«Generale Draven, si
è già occupato del fascicolo?»
«Sarà pronto entro sera».
«Si assicuri di non dimenticarne nemmeno uno. Sono i nostri
salvatori; la storia non li dovrà dimenticare».
«Tutti segnati, ho già avvisato i familiari. Lo sa
che la maggior parte dei loro cari era sollevata?»
«Sollevata?»
«Sostengono che morendo abbiano saldato il loro debito con il
Capitano Andor».
«Non sono sicura di seguire il discorso».
«Yosh Calfor, Farsin Kappehl, Jav Mefran e Serchill Rostok:
erano
tutti nostri messaggeri con Quantificatore. Quelli che il Capitano
Andor salvò da Kessel quando entrò
nell’Alleanza.
C’è anche qualche membro della vecchia Squadriglia
Anima».
«Lo hanno seguito tutti?»
«Sì, più qualche altro pazzo che hanno
recuperato su Jedha».
«Altri membri noti?»
«Bé, Jyn Erso, ovviamente e … ora che
me lo fa notare, qualcosa non torna».
«Cosa?»
«Prima di decollare, hanno fatto testamento e ce lo hanno
fatto
trovare archiviato nel database. È firmato da tutti loro,
è così che li abbiamo rintracciati».
«E quindi?»
«La nave era per venti persone al massimo, invece sono stati
registrati ventuno nominativi».
«Chi manca all’appello, Generale Draven?»
«Qualcuno che si firma MS».
La morte era blu e sapeva di lana.
Quando il Capitano Andor aprì gli occhi, convinto di essersi
rotto l’osso del collo dopo essere precipitato per almeno
cinque metri nello strapiombo dell’archivio informatico, si
stupì di sentirsi dolorante e confuso, ma non da solo.
Qualcuno, non ricordava chi, un giorno gli aveva detto che quando si
moriva toccava farlo da soli. Invece c’era un respiro,
accanto al suo, caldo tanto quanto un fuoco e rassicurante come quello
di una madre.
Dolorante, si scostò piano da quel blu, portandosi in
ginocchio sulla gelida grata di ferro mentre a poco a poco i sensi
tornavano a funzionare.
«Avevo paura che non ti saresti svegliato in tempo».
Scarif era pieno di voci che non ci dovevano essere; spettri, in un
certo senso, ricordi, considerazioni lontane, uomini e donne che erano
rimasti indietro.
Realizzandolo, Cassian si passò la mano sul viso, pulendosi
la guancia da un rivolo di sangue fresco che colava dalla tempia. Aveva
battuto la testa? Nonostante fosse molto probabile, non riusciva a
ricordarlo.
Però vedeva i fantasmi.
«Cassian, andiamo!»
Mariceli aveva i capelli lunghi color della ruggine, il cappotto blu
con il colletto alto, il bastone di ferro poggiato in grembo.
Cos’altro? Cassian pensò che fosse invecchiata
parecchio, ma non riuscì ad esprimerlo a parole. Non
riuscì a fare altro se non osservarla alzarsi in piedi e
protendersi verso il niente che la sovrastava, pallida quanto un
cadavere e con la sciarpa rossa di suo marito stretta attorno al collo
come un cappio.
«Una bella caduta» constatò, piegando il
capo di lato. Sul suo viso apparve un sorriso tagliente quanto una
lama. «Qualcosa di rotto, Andor Cinque?»
Gli scoccò un’occhiata delle sue, una di quelle
colme di furbizia che facevano tornare la speranza anche ai disperati,
poi gli tese la mano per aiutarlo ad alzarsi.
«Coraggio. Per una volta, non sei da solo».
Per Cassian fu come precipitare di nuovo.
«Jyn» sussurrò, sgranando gli occhi e
mancando un respiro.
Mariceli annuì. «Oh, sì»
sussurrò. «Che meraviglia di ragazza».
Batté il bastone a terra, generando un toc che
risuonò dal fondo dello stanzone fino in cima al soffitto
appena visibile nell’oscurità. «Sai, ti
ho osservato» fece, guardandolo rialzarsi a fatica. Lo
aiutò, poi, appoggiandosi piano alla sua schiena e
affondando appena le dita nella stoffa della giacca in un abbraccio
goffo che sapeva di rassegnazione. «Tutto questo tempo, da
quando sei atterrato su Scarif».
Cassian non rispose, ma la raccolse da terra con la facilità
con cui avrebbe raccolto della polvere. In un certo senso lo era,
pensò. Polvere.
Se la caricò sulle spalle in un movimento così
lieve che per un momento credette di immaginarlo.
«Andiamo» le disse, sbuffando. «Non ho
tempo».
Mariceli era leggera, più leggera di quella volta in cui si
era appoggiata a lui mentre piangeva sul cadavere di suo marito.
Però era anche più fredda, più irreale.
Scalando quella torre infinita che si ritrovava a fissare dal basso,
Cassian pensò di aver raccolto l’ennesimo fantasma.
In equilibrio con i piedi piantati tra i dischi rigidi
dell’archivio, si stirò per raggiungere un
appiglio lontano abbastanza da farlo procedere, e digrignò i
denti in un’improvvisa fitta di dolore.
Senza accennare nemmeno un respiro, Mariceli gli accarezzò
il capo. «Te lo avevo detto che l’Andor non ti
avrebbe mai lasciato andare» rispose, poi sbuffò.
«Lassù, Cassian, andiamo. A fare queste cose eri
più bravo di me».
Per un istante si annullò, divenendo così leggera
sulle sue spalle da sembrare svanita nel buio, poi tornò a
tirargli scherzosamente i capelli. Svanì soltanto il tempo
di lasciarlo muoversi con libertà.
«Lo sapevo che ce l’avresti fatta, lo sai? Lo
dicevo tutto il tempo» commentò. «Tylan
era scettico, credo ce l’abbia con te perché mi
hai sparato, ma io insistevo: “sta’ a guardare,
adesso ce la fa. Quello gliel’ho insegnato io, stupido
vecchio!” Sono contenta di vederti qui».
Cassian non le rispose, deciso a proseguire. Pensava, ponderava nella
sua mente che quella che aveva sulle spalle non era altro che
un’allucinazione. Era lui stesso, in un certo senso, che
aspettava di sentirsi dire qualcosa. Ma cos’aveva da
confessare a se stesso, adesso che era sfuggito alla morte?
Sulla cima, il portellone della ventola sopra le loro teste si
aprì e la luce illuminò di vita il viso di
Mariceli. Sotto alle rughe leggere che le piegavano le labbra, si
accesero di colpo tutti i fuochi di Fest a cui lei aveva raccontato una
storia.
Forse non voleva sentirsi dire nulla, forse era lì per il
magro compiacimento di qualcuno che provasse orgoglio per lui.
Nell’Alleanza, di ammirazione Cassian ne aveva ricevuta
parecchia; però la fiducia disinteressata di
un’amica gliel’aveva data soltanto Mariceli.
Sempre più debole, si issò lentamente sopra
quell’ultimo ostacolo, alzando il naso sulla botola per poi
voltare il capo quel poco che il dolore gli permetteva. «Li
ho fatti morire tutti» sibilò, la voce
improvvisamente roca, colma di rabbia.
Mariceli lo guardò con gli occhi colmi di pazienza.
«Lo so» rispose, assottigliando su di lui il suo
sguardo scuro che brillava sempre come una battaglia. «Ma non
è quello che hai sempre fatto? Io e Tylan siamo morti con
te, e non siamo neanche stati i primi». Si addolcì
di colpo, sorridendogli con semplicità. «E invece,
lo sai? Potrei morire ancora cento volte per vederti fare quello che
hai fatto» disse, sul viso neanche un’ombra di
rimorso. «Lo hai visto come combattono gli uomini che ti
hanno seguito, Cassian».
«Cunha è tra loro».
«Cunha ha dato retta a un solo capitano, nella sua vita. Ma
per la miseria, non è mai stato Tylan. Va’ avanti,
non hai tutto il giorno».
Assieme si tirarono oltre la botola, piegandosi sul metallo gelido
della grata che la teneva ferma per riprendere fiato.
Se mai Cassian aveva dubitato di poter raggiungere la cima, ora ne era
quasi del tutto certo che avrebbe riperso i sensi prima di vedere il
cielo. Ammesso che li avesse mai riacquistati, naturalmente. Gli
sembrava tutto così vago, attorno a lui, da sembrare quasi
un sogno. Forse era ancora sul fondo in preda ai deliri
dell’agonia.
«Ascolta, c’è una cosa»
boccheggiò, portandosi una mano al petto. Sentiva lo sterno
premere contro i polmoni, un senso di oppressione che gli rendeva
difficile persino respirare. «C’era anche uno
Sward, sulla navetta. Uno Sward zoppo».
Rannicchiata sul ferro, Mariceli sussultò.
«Molan?» chiese, schiudendo le labbra in
un’espressione atterrita.
«
Doveva
essere lui».
«Azzardato».
«Una volta mi disse di averti sempre seguita».
«Sì, potrebbe anche essere una cosa da Molan. E
forse ha seguito anche te ed è per questo che è
qui. Per rimediare».
«Avrei preferito vederlo su Wobani».
«Accontentati, io avrei preferito che non gli avessi sfondato
una gamba con un estintore».
Si scambiarono un’occhiata fatta di parole, e in un istante
Cassian si sentì coinvolto di nuovo in quella
complicità che avevano costruito assieme dieci anni prima,
quella maniera un po’ sfacciata che avevano di guardarsi e
con cui decidevano la prossima mossa senza nemmeno aver bisogno di
aprir bocca.
Salirono lentamente quel che mancava per raggiungere il cielo, lui
sputando nodi di sangue man mano che sentiva le forze abbandonarlo,
Mariceli standogli appresso, paziente, lieve come la brezza estiva su
Fest. Un paio di volte lo sfiorò, e di nuovo fu come
toccarla davvero, come avere addosso il suo corpo piccolo e leggero,
fatto di tutti gli odori e i rumori delle sue storie. Gli tendeva la
mano e lo tirava su quella scala a pioli che era l’ultimo
passo per arrivare alla vetta, l’ultima fatica per rivedere
la fine.
Infine, uscirono alla luce del giorno.
«C’è qualcosa di oscuro che si
avvicina» gli disse lei, prendendolo per mano quando furono
in piedi sulla cima della stazione. «Devi
sbrigarti».
«Se fossi stata viva, a quest’ora non ci sarebbe
niente».
Quasi si offese. «Se fossi stata viva, senti un
po’, a quest’ora saresti morto tu»
sbuffò, battendo a terra il bastone. «Guarda che
hai del lavoro da fare!»
Sulla piattaforma stava bruciando anche il cielo. C’erano
caccia ribelli che inseguivano bombardieri imperiali che a loro volta
attaccavano altri ribelli, un girotondo fatto di spari che da terra non
era mai sembrato così bello.
Era l’ennesima battaglia, quella, anzi: era
l’ennesima guerra. E Cassian realizzò di essere in
piedi nel cuore di una rivoluzione, una bandiera in mezzo a tante altre
bandiere. Forse la sua era quella più sgualcita, ma era
anche quella che si ergeva più in alto. Era la chiave, la
soluzione, la risposta. Dipendevano tutti da lui e da Jyn.
«Devo andare da solo» considerò,
lasciando andare la mano di Mariceli per la prima volta senza che gli
venisse strappata via a forza. «È la mia
guerra».
Lei gli porse il suo blaster e annuì.
«Va’ a far vedere come si comporta un
capitano» rispose, indicando l’aria aperta che li
circondava.
«Ci rivedremo. Quando sarà finita, saremo di nuovo
assieme».
Mariceli scosse il capo. «Cuore, io e Tylan abbiamo avuto
gente intorno per tutta la vita. Lasciaci da soli, adesso che abbiamo
l’eternità. So che sarai in buona
compagnia». Gli sorrise con la stessa grazia dei raggi del
sole sulla sua pelle, puntando il bastone per terra in un gesto che
lasciava trapelare un po’ di imbarazzo. «Guarda che
io lo dicevo, che mi avresti dato grandi soddisfazioni».
Cassian scosse il capo e chiuse gli occhi. Si sentiva spezzato.
«Dicesti che avremo guardato assieme giorni
migliori», sussurrò.
«Lo stiamo facendo, proprio ora» gli rispose
Mariceli. «E siete stati voi a portarli».
«Ci rivedremo».
«Passerò a trovarti».
«Porta il Capitano Halos».
Mariceli lo guardò, per un istante i suoi occhi si bagnarono
di lacrime, ma non pianse. Dopotutto, pensò Cassian, aveva
avuto anni interi per farlo. Quello era il momento degli addii, non
delle debolezze. Si drizzò semplicemente sul suo bastone da
passeggio, allora, esile nel suo cappotto blu e con i capelli color
ruggine rasati da un lato.
«Siamo tutti fieri di te» sussurrò,
annuendo piano.
«Lo spero».
Si abbracciarono un’ultima volta, silenziosi.
«Forza, vai» gli sussurrò poi lei,
sospirando contro la sua pelle. «E tagliati i baffi. Tylan
dice di no, ma il permesso te lo do io».
Lui la strinse un po’ più forte, muovendo il
braccio che le circondava le spalle. «Avrei voluto dirti
addio».
La sentì sussultare, tremare forse.
«In gamba, Andor Cinque. Io addio non l’ho detto
nemmeno a mio marito».
E di colpo non fu che fumo negli occhi e consapevolezza di aver fatto
pace con i fantasmi. Sembrava polvere e lo divenne davvero, sabbia
scura fatta di ricordi che ormai sbiadivano mentre il vento se li
portava via assieme alla guerra.
Era sparita, stavolta per sempre.
Non gli era rimasto che il blaster tra le mani.
Poco dopo, quando lui e Jyn si sedettero sulla spiaggia ad aspettare la
fine, realizzò che la morte gli faceva molta meno paura di
quanto non avesse mai pensato. Stretto nell’ultimo, umano
calore di un abbraccio, ricordò di quando non era
nient’altro che un ragazzino che si ostinava a tenere gli
occhi aperti quando si trovava davanti a un blaster.
Pensò d’un tratto a Kappa, a Bodhi, a Chirrut e a
Baze, e all’improvviso non ebbe più paura.
Quella volta soltanto, allora, si concesse di morire con gli occhi
chiusi.
Fine, stavolta per davvero.
Ieri sono stata proclamata dottoressa, oggi concludo anche la
fanfiction (a proposito: se qualcuno di voi ieri pomeriggio a Bologna
è stato fermato da un pilota ribelle ubriaco che implorava
di aiutarlo a distruggere la Morte Nera, con tutta
probabilità quel pilota ero io, seguita da un gruppo di
amici più o meno benvolenti nei miei confronti. Scusate).
Comunque. Qui siamo tutti scrittori, perciò credo sia
superfluo dire quanto una storia - per quanto breve - possa lasciare
dentro, quante soddisfazioni possa dare, quante insicurezze, quanti
dubbi, quante serate davanti allo schermo di un computer a buttare
giù frasi che nella maggior parte dei casi finiscono
cancellate dieci ore dopo. Eppure si è sempre pronti a
lavorare a questi piccoli progetti con un entusiasmo che forse andrebbe
applicato altrove.
Insomma, tutto questo giro di parole per dire che sebbene Saboteur sia
stato un lavoro breve, un lampo, starci dietro è stato un
piacere reso ancora più bello da tutte le persone che se ne
sono interessate. Oltre alle recensioni, le chiacchierate via
messaggio, le fanfiction che ho letto in questa sezione mentre
pubblicavo che sono state delle scoperte preziosissime, le meravigliose
parole di tutti voi. Insomma, sono stati due (tre?) mesi davvero
piacevoli, ed è tutto merito vostro ♡
Per cui: grazie a tutti, anche a chi arriverà a lavoro
concluso.
Sappiate che questo fandom è sempre qualcosa di sublime in
cui
sbirciare.
Lemurelli,
Lechat
vert