Il cavaliere e la fanciulla bionda

di Makil_
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Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos.
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile.
Incantatori: ordine giurato unico del continente di Pantagos. Si tratta a tutti gli effetti di un gruppo di sapienti  in cui sono raggruppati guaritori, speziali, alchimisti e finanche stregoni – benché in molti, e nel popolino nello specifico, non credano a questo genere di arti. La sede degli incantatori è la Gilda degli Incantatori, altresì detta Tempio Bianco, sulla Collina di Burk, a Fondocupo. 
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È giorno, tutto risplende di vita.                                                                                                                                                                  
Bart cammina lentamente nel bel mezzo di una piana che si dirada senza fine. Cade la neve, bianca come gocce di latte piovente dal cielo. I fiocchi, delicati come le dita di una donna e candidi come il cotone, si spargono ai suoi piedi. La neve sembra preparargli il percorso da seguire, assumendo l’imperfetta forma di una strada che si srotola sotto ai suoi occhi. Non c’è nessuno oltre lui in quella strada. Non c’è nessuno, in effetti, oltre lui, in quel mondo. Un luogo dolce, in cui la neve si mischia alla felicità di Bart. Alcuni fiocchi gli ricadono sul volto, e questo lo rende felice. Molto.
Bart continua ad avanzare senza sapere dove andare, munito di un bastone bianco che alza e abbassa puntellando il sentiero e scavando la neve. Le dune al confine sono montagne di neve bianca, e le nuvole non esistono nel cielo. Non c’è un sole, eppure tutto è bianco e tutto è lucente, molto più che in qualsiasi altro posto. Alcune civette, bianche anche loro, volano sopra la sua testa, cinguettando versi indecifrabili: lo salutano, lo accolgono nel loro santuario. Quegli animali, uniche presenze che Bart sembra scorgere, appaiono come sagome ritagliate nella neve a cui è stata infusa la vita.
Bart sorride ed è felice, ma non ne capisce il motivo. Non sa perché sta sorridendo. Bart, in verità, non sa neppure perché si trova lì da solo. Eppure sorride sempre più rumorosamente.                                                                                       
L’unico suono che riesce a distinguere è quello delicato dei suoi passi che si infrangono sulla coltre bianca di neve sotto ai suoi piedi. La zolla di terra che percorre è candida, morbida, soffice. Non c’è alcun rumore in quel luogo, persino quello del suo battito è attutito dalla presenza di tutta quella neve.                                                                                                     
Qualcuno lo tocca, proprio sulla spalla, e Bart si gira verso questi. È Amisa Witeolm, l’aggraziata signora di Sette Scuri, la moglie del suo più prezioso confidente. La donna veste il bianco della piana, in perfetto contrasto con la sua pelle scura. Sulla chioma bionda svetta un’enorme corona di neve, lunga, dalla forma a spirale, che si appuntisce all’apice come uno scoglio sporgente dall’oceano. Amisa sta piangendo.                                                                                                                                                                 
«Bartimore.» lo chiama con voce spezzata dal dolore. «Bart.»          
Alle sue spalle, la neve è in parte scomparsa. Adesso c’è una piccola piazzetta sulla quale svettano sette lapidi, aguzze come canini affilati. Ai piedi della nobile signora ci sono sette scuri bianche, quasi indistinguibili su quel manto ancora chiaro.  
Bart si avvicina a colei che è stata la sua tutrice, la sua insegnante, sua madre.                                              
«Sette scuri per sette alberi.» dice Amisa. «Sette posti per sette anime.»                                                                                                  
Poi Amisa guarda verso nord. I fiocchi di neve le ricadono sulle ciocche bionde, sulla sontuosissima veste lattea che mette in mostra tutte le sue delicate forme. Sta ancora piangendo quando un’altra figura passa accanto a loro, senza neppure rivolgergli uno sguardo. Anche la nuova arrivata è una donna. Bassa, dotata di una bellezza timidamente graziosa. È bianca come la luce pura, ma più cammina, più la sua pelle invecchia e s’incupisce. Un passo dopo l’altro e il bianco del suo volto si dirada, si spezza. In breve, quando la donna è ormai al loro fianco, di lei non è rimasto altro che una pelle grigiastra, emaciata, sfibrata.        
«Una lastra marmorea, Bart. Un pezzo di gelido ghiaccio vigoroso» mormora Amisa al suo fianco. Il suo singhiozzare si affievolisce. «Ma le scuri spezzano anche quello.»                                                                                                                                                             
La donna si posiziona vicino alla prima lapide. Bart sa chi è, lo ha capito. Quella donna è sua madre, l’unica vera signora che lui ancora spera di conoscere, ma che non hai mai veramente conosciuto. La rivede ora, in quella piana. Vorrebbe correre verso di lei, abbracciarla, stringerla, baciarla. Vorrebbe scaldarla col suo calore, coprirla dei suoi abiti, solo e soltanto per vederla smettere di tremare sotto tutta quella neve. Ma Amisa lo trattiene per la maglia e lui non riesce a muoversi. La donna si solidifica con le braccia conserte, diviene di porcellana e rimane immobile, custode di ricordi mai susseguitisi, di fronte ad una lapide troppo scura per quel luogo.  
Bart sorride di nuovo, non vorrebbe. Lui avrebbe voglia di piangere, di strapparsi i capelli per il dolore, ma tutto ciò che gli riesce è sorridere. E più soffre per quel motivo, più ride forte. Amisa torna a guardare a nord, la luce pura che riflette sui suoi occhi scuri. La cortina di neve si spalanca e una figura composta, alta, robusta, sorge dal terreno. Con luminosa essenza di vita, Dalton Kordrum cammina altezzoso, dentro la sua solita armatura più bianca del normale. L’uomo è saturo di luce, candido più della neve. La barba brizzolata, i capelli che sembrano nuvole condensate sul suo capo. Più cammina, più il suo volto si fa rosso. I suoi lineamenti si irrobustiscono, si gonfiano. Quando Dalton passa accanto a loro, del suo volto non è rimasto altro che una costellazione di fiori rossi sparsi sotto ai suoi occhi.                                                                               
«Fiori, Bart. Fiori rossi come il sangue. Il fiore è amico dell’albero, e l’albero è forte» dice Amisa. «Ma le scuri spezzano anche quello.»   
I fiori gli succhiano l’essenza della vita, le loro radici attraggono la sua immensa lucentezza, la rendono flebile, sottile, vacua, spenta, morta. Dalton cammina fino alla seconda lapide, e lì si ferma. I suoi già induriti lineamenti si fanno grezzi. Le nuvole sul suo capo condensano. Un alone grigio lo avvolge, lo bacia come lo bacerebbe la dolce ed aggraziata Amisa. Ma lei non può farlo, così come Bart non può fermare quel doloroso momento. Può solo guardare e ridere, ridere e guardare.
Dalton si solidifica, le braccia conserte al petto, molto meno impassibile di quant’è stato in vita.
«Non guardare, Bart.» mormora Amisa. «Non guardare più a nord.»                                                                          
Bart non l’ascolta, come sempre. Nel girare il suo collo verso quella direzione, una figura esile, bionda, sinuosa, sorge da un nugolo bianco. Amisa lo afferra per il braccio, lo strattona, gli piega il polso.                                        
«Un’anima per ogni lapide, Bart. Più a nord guarderai, più la neve cadrà fitta. Non farlo, Bart. Non farlo.»                                               
Bart inizia a ridere fragorosamente, divertito dal fatto che non sta ascoltando il consiglio di Amisa. E lei, la donna che fino ad allora aveva pianto, inizia a tremare, si scompone per la prima volta. La figura sorta si avvicina sempre di più alle braccia di Bart, fino a quando lui non la riesce a vedere. Esmerelle, completamente coperta di neve candida, appare molto più soffice del normale in quel luogo. Molto più bella del solito.                          
Le sette scuri che stanno sul suolo iniziano a muoversi, come animate da una forza impropria ma tremendamente forte. Il loro abbraccio li cinge all’interno di un cerchio, mentre queste iniziano a ruotare, acquistando velocità nel farlo. Ormai, Esmerelle e Bart sono circondati da neve e lame acuminate.                
Fuori dal cerchio di scuri volteggianti, Amisa piange ancora. Non più lacrime, però. Adesso dai suoi occhi sgorga sangue a flussi copiosi. La signora di Sette Scuri si sporca completamente di rosso, del sangue del suo corpo. La bellezza del suo abito si incrosta di sangue, e lei inizia ad urlare, molto più forte di quanto abbia mai fatto in vita sua. Le sue mani si sfogano sulle sue carni, aggrappandone i lembi della sua morbida pelle. Amisa tira fino a che il suo volto non è dilaniato dal furore, fino a che il suo cranio, bianco proprio come la neve e il latte, non è esposto alla luce del giorno. Le sue ossa luccicano di energia propria, una forza potentissima e corrosiva per gli occhi. Ma Bart non smette ancora di ridere. Ora, insieme ad Esmerelle, lui ride ancora più forte, quasi come per deridere Amisa, mentre il suo corpo si accascia per terra, straziato, lacerato e distrutto dal dolore. La candidissima signora di Sette Scuri si decompone rapidamente, screpolandosi in una pioggia di cenere e residui grigi. Il suo teschio, però, rimane intatto, immobile sulla cresta della neve, rosso perché totalmente ricoperto di sangue ancora non versato. Le orbite cave, vuote, che riescono a fissare con rabbia ed accanimento gli occhi di Bart, rimproverandoli con un tenebroso silenzio. Non ha più una lingua, eppure Amisa può ancora parlare.  
«Torna a Sette Scuri, Bart. Fallo per i poveri, per gli innocenti, per Dalton. Fallo per le mie ossa! Fallo per il mio sangue!». Il teschio luminescente rotola nelle neve solcandola di una scia rosso fiamma. «Hai guardato a nord, Bart. Sette lapidi per sette anime. E la neve n’è priva ancora di cinque.»                                                       
Bart afferra il braccio di Esmerelle, vuole scappare da quel vortice di scuri che gli ruotano attorno, ma è impossibile. Il cranio di Amisa stride, emette suoni macabri, acutissimi. La sua voce si è fatta metallica, soffocata, graffiante. «Sette anime, Bart. Tu sai già chi sono. Tu sai già che le sette lapidi avranno sette anime.»
Poi un tonfo. La luce si disperde nell’aria, mentre le scuri prendono a vibrare e a ruotare sempre più velocemente, sempre più furiosamente. Il teschio di Amisa inizia a sbriciolarsi lentamente, come pane secco compresso tra due mani robuste e callose. Le lapidi esplodono in coriandoli di pietra grigia, le statue di Dalton e di sua madre si accartocciano, si sfaldano, perdono i loro pezzi. Tutto prende a ruotare con la neve, i corpi, le ossa, il sangue. E ruotano anche le scuri.      
«Dove sei stato?» chiede la voce di Amisa. Bart non riesce più a vedere la sua signora, ma il suo timbro ormai cupo è ancora nell’aria. «Perché non sei ancora tornato?»                                                                                                                              
«Una promessa, Amisa». Per la prima volta Bart avverte la sua voce, che fuoriesce a fatica dalla sua bocca, quasi forzatamente. «Una promessa che non potrò non portare a termine. Dalton lo sa.»                  
«Non una sola» risponde lei. Il cielo s’incupisce, tutto il bianco di quel luogo perde valore. La luce diviene fioca, sempre più debole, fino a lasciare addirittura spazio al vuoto e alla tenebra. «Dove sei stato?»               
«Sono stato con lei. Io starò sempre con lei.»                                                                                                                       
Un rombo, un cupo ed impetuoso frastuono nell’alto dei cieli annuncia l’arrivo di una tempesta mai udita prima. È la voce di Amisa a produrre quel suono.                                                                                                                                          
«Due lapidi piene, due promesse fatte. Ma di lapidi ne rimangono ancora cinque.»
Tutto inizia a scorticarsi, tutto inizia a tremare. Il buio sale da sud e il suo alone gelido ricopre ogni cosa, soffoca chiunque. Non c’è più luce, è tutto oscurato dalla notte ore, e le civette suonano nelle tenebre. Al suo fianco, Bart può ancora avvertire la presenza di Esmerelle, aggraziata e silenziosa nel suo gelido manto di neve. Non può parlare, può solo contemplare le ombre.      
«Prometti». La voce di Amisa è sempre più lontana, sempre più gelida e nera.                                                                          
«Cosa, mia signora?» chiede Bart.                                                                                                                                           
«Prometti che le cinque lapidi avranno cinque anime. La neve non sarà sazia fino a che le lapidi non saranno riempite. Prometti Bart. Prometti.» 
Bart promette.

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Note d'autore
Un capitolo molto strano, me ne rendo conto, peraltro scritto utilizzando il solo tempo presente: una tecnica che ho sfruttato per rendere più chiara l'immagine, trattandosi ovviamente di un sogno che Bartimore sta vivendo nel suo stato di coma. Come avevo preannunciato, nel capitolo hanno fatto la loro apparizione alcuni personaggi finora solo menzionati: si tratta di Amisa Witeolm, la guida spirituale di Bartimore, di Dalton Kordrum, il signore dipartito di Sette Scuri, e infine la vera madre di Bart, colei che l'ha messo al mondo. Questa volta ho una sola domanda per voi: cosa pensate possa voler significare questo sogno? Si dice che talvolta i sogni siano la vera rivelazione di chiunque li viva... ma questo?
Ringrazio ogni mio singolo lettore e tutti i miei recensori, vecchi e nuovi arrivati, che mi sostengono ogni giorno con i loro inestimabili commenti. Al prossimo aggiornamento [lunedì 27] e a presto!
Makil_

 




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