridendo di me,
me lo sentivo. Un ragazzino ingenuo che era
caduto nella tela del ragno. Andai a
cercarmi un posto imbronciato, con l’idea
di dirne quattro a quello
stupido da strapazzo, ma mi evitò di
farlo non appena lo vidi una bella
fetta di torta al cioccolato
poggiata su un piattino, con tanto di panna.
«Offre la
casa», disse scherzoso,
accomodandosi.
Lo fulminai con
un’occhiataccia. «Non dovevi
offrire tu?» replicai,
giusto per avere l’ultima parola, ma
gli provocai un’altra sonora risata.
«L’ho
fatto, visto che qui ci lavoro per
pagarmi l’università», rispose, come
se la cosa fosse ovvia. E infatti lo era.
Guardai lui e poi il dolce,
non potendo evitare di sorridere
come uno scemo. In qualsiasi mondo, non cambiava
mai. Non avrei smesso di ribadirlo ancora e
ancora. Senza dire nulla, presi la forchetta,
tagliando un bel pezzo
dalla fetta che
avevo davanti; me lo portai alle labbra
assaporandone il sapore quasi con
devozione, sentendo
il dolce gusto del cioccolato mandare in delirio le mie papille
gustative. Era il dolce più buono
che avessi mai mangiato. La glassa e la panna
erano squisite, si fondevano quasi con
quello che doveva
essere pan di spagna.
«Cavoli»,
mi ritrovai a dire,
inghiottendone immediatamente un altro po’. «Fai
i miei complimenti a chi ha fatto questa torta e anche la cioccolata.
E’ una
bontà».
Lo vidi sorridere con la coda
dell’occhio, il
volto sorretto nel palmo della
mano. «Non credo ce ne sarà
bisogno», disse, quasi con tono estasiato. «Sta
già
vedendo che il suo lavoro è parecchio apprezzato».
In un primo momento non feci
caso a ciò che
disse. Ero troppo impegnato a consumare quel
divino dolce che avevo
dinnanzi, ma quando il mio cervello, non ancora
annegato nei fiumi di
cioccolata che lo
imperversavano, realizzò finalmente quelle parole, lasciai
cadere sorpreso la
forchetta, guardandolo sconcertato.
«L’hai fatto tu?» chiesi come
un idiota.
Sorrise maggiormente,
annuendo anche se con un certo
imbarazzo. «Che non si sappia in giro,
però», scherzò un po’, seppur
si vedesse benissimo
che era orgoglioso del suo operato.
Spostò il suo sguardo sul dolce al mio viso,
allungando distrattamente una
mano. Un suo dito mi sfiorò le
labbra, facendomi
correre uno strano brivido dietro
alla schiena; quando lo allontanò,
potei scorgere sul suo
polpastrello un po’ di cioccolata. Mi
sorrise ancor di più, portandoselo poi alle
proprie labbra.
Lo osservai ammaliato. Guardai
le sue labbra, sulle quali fece passare il dito; guardai
la sua lingua, che era guizzata fuori per ripulirlo. E
continuò quel sensuale quanto involontario
gioco tranquillamente, senza dar
peso a quel che gli capitava intorno o a chi lo stava osservando. Quando
finì, però, sentii la situazione
stranamente opprimente. O imbarazzante, chi
avrebbe potuto dirlo.
«È ancor
più
dolce», fece quasi pensoso, ma con sensualità.
«La ricordavo un
po’ più farinosa».
Non seppi cosa rispondere, poiché mi
sentivo accaldato. Più accaldato di
quel che credessi. «Aspetta, vado a
prendere una cosa»,
disse poi, alzandosi con un sorriso. «Devi
assolutamente assaggiarlo, lo reputo uno dei migliori che mi sono
riusciti».
Feci per aprire la bocca e
replicare, ma non potei dir nulla
che lui era già
sparito. Abbassai lo sguardo tornando a guardare
il dolce, decidendo
di consumarlo
mentre aspettavo. Era uno spreco lasciarlo
lì a metà, bisognava
finirlo. Così, anche se con pensieri
poco casti e puri per
la testa e con il mio
Colonnello protagonista, cominciai a finirlo piano, lappando la
forchetta ogni
qual volta si sporcava di cioccolata. Il mio
gesto probabilmente era erotico, ma poco mi
importava, in quel momento. Anzi, se fossi stato
solo, avrei probabilmente fatto qual
cosina in più
per appagarmi.
A distrarmi dai miei pensieri
tutt’altro che
innocenti, fu nuovamente il suo
arrivo, prima che si sedesse al mio fianco sulla sedia libera; reggeva
fra le mani un vassoio, dove dava bella mostra di
sé una rosa
interamente ricoperta di cioccolato, con spicchi di fragola intagliati
qua e
là. Era una meraviglia.
«Ma... è bellissimo»,
mormorai inconsciamente, sentendomi come una ragazzina, però
non c’era aggettivo migliore per
descriverlo. Guardai lui, corrugando un
po’ le sopracciglia. «Quasi
mi dispiace mangiarlo e
rovinarlo»
Lui scosse la testa con fare
divertito, concedendosi
il lusso di darmi un piccolo
buffetto sul naso. «L’ho
fatto perché si
mangiasse, non perché restasse ad ammuffire»,
replicò,
falsamente autoritario e indispettito. Il
sorriso, però, lo tradiva.
«Ma
io...» riprovai, e stavolta un suo
dito mi zittì, ponendosi sulle mie
labbra.
«Niente ma,
assaggia. Questo sono sicuro che ti piacerà e ti
tirerà un po’ su», disse poi, con voce
dolce. «Ha il cuore di liquore».
Il cuore di liquore.
Presunsi whisky, sollevando le labbra un triste sorriso. Ecco
un altro ricordo di quando giocavamo a fare gli
innamorati. Quell'idiota di un Colonnello mi si
avvicinava con i miei dolci preferiti
mentre ero disteso
sul materasso, ben conscio però che non sarebbe potuto
andare oltre ai semplici
baci. Avevo solo sedici anni, a quei tempi. Mi
porgeva il piccolo vassoio in argento su cui li riponeva
e io ne rubavo
svelto uno mangiandolo con gusto, sotto i suoi attenti e divertiti
occhi
d’onice; poi ne prendeva uno anche lui
e se lo metteva in bocca,
invogliandomi. E quasi mi sembrava di sentirlo,
in quel momento, mentre
quel ragazzo così
simile a lui mi accarezzava il volto con dolcezza e si avvicinava alle
mie
labbra, quasi timido, ma sorridendo amabilmente come solo lui sapeva
fare.
“Ci sono modi
migliori per consumare della cioccolata, Ed.”
Commento del
giudice:
Una parola sola: FANTASTICA.
Mi hai fatto innamorare di
questa storia!
E’…
è semplicemente meravigliosa! Dolcissima, ma allo stesso
tempo si può
trovare una buona dose di malinconia!
Mi sono sentita esattamente
come Edward, ho provato le sue stesse emozioni!
E, nonostante io sia SEMPRE
per i lieto fine, ho adorato questo finale, un
finale, forse, un pochino sofferto, perché Ed SA, che non
è il suo Roy… ma cosa
può fare se non cedere all’amore infinito che
prova per lui?
Brava, brava e ancora
brava!!! ^^
Solo una cosa: la
grammatica. xDD
Sostanzialmente era molto
curata, anche se i periodi erano un po’ troppo lunghi
e non c’era la sacrosanta pausa virgolesca; ma quello che ti
ha “fregata” è
stato un singolo errore, ripetuto più volte: aperto il
discorso diretto, e una
volta deciso di voler farlo terminare, è corretto mettere il
“.” dopo le
virgolette! Esempio: “Come va?”
“Bene!”.
Capito? ^^
A parte questo, la storia
è meravigliosa così com’è! ^^
Ancora complimentoniiii!! ^^
- 7 punti alla
grammatica;
- 10 punti
all'originalità;
- 9 punti allo stile;
- 8,5 punti per
l'utilizzo
dell'elemento cioccolatoso;
- 5 punti al giudizio
personale.
Messaggio
No Profit
Dona
l'8% del tuo tempo alla
causa pro-recensioni
Farai
felici milioni di
scrittori.
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