Buongiorno cari! :) Come
promesso sulla mia pagina facebook, oggi è lunedì
e vi pubblico finalmente un capitolo!
Mi dispiace di farvi attendere così ogni volta, ma i
capitoli sono lunghi e poi il mio tempo libero è
imprevedibile... sfugge via che manco me ne rendo conto D:
Comunque sia, ringrazio di cuore gli affezionati, chi legge e commenta
e chi legge soltanto... Tanto ammmore per tutti!
Spero che questo capitolo vi piaccia e vi auguro una buona lettura!
A presto!
Vostra,
_Pulse_
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20. The
labyrinth of chances
Il suo cellulare iniziò a vibrare con insistenza sul
comodino e Alex allungò faticosamente un braccio
addormentato per poter disattivare la sveglia. Quindi si sedette sul
bordo del letto, con i piedi nudi sul pavimento freddo, e sbuffando per
la stanchezza si grattò la nuca.
All’improvviso una mano le afferrò il lembo della
maglia del pigiama, invitandola a tornare tra le coperte.
«Mmm», mugugnò, lottando per non cedere
alla tentazione di ricadere tra le braccia di Merlino.
Alla fine riuscì ad alzarsi, trovando a tastoni tutti i suoi
vestiti sparsi per la camera. Si stava giusto infilando i jeans, in
equilibrio su una gamba sola e con le palpebre pesanti come mattoni,
quando scorse il volto di Merlino illuminato dalla luce del display del
proprio cellulare.
«Ma è l’alba»,
farfugliò, coprendosi gli occhi con l’avambraccio.
«Me ne sono accorta», rispose Alex. «Che
cosa fai, ti alzi oppure no?».
Sentì il mago sospirare e poi lo vide tirarsi su seduto,
scostandosi bruscamente le coperte di dosso. Una volta in piedi,
raggiunse le porte finestre che davano sul balcone e le aprì
per poter spalancare le persiane e permettere alla luce del sole appena
sorto di inondare la stanza.
Alex rimase a guardarlo mentre si stirava le braccia, sbadigliando, e
ancora una volta fu impressionata dalla quantità di
cicatrici sulla sua pelle. La sua schiena, in particolare, sembrava la
mappa della metropolitana londinese.
Merlino si voltò finalmente verso di lei e le sorrise,
prendendole il volto tra le mani prima di posarle un bacio a stampo
sulle labbra. Quindi si infilò i pantaloni della tuta ed
uscì dalla stanza, tornando poco dopo per darle il via
libera.
Nel silenzio più assoluto passarono davanti alla camera di
Artù, scorgendolo ancora profondamente addormentato
– ed invidiandolo moltissimo per questo – e una
volta in bagno si lavarono la faccia a turno, ancora troppo
addormentati per rivolgersi la parola.
Alex non era una persona mattiniera, o meglio, non era una di quelle
persone già pronte e scattanti non appena messo piede fuori
dal letto: ogni azione, anche la più semplice, le risultava
doppiamente difficile e il suo umore ne risentiva, rendendola acida e
scontrosa.
Forse fu quello il motivo per cui, lavandosi i denti,
sbottò: «Questa storia deve finire».
Merlino, seduto sull’asse del water alle sue spalle,
sollevò il capo solo per mostrarle la propria espressione
annoiata, la quale poteva essere benissimo tradotta in un:
“Ecco, ci risiamo”.
«È inutile che alzi gli occhi al cielo»,
lo rimproverò, puntandogli contro lo spazzolino.
«Siamo nel dannato Ventunesimo secolo: io e te stiamo insieme
e se abbiamo voglia di dormire nello stesso letto Artù deve
farsene una ragione».
«Lo sai che c’è una soluzione a tutto
questo», disse Merlino, passandosi una mano tra i capelli
ormai simili ad un cespuglio: doveva assolutamente tagliarli.
«E ti sembra una soluzione sensata?».
«Sì».
Alex si voltò ed incrociò il suo sguardo serio,
incurante dei propri capelli spettinati e della bocca piena di
dentifricio.
Senza mai interrompere il contatto visivo, Merlino aggiunse:
«Per me ha perfettamente senso. Io ti amo, Alex, e voglio che
tu diventi mia moglie».
L’infermiera rilassò le spalle e con uno sforzo
disumano riuscì a dargli la schiena per sciacquarsi la bocca
nel lavandino. Quindi, con l’asciugamano tra le mani,
rispose: «Anche io ti amo, lo sai, ma… sposarci?
Ci prenderanno per pazzi».
«Da quando ti importa di quello che pensano gli
altri?», le chiese, scrollando le spalle. «Voglio
poter dire con orgoglio di essere legato a te per
l’eternità, voglio farlo prima che sia troppo
tardi».
«
Troppo tardi?
Oh, ho capito. Vuoi che io sia la tua vedova. Sei incredibile,
Merlino».
Scossa dalla rabbia, uscendo dal bagno si dimenticò quasi di
dover fare piano per non svegliare Artù. Merlino la
raggiunse a metà della scalinata e la superò
perché i loro occhi fossero alla stessa altezza.
«Che cos’è che ti impedisce di dirmi
quel maledetto sì?», le chiese con delicatezza,
cercando di raggiungere le sue mani. Alex però
alzò le braccia, quasi in segno di resa, e chiuse gli occhi.
«Io non…», incominciò a dire
coi denti serrati, interrompendosi subito per poter prendere un respiro
profondo e ripartire con più calma: «Non voglio
che tu mi chieda di sposarti per far contento Artù,
né perché sei convinto che presto morirai. Voglio
che tu mi chieda di sposarti perché mi ami più di
qualsiasi altra donna tu abbia mai conosciuto, perché vuoi
promettermi che lotterai fino all’ultimo respiro per poter
invecchiare con me».
Merlino aprì la bocca per rispondere, ma dopo un attimo di
esitazione la richiuse, chinando il capo. Alex sospirò,
trattenendo a stento il desiderio di spingerlo giù dalle
scale, e lo aggirò dandogli una lieve spallata.
«Ah, buona Pasqua», esclamò in tono
lugubre prima di sparire in cucina.
***
«Buongiorno!».
Merlino, seduto al tavolo della cucina con il naso nella propria tazza
di caffè, salutò Artù con un semplice
cenno del capo, al quale il re del passato e del futuro rispose con una
smorfia.
«Hai dormito male anche questa notte?», gli chiese
incrociando le braccia al petto. «Altri incubi?».
Il mago si schiarì la gola per prendere tempo, cercando la
bugia migliore da propinargli. Quella notte non aveva dormito molto,
era vero, ma non a causa degli incubi. Questi tendevano a diminuire,
quando sapeva di avere Alex stretta tra le braccia, ma la
verità era che era proprio Alex la causa di ogni sua
agitazione, perciò… Sì, dormire non
era esattamente la cosa che gli riusciva meglio da quando erano tornati
da Londra.
Avrebbe voluto parlarne con Artù, ma aveva come il sospetto
che dirgli la verità sul loro conto e sul sogno che aveva
fatto pochi giorni prima avrebbe peggiorato soltanto la situazione.
"C’è
stato un tempo in cui ti amavo. Come siamo arrivati a questo?". La
frase pronunciata da Morgana-barra-Alex lo stava letteralmente
ossessionando, come ciò che avrebbe potuto comportare:
sarebbe davvero arrivato un tempo in cui lui e Alex non si sarebbero
più amati, un tempo in cui addirittura si sarebbero trovati
l’uno contro l’altro,
nemici
l’uno dell’altro? E se così fosse,
sarebbe toccato proprio a lui il compito di toglierle la vita,
esattamente come era successo con l’ultima Grande
Sacerdotessa, l’opposto che l’aveva sempre ed
inevitabilmente attratto?
Sapeva quanto potessero essere fraintendibili le profezie e quanto
fossero difficili da aggirare, ma avrebbe fatto di tutto pur di
ottenere un po’ di chiarezza, in modo da poter essere
preparato per ciò che il futuro riservava loro. Per questo
non appena tornati da Londra si era recato ad Avalon.
Nonostante avesse promesso a se stesso che non avrebbe più
avuto nulla a che fare con Freya e quelli come lei, aveva urlato il suo
nome fino a quando non si era ritrovato completamente senza voce. La
custode del lago non gli aveva risposto e non avrebbe dovuto
sorprendersi tanto, né provare delusione nel rendersi conto
che i suoi stessi simili l’avevano abbandonato ancora una
volta, ma…
«Merlino, mi stai ascoltando?».
Lo stregone alzò di scatto il capo verso Artù e
lo trovò con la fronte aggrottata, appoggiato al tavolo con
i pugni chiusi.
«Scusatemi, mi sono distratto. Cosa stavate
dicendo?».
Artù sospirò, annoiato dal doversi ripetere.
«Suggerivo soltanto che dovresti prendere qualcosa, se gli
incubi non ti danno tregua. In quest’epoca non
c’è qualche pozione che fa dormire meglio? Tipo
quelle che preparava Gaius per Morgana. Non hai imparato proprio niente
da lui?».
Merlino gli lanciò un’occhiata così
cupa che Artù si morse il labbro inferiore, deviando il suo
sguardo e servendosi da sé la colazione.
Quella mattina però il re di Camelot doveva essersi alzato
col desiderio di infliggergli una qualche punizione, dato che riprese
l’argomento mentre si versava un po’ di
caffè in una tazza.
«Insomma, adesso ho capito che gli incubi di Morgana non
erano incubi normali, ma…».
«Basta», lo interruppe Merlino, alzandosi di scatto
dalla sedia. «Perché continuate a parlare di
lei?».
Artù inarcò un sopracciglio, fingendosi stupito e
confuso. «Non posso?».
«Lo sapete che parlare di lei mi è
difficile».
«Lo so, davvero? A me non pare di aver mai affrontato
l’argomento».
Merlino respirò profondamente, massaggiandosi gli occhi con
due dita. «Bene. Se dovete chiedermi qualcosa fatelo, non
girateci intorno».
Artù lo fissò per qualche secondo e dopo averlo
indicato – silenzioso ordine di non muoversi –
corse su per le scale. Non appena ritornò, con un lieve
fiatone, sbatté sul tavolo un largo braccialetto argentato e
con fini motivi floreali color oro antico.
Il cuore di Merlino si fermò vedendolo e per un attimo
pensò che quella volta ci sarebbe rimasto secco.
Così non fu, perché riprese a battergli
dolorosamente nella gabbia toracica.
«Quando l’avete trovato?», gli chiese con
un fil di voce, allungando una mano per accarezzarlo e ritraendola
immediatamente.
«Prima della perquisizione, quando ti ho aiutato a recuperare
gli oggetti di valore dalla soffitta».
Lo stregone chiuse gli occhi, abbozzando un sorriso dalle venature
tristi. Certo, avrebbe dovuto immaginare che Artù ne avrebbe
approfittato per curiosare.
«Che cosa volete sapere?».
I lineamenti del viso di Artù si ammorbidirono e addirittura
gli posò una mano sulla spalla, quasi come se volesse
consolarlo per la sua perdita.
«C’è mai stato qualcosa tra di
voi?».
«Se c’è stato qualcosa?». A
Merlino scappò una risatina isterica, mentre gli occhi gli
si riempivano di lacrime. «Credo di essermi innamorato di lei
dal primo momento in cui l’ho vista, quando Gaius mi ha
chiesto di portarle proprio uno di quei filtri per gli incubi.
C’è sempre stato qualcosa tra noi,
perché entrambi possedevamo un dono che non avevamo chiesto,
un dono scomodo, ingombrante. La magia ci ha legato, ma poi ci ha
irreparabilmente resi la nemesi l’uno dell’altro:
Emrys e Morgana, la luce e l’oscurità,
l’amore e l’odio. Decine di volte, quando voi
pensavate che io fossi alla taverna o chissà dove, io e lei
ci siamo fronteggiati. Lei mi ha avvelenato, torturato, ha soggiogato
la mia mente perché vi uccidessi, mi ha imprigionato nel
fitto della foresta così che gli scorpioni giganti mi
mangiassero vivo, mi ha reso privo di poteri proprio prima della
battaglia di Camlann… Ma non è stata sempre
così, voi ve la ricordate tanto quanto me. E io…
io sono rimasto a guardare mentre cambiava e diventava una persona che
non era, mentre covava il rancore che l’avrebbe
distrutta… E poi l’ho vista morire».
Merlino si sottrasse dalla ormai debole stretta di Artù
– complice lo shock per tutti i retroscena che gli aveva
appena rivelato – ed incrociò le braccia al petto,
in un abbraccio solitario. Quando ebbe il coraggio di rialzare la
testa, nonostante le lacrime gli rigassero le guance, trovò
gli occhi blu del re ancora fissi su di sé.
«Sono stato io ad ucciderla, Artù. Non esistono
pozioni che possono cancellare ciò che ho fatto».
Finalmente riuscì ad afferrare il braccialetto di Morgana
– ritrovato per puro caso nella Francia del 1500, su una
bancarella carica di oggetti di ogni genere – e con lo
stomaco sottosopra si diresse verso l’ingresso.
«Merlino», lo chiamò Artù
prima che potesse chiudersi la porta alle spalle, col giubbotto blu
infilato solo per metà.
«Mi ricordo cosa le dicesti quella notte: “Mi
biasimo per quel che sei diventata”. Voglio che tu sappia che
non è stata colpa tua se Morgana ha scelto
un’altra strada».
Senza voltarsi, Merlino rispose pacatamente: «Invece
è stata tutta colpa mia, perché non ci ho creduto
abbastanza: avrei dovuto stare dalla sua parte fin
dall’inizio, aiutarla a cambiare il destino che avevano
scritto per noi».
«E adesso? Adesso ci credi?».
Merlino rimase in silenzio, il bracciale di Morgana stretto forte tra
le dita.
«Stai facendo lo stesso errore», aggiunse
Artù, quasi con disprezzo. «Hai fatto intendere ad
Alex che il destino non si può cambiare, ma la
verità è che, come allora, non vuoi nemmeno
provarci».
Lo stregone si passò una mano sul viso per spazzare via le
lacrime e come se Artù non avesse detto nulla
esclamò: «Muovetevi, o faremo tardi al
lavoro».
Detto ciò, si chiuse la porta d’ingresso alle
spalle e si infilò il bracciale di Morgana in tasca, tirando
su col naso.
***
Alex chiuse gli occhi ed immaginò di star impugnando ancora
Excalibur; quando li riaprì, una forza e una sicurezza quasi
pericolose la fecero sentire rilassata e a proprio agio persino in
quella situazione disperata.
«Libera!».
Keith alzò gli occhi sul monitor coi parametri vitali della
paziente ancor prima di sollevare del tutto le piastre del
defibrillatore. Ormai erano rimasti solo loro due a lottare per quella
vita, testardi e tenaci come muli.
Se fosse stata pienamente in sé l’infermiera
avrebbe capito che non c’era più nulla che
potessero fare, che quel cuore si era fermato e che non avrebbe ripreso
a battere, ma da quando era tornata da Londra, da quando il richiamo
della spada magica le era risultato irresistibile, era diversa. E se ne
rendeva conto, eccome: Excalibur la faceva sentire potente, le faceva
credere di più nelle proprie possibilità e non
aveva più paura di mettersi in gioco.
Ovviamente c’erano degli effetti negativi
all’esposizione di tutta quella magia: alcuni che aveva
già avuto modo di provare sulla sua pelle - scatti
d’ira improvvisi, martellanti mal di testa - ed altri del
tutto nuovi che più di una volta l’avevano
spaventata così tanto da farle quasi confessare tutto ad
Artù e Merlino.
Il lato oscuro della sua anima si era fatto più intenso,
così potente che il pensiero di ottenere tutto quello che
voleva e di porre rimedio alle ingiustizie con la forza,
l’inganno e se necessario persino la sofferenza, non le era
sembrato poi tanto sbagliato. E poi aveva iniziato a fare quei sogni,
confusi e senza né capo né coda, che
però le lasciavano addosso un velo di sudore e un terribile
senso di inappartenenza.
Spesso e volentieri pensava di aver raggiunto il proprio limite, di
essere sul punto di spezzarsi, combattuta tra il bene e il male, ma
ogni volta che si convinceva che dire la verità a Merlino
fosse la cosa giusta da fare, lo scudo che la magia le stava lentamente
costruendo intorno al cuore le faceva cambiare idea. Quel giorno era
successo già due volte: quando Merlino aveva riaperto il
discorso “matrimonio” e ora, davanti al cadavere di
quella signora che le ricordava tremendamente la sua amata nonna. La
magia era come un anestetico che allontanava le emozioni, le rendeva
meno vivide: la felicità era sì smorzata, ma lo
era anche il dolore, e per lei questo contava moltissimo. Era stanca di
soffrire, stanca di combattere fino allo stremo delle forze per
realizzare i propri sogni. Preferiva vivere così, distante
dal mondo reale, in una bolla di apatia, piuttosto che ricoprirsi di
lividi invisibili.
«Dannazione!», urlò Keith stringendo i
denti, per poi chinare il capo e concedersi un paio di respiri
profondi.
Consegnò ad Alex le piastre del defibrillatore e si
voltò per guardare l’orologio appeso alla parete.
«Ora del decesso: dieci e cinquantaquattro».
Alex segnò l’ora sulla cartella clinica e senza
dire una parola gliela porse perché firmasse.
Keith si tolse con stizza i guanti in lattice e prese la penna per
scarabocchiare il proprio nome, anche se i suoi occhi non si
allontanarono di un centimetro dal volto dell’infermiera.
«Grazie per essere rimasta, per averci provato fino alla
fine», le sussurrò.
«È il mio lavoro».
Il dottore si accigliò, stranito. «Il tuo lavoro
è assistere, sì, ma l’Alex che conosco
mi avrebbe detto di dichiararla almeno dieci minuti fa».
«Di sicuro non le ha fatto male»,
commentò scrollando le spalle.
Con la cartella clinica sotto braccio si avviò verso la
porta, ricordandogli che il marito e il figlio della donna stavano
aspettando nella sala d’aspetto, quando Keith
l’afferrò per un braccio ed inchiodò
gli occhi grigio-azzurri nei suoi.
«Alex, sei sicura di stare bene?».
«Benissimo, perché?».
«Lo so che non è la prima volta che vedi morire
qualcuno, ma è normale non abituarsi; non devi vergognarti
di nulla, men che meno con me».
«Non capisco di cosa tu stia parlando», rispose
quasi con rabbia l’infermiera, scrollando il braccio
perché la lasciasse andare. «Ora ho molte
scartoffie da sistemare, se permetti».
Keith aprì la bocca per dire qualcos’altro,
qualcosa che Alex non sentì, già lontana lungo il
corridoio.
Per raggiungere la reception dovette passare di fronte alla sala
d’aspetto, dove con la coda dell’occhio scorse i
familiari della donna che non erano riusciti a salvare. Tirò
dritto e rendendosi conto di non provare né dolore
né sensi di colpa nei loro confronti un sorriso sereno le
incurvò le labbra.
«Ehi, è tutto okay?».
Una collega del pronto soccorso, con la cornetta del telefono
incastrata tra l’orecchio e la spalla, la stava fissando con
un’espressione indecisa, tra il preoccupato e
l’inorridito, come quando non si sa bene se far notare un
brufolo o far penosamente finta che non ci sia.
«Ce l’hai con me?», le chiese
indicandosi.
«Sì. Hai… Stai piangendo».
Alex si passò una mano sulla guancia indicata dalla collega
e la trovò rigata da una lacrima silenziosa. Rise
nervosamente, dimostrandosi sorpresa.
«Dev’essermi entrato qualcosa
nell’occhio, sto bene».
La collega stiracchiò un sorriso e per sua fortuna non
poté aggiungere altro, ricevendo finalmente risposta alla
sua telefonata. Alex ne approfittò per sgattaiolare via e
rifugiarsi nei bagni, dove attraverso lo specchio si osservò
piangere fuori, senza avvertire alcunché dentro.
***
Un rombo a lui familiare gli fece voltare di scatto la testa verso la
strada sterrata che portava alla facciata in mattoni
dell’agriturismo.
Alla guida del carretto su cui facevano salire a turno i bambini delle
scolaresche perché sperimentassero il più antico
mezzo di trasporto dei contadini, Artù non poté
allontanarsi fino a quando non completò il giro.
Dopodiché aiutò quelle tre ochette vestite di
rosa e lilla a scendere, prendendole in braccio una alla volta ma senza
prestare troppa attenzione ai loro ringraziamenti: era impaziente di
correre incontro a Cathleen, sperando che si trattasse davvero del
paramedico.
«Forza Artù, vai. Per oggi hai fatto
abbastanza».
Il re di Camelot raddrizzò la schiena dopo aver lasciato a
terra l’ultimo confetto dai capelli neri e si
voltò verso Edwin, il quale lo stava guardando con un
sorriso di chi la sapeva lunga.
Con una mano stesa verso le redini dello stallone dal manto color
cioccolato, il padre di Alex accennò ancora una volta allo
stabilimento oltre le stalle. «Non farla aspettare».
Artù sorrise entusiasta e diede una carezza alla criniera
del cavallo prima di consegnare le redini all’uomo.
«Grazie, Edwin. Ci vediamo domani».
Iniziò ad incamminarsi frettolosamente verso il maniero, ma
un improvviso vociare concitato lo fece voltare nuovamente,
incuriosito.
«Sono ventitré, ne manca uno! Chi manca? Oh mio
Dio, mio Dio».
La giovane insegnante si sistemò nervosamente i capelli
dietro le orecchie, rossa in volto e con gli occhi lucidi di
preoccupazione, mentre il collega più anziano la rassicurava
dandole leggere pacche sulla schiena ed iniziava a fare
l’appello.
Artù ed Edwin si scambiarono un’occhiata e il
padre di Alex gli fece segno di andare comunque, lasciando sottointeso
che ci avrebbe pensato lui. Il re fu tentato, fece persino un passo
verso la sua meta, ma alla fine scosse il capo e sbuffando
ritornò vicino alla classe: ventiquattro bambini di otto
anni, tanto chiassosi ed irritanti da far venire il mal di testa,
eppure adorabili e fonti inesauribili di allegria. Ventiquattro meno
uno.
«Cody?», chiamò il professore, senza
ricevere risposta.
L’insegnante, ora pallida come un cencio, mormorò
ripetutamente: «Cody non c’è.
Dov’è Cody?».
«Va bene signorina, abbiamo capito che Cody si è
allontanato dal gruppo. Vedrà che sarà qui nei
paraggi, ne sono sicuro. Lo troveremo», tentò di
rassicurarla Edwin, ma la ragazza iniziò ad urlare il nome
dell’alunno, vagando quasi senza meta tra i recinti.
Il signor Greenwood si avvicinò ad Artù e gli
sussurrò: «Questa è andata. Portala da
Wanda e poi torna qui con Abraham, più siamo meglio
è».
«Ci penso io».
Artù raggiunse la professoressa ed avvolgendole le spalle
con un braccio la condusse fino all’agriturismo. Entrarono in
cucina passando dalla porta sul retro e lì trovarono la
signora Morris, intenta a sfornare una torta di mele: il suo profumo
delizioso si sentiva da chilometri di distanza.
«Che cos’è successo a questa povera
creatura?», gli chiese non appena mise piede nel suo regno,
affrettandosi per far sedere l’insegnante ormai muta e ben
lontana dall’afferrare qualsiasi cosa succedesse intorno a
lei.
«Si sono persi un bambino», spiegò
brevemente il biondo. Non era la prima volta che capitava,
perciò erano abituati a gestire situazioni del genere.
Wanda lo congedò con un cenno del capo, non prima di dirgli
che avrebbe potuto trovare Abraham nella cucina del ristorante.
Artù si avviò con passo pesante, pregando che nel
frattempo quel bambino fosse già tornato dai compagni.
Passando di fronte alla reception, dove Rebecca stava esaminando alcune
carte, non riuscì a resistere ed esclamò,
facendola sobbalzare per lo spavento: «È per caso
passata di qui una ragazza? Capelli rossi, piercing al naso…
bella?».
La figlia dei signori Morrison scosse il capo, un po’ delusa
che cercasse un’altra e non lei. «È la
tua ragazza?», chiese infatti un po’ di risentita.
«Non lo so, forse. Quindi non l’hai proprio
vista?».
«L’ultimo a passare di qui è stato
Merlino, venti minuti fa», disse scrollando le spalle e con
gli occhi di nuovo sulle sue carte.
«Okay, grazie comunque».
Lei non gli rispose né lo salutò e
Artù decise che non l’avrebbe mai capita.
Passò oltre, facendo lo slalom tra le poltrone in salotto ed
accedendo alla sala da pranzo del ristorante. Non gli piaceva entrare
in quella cucina, visto che cos’era successo a Merlino
l’ultima volta, ma si fece coraggio e spinse le pesanti porte
per venir subito assalito da un caldo quasi soffocante.
«Signor Morris?», chiamò boccheggiando
alla ricerca d’aria.
«Sì? Chi mi cerca?».
Abraham comparì da dietro i fornelli, con un mestolo in una
mano e una padella nell’altra, lo stretto grembiule bianco
macchiato e la cuffietta in testa che stonavano terribilmente con la
sua corporatura massiccia.
«Artù, che cos’è
successo?».
«Si sono persi un bambino. Edwin mi ha mandato a
chiamarla».
Il proprietario dell’agriturismo guardò il
contenuto della sua padella, quindi sbuffò e la
posò sul ripiano della cucina.
«Ragazzi, fate in modo che non si bruci! Torno tra
poco!», gridò e dopo essersi spogliato della
divisa di aiuto-cuoco seguì Artù
all’esterno.
Provò persino a far smuovere dal proprio morbido cantuccio
il vecchio Rufus, un bellissimo esemplare di pointer inglese dal pelo
fulvo chiazzato di bianco sul muso e sull’addome, ma
l'età l'aveva reso stanco e pigro. Adorava sonnecchiare
accanto al fuoco e farsi accarezzare dai bambini, e gli unici
spostamenti che faceva erano dettati da bisogni fisiologici
improrogabili. Perciò rimasero senza parole quando lo videro
sollevarsi sulle quattro zampe e seguirli in giardino, dove Edwin e
l’insegnante rimasto si erano già spartiti le
varie zone da controllare.
«Artù, tu controlla nel pollaio».
«Perché proprio io il pollaio? Odio quelle
bestiacce!», si lamentò, ma sotto lo sguardo
acceso di furbizia dei compagni di classe del piccolo Cody
sospirò ed annuì.
Mentre percorreva il sentiero che l’avrebbe portato al
pollaio si chiese se non si fosse soltanto immaginato il rombo della
moto di Cathleen, se la sua voglia di vederla fosse talmente grande da
tirargli quegli scherzi.
Non era stato facile per lui, ma aveva mantenuto la parola data e una
volta ritornato da Londra aveva voluto incontrarla subito,
così da levarsi il pensiero. Si erano visti al parco di
fronte all’ospedale, un luogo neutrale, e seduti sulle
altalene cigolanti Artù aveva parlato per quelle che gli
erano sembrate ore, rivelandole tutta la verità sul suo
conto. Non aveva tralasciato niente: le aveva raccontato della sua vita
a Camelot, le aveva elencato tutto ciò che aveva perso, le
aveva spiegato i motivi della sua morte e del suo ritorno, o almeno
quelli su cui i custodi della magia avevano puntato tutto.
Cathleen aveva ascoltato in silenzio, senza mai interrompere, poi si
era alzata e l’aveva invitato a fare lo stesso per poterlo
abbracciare. A bassa voce, col mento posato sulla sua spalla, gli aveva
chiesto del tempo per metabolizzare il tutto. Si sarebbe fatta sentire
lei quando sarebbe stata pronta e lui aveva rispettato la sua scelta,
anche se in certi momenti gli era sembrato di impazzire, controllando
ossessivamente il cellulare, scrivendo e cancellando decine di
messaggi, urlando ogni volta che sentiva la propria suoneria o anche
quella di Merlino.
Lo stregone aveva cercato di stargli accanto, di consigliarlo proprio
come ai vecchi tempi, ma né lui né Alex in quel
periodo sembravano in ottima forma. Entrambi sembravano distratti,
appesantiti da fardelli non condivisibili. In particolare, Alex gli era
parsa allo stadio successivo del suo cambiamento, in cui a dominarla
non c’era più la rabbia cocente con la quale aveva
raso al suolo la propria suite, ma il gelo, il disinteresse e
l’indifferenza.
Nonostante la sua preoccupazione, nessuno dei due aveva voluto
approfondire l’argomento, liquidandolo con spiegazioni vaghe,
scuse e «Non so» che l’avevano costretto
ad allontanarsi di propria volontà. Non gli era mai piaciuto
rimanere da solo, ma se la sua esperienza come re gli era servita a
qualcosa era proprio capire che abbracciare la solitudine era prova di
grande coraggio e saggezza.
Pescò da una delle tasche del marsupio legato in vita una
piccola torcia elettrica ed entrò con cautela nel pollaio.
La maggior parte delle galline si trovavano fuori, a scorrazzare nel
recinto, ma alcune sonnecchiavano sopra le uova appena deposte.
Artù si chiuse la cigolante porta alle spalle e nel silenzio
gli sembrò di sentire un lieve singhiozzare.
«Cody?», chiamò sottovoce, puntando il
fascio di luce negli anfratti della costruzione in legno. «Lo
so che sei qui, vieni fuori».
Il re porse l’orecchio per capire da dove provenissero i
singhiozzi e continuò ad avanzare fino a quando non si
trovò faccia a faccia con una gallina che, spaventata dalla
luce della torcia, gli volò addosso chiocciando
istericamente. Artù, preso alla sprovvista, fece appena in
tempo a coprirsi il volto con le braccia e ad accucciarsi a terra,
mordendosi la lingua al pensiero delle risate che Merlino si sarebbe
fatto se fosse stato lì con lui. Lui e Alex
l’avrebbero preso in giro per settimane.
Aspettò immobile che la gallina si tranquillizzasse ed
iniziasse a beccare tra la paglia, poi sollevò il capo e
quasi cadde culo a terra incrociando gli occhi lucidi di Cody,
rannicchiato proprio di fronte a lui, dietro la grata.
«Eccoti qui, finalmente», esclamò,
aprendo la grata perché il bambino abbandonasse il proprio
nascondiglio. «Gli insegnanti e i tuoi compagni di classe ti
stanno cercando, sai?».
«Non voglio tornare da loro», mugugnò
tirando su col naso, le braccia strette intorno alle ginocchia.
«Perché?».
Il bambino cercò di ignorarlo, guardando altrove, ma alla
fine cedette agli occhi blu di Artù, così
profondi e degni di fiducia.
«Non voglio tornare a casa, non voglio vedere mio
papà». Nascose di nuovo il volto tra le braccia e
i singhiozzi ripresero, ancora più forti.
Artù sentì il cuore stretto in una morsa e dopo
essersi chiesto che cosa avrebbe fatto se quello fosse stato suo
figlio, spense la torcia e non senza qualche difficoltà
strisciò all’interno del cantuccio per sedersi
accanto al bambino. Quindi gli avvolse un braccio intorno alla schiena
e con l’altra mano iniziò ad accarezzargli i corti
capelli biondi.
«La mia mamma è morta un mese fa», disse
ancora, avvicinandosi ad Artù tanto da posare il capo sul
suo petto. «E tutte le volte che mi vede piangere mi dice che
non devo farlo, che devo essere forte e che nessuno merita le mie
lacrime».
Quelle parole furono come una botta in testa per il re di Camelot, che
lo riportò al giorno in cui aveva visto Merlino piangere sul
cadavere dell’ultimo signore dei draghi. Aveva cercato di
tirarlo su di morale e gli aveva detto ciò che diceva a
tutti i suoi cavalieri più giovani: «Nessun uomo
merita le tue lacrime». Il mago ci aveva scherzato su come
sempre e non gli aveva mai confessato che in realtà quello
sconosciuto morto tra le sue braccia era il padre che aveva appena
ritrovato.
Aveva sbagliato molte volte a giudicare Merlino, e molte volte ancora
l’avrebbe fatto, ma una lezione almeno l’aveva
imparata.
«Tuo padre si sbaglia», mormorò
sollevandogli il viso con due dita sotto il suo mento, così
che i loro sguardi si incrociassero. «Ci sono delle persone
che meritano le nostre lacrime, persone speciali ed insostituibili.
È solo che gli adulti spesso hanno paura di mostrare i
propri sentimenti, le proprie debolezze… si sentono
vulnerabili. E tuo padre deve sentirsi così, al momento.
Vuole che tu sia forte perché lui non lo è
abbastanza, perché vederti piangere lo fa star male ancora
di più».
«Allora che cosa devo fare per farlo stare meglio, secondo
te?».
Artù scrollò le spalle, guardando le tegole di
legno sopra la sua testa. «Io e mio padre non parlavamo mai
dei nostri sentimenti, ma se potessi tornare indietro gli direi che
tenersi tutto dentro fa male e che mostrarsi indifesi non è
sempre una cosa di cui vergognarsi. Gli spiegherei perché
piango e lo inviterei a farlo con me, se vuole».
Insospettito dall’improvviso silenzio caduto tra di loro, il
re di Camelot abbassò gli occhi e trovò quelli di
Cody di nuovo luminosi, colmi di gratitudine e determinazione.
Somigliavano a quelli di Graalmir nei disegni di Merlino.
«Allora, che cosa stiamo aspettando?», gli chiese
con una finta nota impaziente nella voce. «Asciugati gli
occhi e andiamocene: questo posto puzza».
Il bambino rise di cuore e si passò le maniche della felpa
sulle guance, poi uscì agilmente dall’anfratto ed
aspettò che Artù lo raggiungesse. Si
lasciò prendere tra le braccia e una volta seduto sulle
spalle del re di Camelot alzò le braccia verso il cielo, da
dove sperava che la sua mamma lo stesse guardando.
I compagni di classe di Cody corsero loro incontro, entusiasti, non
appena li videro arrivare. Artù fece scendere il bambino e
fu sorpreso da un suo caloroso abbraccio, le braccia strette intorno al
suo collo.
«Grazie, ragazzo della fattoria».
Il re non ebbe nemmeno il tempo di ricordargli il suo nome: Cody e i
compagni, urlando e spingendosi a vicenda, corsero verso gli insegnanti
che li chiamavano a squarciagola, specialmente la professoressa in
stato di shock che sembrava essersi rimessa e accolse la pecorella
smarrita tra le sue braccia rachitiche.
Scuotendo il capo con un sorriso divertito sulle labbra,
Artù notò Merlino in tenuta da giardinaggio, con
i guanti e un marsupio simile al suo pieno di attrezzi per curare le
piante, appoggiato al recinto dei cavalli. Al suo fianco
c’era Cathleen, i capelli rosso sangue scompigliati dal vento
e un sorriso dolcissimo ad incurvarle le labbra.
Il cuore di Artù iniziò a battere
all’impazzata, tanto da fargli temere un attacco. Fu solo un
attimo però ed incurante dei rischi le corse incontro,
travolgendola in un abbraccio euforico per cui la sollevò
per la vita e le fece fare un giro di trecentosessanta gradi.
«Sono così felice di vederti», le
sussurrò tra i capelli non appena la riportò con
i piedi per terra.
«Me ne sono accorta!», rispose ridendo.
Più teneramente e togliendogli una piuma bianca dai capelli,
aggiunse: «Anche tu mi sei mancato».
«Okay, non voglio vedere altro», si intromise
Merlino sollevando le mani. «Ci vediamo più tardi
all’ospedale».
Artù corrugò la fronte, esclamando confuso:
«Credevo ci andassimo tutti insieme».
«Cambio di programma». Cathleen gli porse un casco
arancione decorato da grandi stelle nere e bianche. «Io e te
li raggiungeremo più tardi. Voglio portarti in un posto
prima».
«Okay, allora… A dopo, Merlino».
Lo stregone lo salutò con un cenno della mano e
scambiò un’occhiata con Cathleen, la quale
annuì quasi solennemente.
Artù si chiese se mentre lui non c’era avessero
parlato di qualcosa in particolare, fu quasi sul punto di domandarlo
alla diretta interessata, ma se ne dimenticò non appena
salì sulla sua moto e le strinse le braccia intorno alla
vita, il petto contro la sua schiena e i suoi capelli che gli
accarezzavano il volto.
Adorava andare in moto, adorava andare in moto con Cathleen
perché poteva stringerla forte come desiderava senza provare
alcun imbarazzo, sentirla vicina senza avvertire alcun senso di colpa
infilzargli il cuore.
***
Merlino fermò l’auto vicino ad Avalon e si
incamminò a piedi fino alla riva est, dove la vecchia
barchetta dondolava pigramente sulla superficie piatta
dell’acqua. Vi salì e con calma iniziò
a remare verso l’isola avvolta nella nebbia più
fitta che avesse mai visto.
Quando intorno a sé non vide altro che barriere lattiginose,
tirò fuori il cellulare dalla tasca dei jeans e
chiamò il primo numero della sua rubrica: Alex.
Mentre aspettava che rispondesse, Merlino fu ancora una volta assalito
dalle preoccupazioni e non fece altro che peggiorare la situazione
ripensare a ciò che gli aveva detto Cathleen poco prima.
Un rombo insolito ruppe
il silenzio e la calma della campagna.
Merlino
allontanò lo sguardo dai vitigni che stava potando e vide
una moto a lui familiare sollevare un gran polverone nel parcheggio
dell’agriturismo.
Raggiunse il
motociclista e si appoggiò al muro di mattoni con una
spalla, togliendosi gli spessi guanti per appenderli alla fibbia del
marsupio mentre lo osservava sfilarsi il casco dalla testa. Avrebbe
riconosciuto tra mille quella cascata di capelli rosso sangue.
«Ciao».
Cathleen si
voltò quasi di scatto e lo fissò cercando di
decifrare la sua espressione. Merlino le rese il lavoro molto
più facile: sollevò entrambe le mani in segno di
resa ed abbozzò un sorriso.
«Vengo in
pace», esclamò prima di avvicinarsi ulteriormente.
«Com’è
che questo non mi rassicura, anzi, mi mette ancora più in
ansia?».
Merlino
sospirò e si passò una mano sulla nuca, cercando
le parole adatte per scusarsi. Come poteva dirle, possibilmente senza
ferire i suoi sentimenti, che tutto quello che desiderava era la
felicità di Artù?
«Io e te non
viaggiamo sulla stessa lunghezza d'onda, è
evidente», esordì Cathleen, risolvendo ogni suo
problema. «E forse non andremo mai d’accordo,
eppure c’è qualcosa, o meglio, qualcuno
che ci lega: Artù.
Lui è davvero speciale e… ti prometto che
avrò cura di lui. Questo ti basta?».
«È
tutto ciò che voglio».
«Allora siamo
d’accordo». Sorridendo, stese una mano verso di lui
in segno di pace. Merlino l’afferrò a
metà dell’avambraccio, guidando la sua mano
perché facesse lo stesso.
«Si usava
così tra i cavalieri di Camelot», le
spiegò teneramente.
Cathleen
rinsaldò la stretta, guardandolo dritto negli occhi.
Quando si separarono
l’uno dall’altro, Merlino le fece cenno di
seguirlo: Artù era impaziente di vederla e non voleva
nemmeno immaginare la sua reazione nel caso in cui avesse saputo che
non l’aveva immediatamente portata al suo cospetto.
«Sai, sono
contenta di questa tregua», disse lei dopo un paio di minuti
di silenzio, spesi nell’attraversare i vitigni.
«Anche io. Mi
dispiace di essermi intromesso in quel modo nella tua vita, due anni
fa; volevo solo dare una mano».
«Un uccellino
me l’ha fatto capire».
Merlino e Cathleen si
scambiarono un’occhiata e ridacchiarono, ringraziando
silenziosamente Artù.
Visto che ormai stavano
mettendo tutto sul piatto, Merlino aggiunse: «E mi dispiace
anche che tu sia venuta a sapere la verità sul nostro conto
in maniera così… brutale. Non ero in me, quel
giorno».
«Alla fine
credo che sia stato meglio così: non vi avrei mai creduto,
se me l’aveste detto seduti ad un tavolo, con
delicatezza».
«Può
darsi», mormorò sollevando gli occhi verso il
cielo terso.
Si chiese se Alex si
stesse già organizzando per la caccia alle uova di quel
pomeriggio e quale fosse il suo umore al momento.
Cathleen gli diede un
pugnetto sul braccio, estrapolandolo dai propri pensieri.
«Chissà, magari col tempo e conoscendoci meglio
potremmo persino diventare amici, io e te».
«Mai dire
mai», rispose stirando un sorriso.
«Pensa,
Artù sarebbe così felice
se…».
Merlino la
lasciò parlare per un po’, senza prestarle
attenzione: non riusciva a pensare ad altro che ad Alex in quei giorni,
al suo infausto destino che ora gravava pure su di lei.
Da quando erano tornati
da Londra l’aveva sentita ridere sempre meno,
l’aveva vista meno partecipe e più incline alla
solitudine e al silenzio. Si stava allontanando anche da lui, un passo
alla volta, e Merlino era certo che c’entrasse la fonte di
magia che le aveva conferito quegli straordinari poteri i cui effetti
le stavano costando così caro.
Sapeva quanto potesse
essere forte il richiamo della magia, perciò sapeva
già che chiedere direttamente ad Alex sarebbe stato inutile.
Se voleva delle risposte, doveva cercarsele da solo.
Aveva guardato ovunque
nei paraggi di casa sua, nei luoghi che di solito frequentava e anche
in quelli più impensabili. Aveva chiesto a suo padre, alle
sue colleghe e alla signora Begum se recentemente avessero assistito a
qualcosa di insolito – fasci di luce dorata, ad esempio
– e l’unica stranezza che era riuscito a scovare
era l’improvvisa crescita di vegetazione sui campi a
metà strada tra il paese e l’agriturismo, campi
che tutti nella zona avevano dichiarato sterili da almeno dieci anni.
Ma per quella aveva già la spiegazione:
sull’odierna radura di erba color smeraldo, margherite e
altri colorati fiori di campo, Alex aveva assorbito e rigettato la
magia con cui Merlino aveva potuto curare Artù davanti ai
suoi occhi increduli.
Quelli che cercava erano
segni ed effetti negativi, come quelli che stavano lentamente
avvelenando la sua Alex. Doveva trovare in fretta quella fonte e
distruggerla, o avrebbe corrotto la sua anima per sempre.
«Ehi».
Cathleen lo fermò all’improvviso e lo
guardò fisso negli occhi.
«Scusami, mi
sono distratto. Stavi dicendo?».
Il paramedico
incrociò le braccia al petto. «Ti stavo dicendo
che Keith è venuto a cercarmi, stamattina, per chiedermi se
Alex stava bene. Ci sei?».
All’improvviso
col cuore in gola, scosse il capo. «Ricomincia
dall’inizio».
Cathleen gli
raccontò che dopo aver perso una paziente per arresto
cardiaco, Keith aveva trovato Alex fin troppo calma ed indifferente,
come se davvero non le fosse importato nulla della vita di quella
donna. La sua reazione l’aveva insospettito tanto da andare a
cercare Cathleen, quella che nell’ultimo periodo era
diventata una delle persone più vicine ad Alex tra le mura
dell’ospedale, per chiederle appunto se aveva
un’idea di che cosa potesse esserle successo. Lei gli aveva
promesso che avrebbe indagato, perché magari non era
così per Alex, ma per Cathleen l’infermiera stava
decisamente diventando una sua cara amica.
Così
l’aveva cercata in lungo e in largo, chiedendo a chiunque
incontrasse sulla propria strada, e alla fine aveva incrociato
un’infermiera che aveva affermato di averla vista piangere e
sorridere contemporaneamente, un’immagine che le aveva fatto
venire la pelle d’oca e che non avrebbe dimenticato tanto
facilmente.
«Io dovevo
già andare da Alex per avvisarla che io e Artù vi
avremmo raggiunti più tardi alla caccia alle uova, quindi
quando l’ho trovata ho usato quella scusa. Anche io ho notato
che non sembrava pienamente in sé e le ho chiesto se era
successo qualcosa che l’avesse turbata, ma mi ha assicurato
di star bene. Ma è veramente così?».
Gli occhi color nocciola
di Cathleen si inchiodarono in quelli del mago: non aveva scampo.
L’unica cosa che poteva fare per il momento era mentire,
ammesso e concesso che dopo tutte le confessioni non avesse dimenticato
come si facesse.
«Alex ti ha
per caso raccontato del nostro viaggio a Londra?», le chiese
arricciando il naso.
«No, non
personalmente. Ho saputo da Keith però che è
stata molto vaga in proposito: da come me l’ha raccontato
lui, è come se qualcosa di buono fosse comunque successo,
qualcosa in grado di darle speranza».
Quelle parole furono in
grado di riscaldargli il cuore, ma non di dargli pace.
«Sei stato tu,
vero?».
Merlino gettò
un’occhiata confusa a Cathleen, la quale sollevò
un angolo della bocca in un sorrisetto malizioso e fece scontrare le
loro spalle.
«Dai, lo si
vede da lontano un miglio che è successo qualcosa tra voi
due. Hai finalmente deciso di lasciarla entrare nella tua vita e siete
una coppia adesso. Allora, ci ho preso oppure no?».
Esasperato dalla sua
eccitata insistenza confessò, mordendosi un sorriso
imbarazzato. «Sì, ci hai preso. Ma abbiamo deciso
di non dirlo a nessuno per il momento. Nemmeno Artù lo sa e
guai se…».
«Geloso della
nipotina?», gli chiese, ridacchiando, e Merlino nascose il
collo tra le spalle.
«Una cosa del
genere».
«Non ti
preoccupare, con me il vostro segreto è al sicuro».
Merlino
ricordò le rare occasioni in cui aveva sentito quella frase
e sorrise emozionato, senza però riuscire a ringraziarla.
Quella ragazza era una vera chiacchierona, quando si metteva
d’impegno.
«Forse
è questo allora che la mette a disagio: non è mai
stata brava con i segreti, la sua faccia è un libro
aperto».
«Forse»,
disse ancora il mago, perfettamente a conoscenza del fatto che quello
non fosse l’unico segreto che Alex si ostinava a mantenere,
mettendo inconsapevolmente in serio pericolo la sua stessa vita.
Cathleen gli diede una
pacca sulla schiena, sospirando sollevata. «Allora non
abbiamo nulla di cui preoccuparci: dobbiamo solamente attendere il
grande annuncio! Avvisami, mi raccomando, non voglio
perdermelo».
Il mago sorrise,
annuendo mestamente, ma non fece in tempo a rispondere: il paramedico
aveva già cambiato argomento, domandandosi se prima o poi
avrebbero davvero fatto quell’uscita a quattro.
«Pronto?».
«Ciao Alex, ti disturbo?».
«Ciao… No, dimmi tutto».
Merlino si sdraiò sul fondo umido della barchetta e
guardò il cielo azzurro oltre la foschia. «Avevo
solo voglia di sentire la tua voce».
«Sicuro? Mi sembri strano…».
«Alex, non me lo perdonerei mai se ti accadesse qualcosa di
male».
L’infermiera ridacchiò. «E cosa potrebbe
mai succedermi?».
«Non lo so, scusami se ti annoio con le mie
paranoie».
«Merlino, tu non mi annoi. Però ho bisogno di te
qui in ospedale, sono in ritardo sulla tabella di marcia».
«Ho paura che arriverò in ritardo»,
disse lo stregone, chiudendo gli occhi e sporgendo il braccio fuori
dall’imbarcazione, le dita della mano a mollo
nell’acqua gelida. «Wanda ha bisogno di me ancora
per un po’».
«Che cosa? E le hai detto di sì? Lo sapevi
benissimo che oggi c’era la caccia alle uova!».
«Credimi, si tratta di una questione importante».
«Più importante anche di me?».
Merlino strinse ancora di più le palpebre mentre tremando si
preparava a liberare la magia dalle proprie catene.
«Non c’è nulla che io ritenga
più importante di te».
«Evidentemente non è così»,
mormorò con voce intrisa di delusione l’infermiera.
«Alex. Ti prego non riattaccare, ho bisogno
di…».
Ma lei aveva già terminato la chiamata.
Merlino avvertì una lacrima scivolargli lungo la tempia
giusto prima che la magia rompesse anche l’ultima sua
barriera e lo percorresse con la stessa forza di una scossa elettrica.
Inarcò la schiena e sbarrò gli occhi dalle iridi
dorate urlando nella lingua dell’Antica Religione, mentre
onde di luce si espandevano lunga tutta la superficie di Avalon:
l’acqua iniziò a brillare e gli spiriti degli
antichi custodi del lago, gli Sidhe, iniziarono a mostrarsi ai suoi
occhi, volteggiandogli intorno nelle loro auree bluastre. Sorpresi e
meravigliati dalla forza della sua magia, e nonostante essa li avesse
risvegliati dal lungo sonno a cui erano stati costretti per preservare
le energie e non morire, in coro iniziarono ad avvertirlo che se avesse
continuato in quel modo si sarebbe distrutto.
«Ho bisogno di sapere», riuscì a dire
tra i denti, il viso grondante di sudore e il corpo che gli doleva in
ogni parte. «Devo parlare con Freya».
«Colei che cerchi non riposa più qui»,
gli rivelò una fata. «Esattamente come tu hai
risvegliato noi, ella è stata riportata alla vita da una
potente magia. Devi riconsegnarla a noi, stregone, o questo mondo ne
perirà».
Stravolto com’era dalla sofferenza non riuscì a
dimostrarsi sufficientemente scioccato, né ebbe le energie
necessarie per chiedere se Alex fosse in qualche modo coinvolta.
L’ultima cosa che vide prima di perdere conoscenza fu il
cerchio iridescente che gli Sidhe formarono sopra il suo capo;
l’ultima cosa che sentì fu il loro canto melodioso
che alleviò un poco il suo dolore. Poi il buio lo
inghiottì.
***
Artù non era mai stato in un cimitero moderno e gli fece
parecchia impressione varcare i cancelli di quel grande campo con file
e file di lapidi e statue di angeli.
Senza nemmeno rendersene conto cercò la mano di Cathleen per
stringerla forte mentre camminando al suo fianco osservava i volti
delle persone un tempo sorridenti e ora sepolte sotto tre metri di
terra.
«Va tutto bene?», gli chiese il paramedico,
scorgendo la sua espressione addolorata.
Il re si morse le labbra, deviando il suo sguardo, per poi confessare:
«Non mi trovo a mio agio, sapendo di calpestare le ossa delle
persone un tempo amate da qualcuno. Noi li bruciavamo, i nostri
defunti. Li posavamo su barche colme di fiori e li spingevamo a largo
per guardare le fiamme rendere libere le loro anime».
«Ma così non avevate nessun posto dove andare per
onorare la loro memoria», puntualizzò Cathleen,
con le sopracciglia inarcate.
«Non c’è bisogno di andare in un posto
per onorare la memoria delle persone a noi care»,
sussurrò e posandosi una mano sul cuore aggiunse:
«Sono sempre qui».
Cathleen, nonostante gli occhi lucidi di lacrime, lasciò che
un sorriso sbocciasse sulle sue labbra rosse. «Sono punti di
vista, immagino».
Lo prese di nuovo per mano e lo invitò a proseguire al suo
fianco.
Si fermarono di fronte ad una lapide bianca su cui spiccava la
fotografia di un ragazzo dagli occhi blu elettrico e i capelli castani
con un ciuffo verde.
Cathleen si inginocchiò di fronte alla tomba e
rimpiazzò i fiori vecchi con quelli che aveva comprato al
chiosco all’esterno del cimitero. Poi si posò un
bacio sulle dita e con esse sfiorò il volto spigoloso del
suo ex fidanzato, immortalato per sempre nel bel mezzo di una risata.
Alzò il capo verso Artù e con fare solenne disse:
«Tu mi hai raccontato tutto del tuo passato,
perciò è giusto che io ti renda partecipe del
mio. Questo è Zachary, l’amore della mia vita.
Sono passati già sette anni dalla sua morte, ma quel giorno
è ancora marchiato a fuoco nella mia mente».
Artù si inginocchiò al suo fianco e le
posò una mano sulla schiena, a mo’ di conforto.
«Stavamo andando a Cardiff per assistere ad un concerto e
c’è stato un incidente… Per evitare il
camion che aveva invaso la nostra corsia –
l’autista si era addormentato – la nostra auto si
è schiantata contro il guardrail. Zachary ed io sembravamo
esserne usciti più o meno illesi: avevamo qualche livido, a
lui usciva del sangue dal naso e io pensavo di essermi rotta solo il
braccio, perciò ci guardammo negli occhi e scoppiammo a
ridere. Lo so, è pazzesco, ma eravamo così felici
di essere vivi che…». I singhiozzi la interruppero
e Artù fu costretto a sedersi sull’erba per
stringerla forte tra le braccia.
«Shh, va tutto bene», le sussurrò
baciandole i capelli.
«Degli automobilisti si fermarono per soccorrerci e
chiamarono subito l’ambulanza, ma nel frattempo Zachary perse
conoscenza. Aveva sbattuto violentemente la testa sul finestrino e il
colpo aveva causato un’emorragia interna che in poco tempo
l’ha portato alla morte celebrale. In ospedale non poterono
fare più nulla per lui, se non decretare che non si sarebbe
mai risvegliato. Io impazzii dal dolore e mi accanii contro i
paramedici dell’ambulanza, pensavo che ci avessero messo
troppo tempo ad arrivare, che era tutta colpa loro se il mio Zach era
morto. Solo molto tempo dopo mi sono resa conto che non era
così, che quei pochi minuti non sarebbero serviti a
salvarlo. Ciò nonostante decisi di diventare io stessa un
paramedico, per onorare quelle persone che avevano dato il massimo per
noi e per alleviare il dolore della perdita di Zachary salvando altre
vite».
«Scommetto che lui sarebbe orgoglioso di te», disse
Artù, accarezzandole il viso ed asciugandole le lacrime con
il pollice.
«Lo sai che cosa mi fa più rabbia?»,
continuò Cathleen, guardandolo fisso negli occhi.
«Noi non ce lo meritavamo. Zachary ed io abbiamo rischiato la
vita centinaia di volte, correndo con le nostre moto».
Artù abbassò lo sguardo sui pupazzi, gli
striscioni, le dediche e le fotografie che gli amici del ragazzo
avevano lasciato sulla sua tomba, soffermandosi in particolare sulla
foto che ritraeva proprio due motociclisti che si tenevano per mano
durante una pericolosa acrobazia a mezz’aria, con le loro
moto da cross strette tra le gambe.
«Circa un mese prima dell’incidente ci eravamo
promessi che non avremmo più gareggiato, che avremmo messo
la testa a posto. Ci saremmo trovati un lavoro normale, ci saremmo
comprati una casa e ci saremmo sposati… tutto
perché avevo scoperto di essere incinta». Si
strinse il ventre tra le braccia, nascondendo il viso
nell’incavo tra la spalla e il collo di Artù.
«Ho perso anche il nostro bambino, quella notte. Aborto
spontaneo dovuto allo shock, mi hanno detto. Tutti i nostri sogni si
sono infranti quella notte e io mi sono ritrovata sola, a pezzi. Non so
nemmeno come sia riuscita a rialzarmi…».
«Lo so io», mormorò Artù,
prendendole il mento tra due dita per sollevarle il viso. Immerse gli
occhi nei suoi, fronte contro fronte, e le rivolse un sorriso dolce.
«Ce l’hai fatta perché sei forte,
perché il fuoco della vita brucia dentro di te e niente al
mondo potrebbe mai spegnerlo».
«E sei sicuro che sia un bene? A me sembra piuttosto che
questo fuoco bruci tutto quanto».
«Solo perché ancora non gli hai trovato uno
scopo». Le accarezzò il viso con una mano,
scostandole i capelli. «Ti ricordi la nostra promessa?
Affronteremo qualsiasi cosa, insieme».
Cathleen annuì e chiuse gli occhi alle ennesime lacrime che
le scivolarono sulle guance, perfette come gocce di diamante. Quindi
avvolse le braccia intorno al collo di Artù e lo strinse
forte, respirando profondamente.
«È buffo», mugugnò ad un
tratto.
Artù non smise di accarezzarle la schiena. «Che
cosa?».
«Non ho mai creduto alle seconde
possibilità».
Il re di Camelot fu grato che Cathleen non potesse vederlo in viso,
dove al momento aleggiava un’espressione amareggiata. Solo
ora riusciva a comprendere appieno ciò che Merlino aveva
voluto dirgli il giorno del galà al Castello di Windsor:
«Avete una seconda
possibilità e giuro che non la sprecherete cercando di
combattere il destino al mio fianco».
Quella era davvero la sua seconda possibilità di essere
felice, di avere la vita che nel profondo aveva sempre voluto, lontano
da Camelot, libero dalle sue responsabilità di
sovrano… Ma sapeva anche che non avrebbe mai lasciato che
Merlino affrontasse da solo il proprio destino.
Ricordava bene anche quello che gli aveva risposto:
«Quando
arriverà il momento, Cathleen capirà».
Con il paramedico ancora stretto tra le braccia, iniziava a pensare che
forse non sarebbe stato così facile. Come avrebbe potuto
dirle che avrebbe inevitabilmente rovinato anche la sua seconda
possibilità? Al momento gli sembrava impossibile.
Perciò chiuse gli occhi e si abbandonò alla sua
stretta, pregando perché durasse ancora un po’.
***
Abigail fece un respiro profondo e si alzò in piedi,
lasciando la sedia a rotelle accanto alla porta. Quindi
bussò ed aspettò di sentire la voce di Mark darle
il permesso di entrare, invano.
Ad un certo punto si azzardò ad aprire la porta quel tanto
che bastava per sbirciare all’interno della stanza: Mark
c’era e, sdraiato sul letto con le scarpe ai piedi, stava
giocando con la sua PS Vita. Il motivo per cui non l’aveva
sentita bussare erano le due grosse cuffie verde acido che gli
coprivano le orecchie e che sparavano a tutto volume i ruggiti dei
motori delle auto da corsa.
Abby si avvicinò e si sedette sul bordo del letto. La prima
volta Mark sollevò gli occhi annoiato, alla seconda li
sgranò per lo stupore e si dimenticò
completamente della gara, tanto che dalle cuffie si sentì lo
schianto dell’auto contro il guardrail.
La ragazzina ridacchiò, riportandolo alla realtà.
Mark si tolse velocemente le cuffie dalle orecchie, facendosi cadere
persino la bandana rossa dalla testa. Cercò di sistemarsela
frettolosamente, paonazzo in volto, ma Abigail gli prese le mani tra le
sue e si sporse verso di lui fino a che le loro labbra non si
incontrarono.
Con estrema cautela, Abby sollevò una mano e gli
accarezzò la guancia, poi scese sul collo e lentamente
iniziò a risalire sulla sua nuca rasata. Fu allora che Mark
si scostò bruscamente, facendo penzolare le gambe
dall’altro lato del letto rispetto a quelle di Abigail.
Lasciò la Play Station in mezzo a loro e si legò
nuovamente la bandana intorno al capo privo di capelli, poi strinse i
pugni sulle ginocchia e serrò la mascella, senza trovare la
forza di rompere il silenzio senza urlarle contro. Perché
con Mark era così: o era tutto rose e fiori oppure era un
completo disastro; nessuna via di mezzo.
«Dì qualcosa, qualsiasi cosa», lo
pregò Abigail, cercando ancora una volta di prendergli una
mano tra le sue.
«Non ho più nulla da dirti, lo sai».
«Non è vero».
«Perché sei così ostinata?!»,
gridò e finalmente si voltò a guardarla,
trovandola con gli occhi pieni di lacrime. Sentì il cuore
pulsargli in gola, dolorosamente, e pieno di vergogna
abbassò il capo.
«Io ho bisogno di te, Mark», sussurrò
con voce tremante Abigail. «Se tu non vuoi essere
più il mio ragazzo è okay, mi sta bene, ma non
posso rinunciare completamente a te».
«Il problema è che la tua amicizia non mi basta.
Essere il tuo ragazzo è tutto quello che voglio»,
confessò Mark, prendendole il volto tra le mani. Anche lui
aveva gli occhi lucidi, in quel momento. «Lo so che per te
è difficile da capire, cercherò di spiegartelo
ancora una volta: io non voglio illudermi. Il solo pensiero che uno dei
due possa sopravvivere all’altro mi terrorizza: se fossi tu,
non mi perdonerei mai che tu pianga per me; se fossi io… non
vorrei vivere in un mondo senza Abigail Reed».
Abby lo guardò intensamente negli occhi, fino a quando una
risata non le arricciò le labbra.
«C’è qualcosa che ti
diverte?», le chiese il ragazzino, con la fronte corrugata.
«L’hai letto, alla fine. Hai appena citato
Colpa delle stelle».
«Cosa? No!».
«Sì, invece», insistette e lo
punzecchiò all’addome.
Mark, rosso come un peperone, non cedette: «Ti dico di
no!».
Continuarono così per un po’, fino a quando non si
ritrovarono a ridere, appoggiati l’uno all’altra.
Abigail gli avvolse le braccia intorno alla schiena e
respirò profondamente il profumo della sua pelle.
«È troppo tardi, ormai», gli
sussurrò ad un tratto.
«È troppo tardi per cosa?».
«Per tirarci indietro. Credi che non soffriremo, stando
lontani? Sarà peggio… molto peggio. Se mai non
dovessi farcela, vorrei andarmene con te al mio fianco».
«Non dire così. Tu non te ne andrai. Non puoi
andartene», mugugnò Mark contro la sua spalla.
Quindi la strinse più forte a sé e Abby, pur
sapendo che il suo corpo fragile ne avrebbe riportato i segni, lo
lasciò fare. Anzi, avrebbe voluto che la stringesse ancora
più forte, in modo da rendere quei lividi indelebili sulla
sua pelle.
«Basandomi puramente sulle percentuali, tu hai molte
più possibilità di sopravvivere di me. Il linfoma
di Hodgkin è più curabile della
leucemia».
«Ma tu sei già guarita», fece notare.
«Sei qui solo per la terapia di consolidamento».
Mark aveva ragione, tuttavia… negli ultimi anni Abigail
aveva imparato a conoscere il suo corpo e da qualche settimana a quella
parte aveva sentito qualcosa cambiare, nonostante i farmaci. Il giorno
degli esami di controllo non era lontano e aveva paura, una paura
tremenda che mostrassero una recidiva. Per questo e anche
perché semplicemente teneva moltissimo a Mark, voleva che
tutto tra loro si risolvesse per il meglio.
Dopo un silenzio interminabile, Mark si scostò per guardarla
negli occhi ed accarezzarle delicatamente le guance, il collo, le
spalle e infine le braccia, fino a raggiungere le sue mani esili e
pallide. Se le portò entrambe alle labbra e
sussurrò: «Non ti arrenderai mai, vero?».
Abby, con gli occhi luminosi e il cuore pieno di speranza, scosse il
capo.
«Allora sarò costretto ad essere il tuo
cavaliere».
«Non desideravo altro», rispose prima di gettarsi
di nuovo tra le sue braccia e baciarlo sulle labbra.
Fu di nuovo Mark a staccarsi, chiedendo: «Ma tu ti sei
vestita in questo modo per la caccia alle uova?».
Abigail si alzò e costrinse il ragazzino a fare lo stesso.
Tenendolo per mano, fece un giro su se stessa in modo da mostrargli il
suo vestito color rosa perla, con la gonna alta fin sotto al seno e il
corpetto tempestato di brillanti. Dato che aveva la schiena
completamente scoperta e le sue difese immunitarie non avrebbero
gradito molto, sulla carrozzina aveva lasciato un maglioncino chiaro.
«Ti piace? Me l’ha regalato mia nonna».
«Non sapevo fosse così moderna», rispose
Mark, non riuscendo a non indugiare con lo sguardo sulle sue gambe
snelle avvolte soltanto dal sottilissimo velo delle collant color
nude.
Abigail rise, trovandosi col petto contro quello di Mark in una specie
di ballo lento di cui solo loro sentivano la musica.
«Che scemo che sei. Mi ha detto che si è fatta
consigliare dalla ragazza che l’aiuta a casa».
«Allora dovrò ringraziarla, prima o
poi».
Sorridendo sbarazzino, si protese verso il suo viso per baciarla; Abby
però gli posò un dito sulle labbra e con gli
occhi sorridenti disse: «Dovremmo andare. Siamo in ritardo
per la caccia alle uova».
Mark arricciò il naso, non proprio felice, ma alla fine
annuì con un cenno del capo e le posò una mano
sulla schiena per invitarla a precederlo mentre lui recuperava la
propria sedia a rotelle.
Abigail sospirò di sollievo quando tornò a
sedersi sulla carrozzina, senza però farsi vedere dal suo
ragazzo. Infatti gli sorrise quando lo vide spingersi fuori dalla
stanza e chiudersi la porta alle spalle.
Fianco a fianco raggiunsero la sala comune, dove trovarono tutti i
bambini che avevano ricevuto l’invito di Alex e che non erano
impegnati con le terapie. Peccato che di lei non ci fosse traccia.
«Dov’è andata?», chiese
Abigail.
Gabriel, con entrambe le braccia sul tavolo e la testa nascosta tra di
esse, mugugnò: «Non si è ancora vista.
Probabilmente si è dimenticata».
«È impossibile», esclamò con
determinazione Mark, stringendo i pugni sui braccioli della sedia a
rotelle. «Sarà solo in ritardo.
Arriverà, ne sono sicuro», aggiunse, ma nel
profondo temeva il peggio. Gettò un’occhiata nella
direzione di Abigail, la quale lo capì al volo e lo sostenne.
Successivamente si spostarono per parlare in privato e, preoccupati che
quella giornata si trasformasse in un completo disastro, decisero di
andarla a cercare.
«Forse però è meglio se vado solo
io», lo interruppe la ragazzina.
«Perché?».
«Perché se davvero dovesse esserle successo
qualcosa, tu non avresti la sensibilità adatta».
«Io sono molto sensibile!», ribatté,
offeso.
Abigail gli tirò una guancia, per poi sfiorargli appena le
labbra con le proprie, incurvate in un sorriso.
«Sì, come un cactus. Torno presto».
«Va bene», si arrese con un sospiro Mark,
lasciandola andare.
Abigail diede le spalle alla sala comune ed iniziò a cercare
Alex, chiedendo sue notizie a tutte le infermiere e ai dottori che
incontrava. La cercò nella sala relax del quarto piano, nei
bagni e negli spogliatoi, poi prese l’ascensore e una volta
nel reparto del Pronto Soccorso si ritrovò un po’
spaesata: non visitava spesso il piano terra e i corridoi le sembravano
tutti uguali, infiniti. Ad un certo punto fu costretta a fermarsi a
causa della stanchezza.
Chiuse gli occhi, posando la testa contro la parete alle sue spalle, e
si concentrò sul proprio respiro. Venne distratta da una
voce calda e da una mano che delicatamente le accarezzò la
fronte. Sollevando le palpebre pesanti trovò due occhi
grigio-azzurri ad attenderla, colmi d’apprensione, subito
sostituiti da un fascio di luce accecante.
«Penso che dovresti stenderti un po’»,
disse un dottor Ellis privo di camice, inginocchiandosi di fronte a lei.
«No, sto bene», mentì, abbozzando un
sorriso. «Cercavo proprio lei».
Keith si indicò stupito. «Me? Hai avuto fortuna
allora: stavo andando via. Devo comprare altro cibo per gatti. Sai,
quando Alex è andata a Londra mi ha chiesto di occuparmi del
suo micio, ma quando è tornata mi ha chiesto se volevo
tenerlo. È stata molto vaga sul motivo...».
«Ecco, a proposito di Alex... l'ha vista da qualche parte? In
oncologia la stiamo aspettando per la caccia alle uova».
«Oh sì, mi ha accennato qualcosa in proposito.
Però non ho idea di dove sia, mi dispiace. Hai
già provato a chiamarla?».
«Decine di volte», rispose sollevando il cellulare.
«È davvero strano. Non è da Alex
sparire così».
Keith si strinse nelle spalle. «Probabilmente oggi
è la giornata delle stranezze. Dovevi vederla questa
mattina: non la riconoscevo neanche».
Abby si morse il labbro inferiore e dopo qualche istante di silenzio
sorrise, ringraziando il dottor Ellis per il suo tempo.
Prima di uscire dalle porte scorrevoli del Pronto Soccorso si
infilò il maglioncino, ma il freddo le entrò
comunque nelle ossa mentre si dirigeva faticosamente verso la piscina
chiusa per i lavori di ristrutturazione.
Mark le aveva raccontato che poco prima che Steve li lasciasse si era
rifugiato lì, in cerca di silenzio e solitudine, e che Alex
l’aveva trovato subito. Sperava che l’infermiera
avesse riciclato il suo nascondiglio, o sarebbe dovuta tornare in sala
comune per annunciare che la caccia alle uova era stata rimandata a
data da definirsi.
«Oh no», mormorò sfinita di fronte alla
transenna.
Si fece coraggio, per i bambini e la buona riuscita della caccia alle
uova, e lasciò la carrozzina all’esterno per
potersi infilare nel cantiere. Reggendosi al muro, si
incamminò verso l’entrata e ringraziò
il cielo quando, oltre il vetro sporco, scorse Alex seduta a bordo
piscina. La raggiunse lentamente e poi si appoggiò con una
mano alla sua spalla per sedersi al suo fianco.
«Ti ho cercata ovunque», sospirò Abby,
accarezzandole un braccio. «Gli altri ci stanno
aspettando».
Alex si massaggiò gli occhi lucidi con una mano, tirando su
col naso. «Porgi loro le mie scuse. Al momento non sono in
vena di festeggiare».
«Posso sapere che cos’è
successo?».
«Io e Merlino abbiamo fatto l’amore, a
Londra».
Abby sgranò gli occhi, scioccata. «Puoi ripetere,
per favore?».
«Sì, noi… siamo una coppia,
adesso».
«Cosa, come…? Perché non ci avete detto
nulla?!».
«Abbiamo deciso di aspettare il momento giusto. Il fatto
è che… Non lo so, Abby. Io lo amo, non ho mai
amato nessuno in questo modo, e sognavo questo momento da anni, eppure
ora che ho quello che desideravo… ne sono spaventata. E se
rovinassimo tutto? Se tra noi non dovesse funzionare e perdessimo anche
la nostra amicizia? Io non voglio vivere senza di lui».
La ragazzina sorrise e le posò una mano sulla schiena per
confortarla. Alex si voltò per la prima volta a guardarla e
non riuscì più a tenere a freno le lacrime:
lasciò che le rigassero il volto, nascondendolo tra le
pieghe della gonna di Abigail.
«Ti capisco benissimo», mormorò la
ragazzina, accarezzandole i capelli.
«Non voglio smettere di amarlo… Non voglio
smettere di sentire il mio cuore accelerare, di sentire le farfalle
nello stomaco tutte le volte che i suoi occhi incrociano i
miei…».
«Questo non succederà mai. Come potrebbe? Niente
è più forte dell’amore».
Alex singhiozzò più forte, stringendo i pugni.
«Anche io avevo paura all’inizio»,
confessò Abigail. «Avevo paura che io e Mark
avremmo perso qualcosa, mettendoci insieme. Ma non è
successo. In effetti, non è cambiato proprio niente: i
sentimenti che proviamo l’uno per l’altra sono gli
stessi che provavamo quando eravamo semplicemente amici. Forse siamo
destinati a stare insieme, non ne ho idea. Nulla potrà
spezzare il nostro legame, o quello tra te e Merlino».
«Vorrei poter avere la tua stessa sicurezza»,
mugugnò l’infermiera, sollevandosi lentamente per
poterla guardare negli occhi.
Abigail le accarezzò il viso con entrambe le mani,
soffermandosi a guardare il colore delle sue iridi. C’era
qualcosa di diverso, qualcosa che però non riusciva ad
afferrare.
Le sorrise, prima di asciugarle il viso e posarle un leggero bacio
sulla fronte. «Basta piangere: non tutti hanno la fortuna di
avere accanto la propria anima gemella».
Alex si sforzò di ricambiare il sorriso e si
alzò, prendendo Abigail per le mani per aiutarla a fare lo
stesso. Quindi, con lei appoggiata ad un fianco, la riportò
alla sua sedia a rotelle.
«Non è che potresti spingermi tu?», le
chiese la ragazzina, troppo spossata per continuare a fingere.
«Certamente. Va tutto bene?».
«Sì, sono solo un po’ stanca. Ho girato
tutto l’ospedale per trovarti!», rispose
ridacchiando, socchiudendo gli occhi.
«Mi dispiace, non avrei dovuto reagire in questo modo. Mi
farò perdonare, te lo prometto».
«Iniziamo a rendere questa caccia alle uova indimenticabile.
Sei d’accordo?».
«Certamente».
Abigail sorrise, cacciando in un angolo della sua mente il pensiero che
quella sarebbe potuta essere proprio la sua ultima caccia alle uova.
***
«Ti dico che questo è il momento adatto per andare
fino in fondo alla faccenda. Non sappiamo quando la vecchia
tornerà a far visita a sua nipote, non possiamo lasciarci
scappare quest’occasione!».
La ragazza dai capelli corvini roteò gli occhi al cielo e
chiuse l’acqua del rubinetto. Posò il secchio in
un angolo della cucina e vi versò dentro un po’ di
detersivo per pavimenti, ignorando il fratello che continuava
a dire tutte quelle sciocchezze sulla fonte dell’eterna
giovinezza e su tutti i soldi che avrebbero fatto, così
tanti da riempirci una piscina e poterci fare il bagno.
«Hala, ma l’hai visto bene? È la stessa
persona!».
«Spostati».
Il ragazzo si scansò dalla traiettoria dello straccio che la
sorella aveva appena lanciato sul pavimento.
«Lo so che non vuoi che vada a cercarlo perché
pensi che non avrei dovuto frugare tra le cose che la vecchia aveva
detto di buttare, ma…».
«Adesso basta!», gridò Hala,
sollevandosi e puntandogli il manico dello spazzolone contro il petto.
«Uno, non chiamare la signora Chapman “la
vecchia”; due, sì, non mi sta bene che tu te ne
vada in giro per il Galles alla ricerca di uno sconosciuto che somiglia
all’uomo di quella fotografia».
«Somiglia? Hai detto davvero
somiglia?! Dovresti
andare da un oculista, ciccia».
Serrando la mascella per non urlargli ancora contro, Hala riprese:
«E sentiamo, nel remoto caso in cui tu riesca davvero a
rintracciarlo… Che cosa gli dirai? "Mi scusi, nella soffitta
della signora Chapman ho trovato una foto risalente agli anni Trenta e
mi chiedevo se lei fosse immortale!"».
Il ragazzo strinse i pugni e dopo un attimo di esitazione
scrollò le spalle, gli occhi fuori dalle orbite.
«Sì, una cosa del genere!».
«Tu sei tutto matto, Baqi», mormorò
arrendevolmente, riprendendo a pulire per terra.
«Questa è la tua decisione definitiva? Vuoi
restarne fuori per davvero?».
«Non mi imbarcherò nella tua ennesima folle
impresa».
«Ottimo!», esclamò il ragazzo,
gonfiandosi il petto. «Ma non venire a piangere da me quando
diventerò ricco e tu sarai ancora a lavare pavimenti e a
cambiare pannoloni!».
Hala socchiuse gli occhi, sospirando. «La signora Chapman non
porta il pannolone».
«Oh insomma, ci siamo capiti!».
Baqi gettò il vecchio diario e il giornale locale sul tavolo
e se ne andò a passo spedito, borbottando tra sé.
Hala aspettò che il gemello fosse lontano, poi
posò lo spazzolone contro lo schienale di una delle sedie e
confrontò ancora una volta le due fotografie che qualche
giorno prima Baqi le aveva sventolato trionfante sotto al naso.
Alla TV si era parlato molto dell’antichissima corona che era
stata ritrovata quasi per caso all’asta di beneficienza
svoltasi al Castello di Windsor e della sua nuova collocazione al Great
North Museum: Hancock, a Newcastle upon Tyne, ma in pochi servizi era
stato fatto vedere il ragazzo che quella sera era stato prelevato dalla
polizia per un interrogatorio. La prima volta che Baqi
l’aveva visto era stato proprio alla redazione del giornale
locale, con cui collaborava saltuariamente come freelance sia per gli
articoli che per le fotografie. Subito aveva fatto una copia della foto
che lo immortalava mentre veniva infilato nella volante dai
lampeggianti blu e una volta a casa gliel’aveva mostrata
portandogliene un’altra a confronto, molto più
vecchia, in bianco e nero e consumata dal tempo, in cui compariva lo
stesso ragazzo, quella volta in camice bianco e circondato da altri
dottori ed infermiere, tutti in posa di fronte alla facciata di un
ospedale immerso nella campagna gallese. Sul retro, solo una data: 1935.
Hala era sempre stata una ragazza coi piedi per terra: non aveva mai
creduto all’impossibile, ai miracoli… eppure il
ragazzo in quelle fotografie, nonostante affermasse il contrario di
fronte a Baqi, lasciava senza parole anche lei.
Sentì i frettolosi passi di suo fratello scendere le scale e
si allontanò rapidamente dalle prove, riprendendo a
strofinare con foga lo strofinaccio sul pavimento. Baqi fece un salto
all’interno della cucina per recuperare le proprie cose e poi
col giubbotto appeso ad un braccio si diresse verso la porta.
«Dove vai?», gli domandò a squarciagola.
«Ad imbarcarmi nella mia folle impresa! Non mi aspettare per
cena!».
Sbatté la porta con violenza e Hala chiuse gli occhi,
sospirando e chiedendosi perché mai il suo gemello fosse
nato con animo così sognatore.
***
Artù voltò il capo quando sfrecciarono accanto ad
Avalon e lo trovò sovrastato da una nebbia fitta, come non
l’aveva mai vista. Ciò nonostante con la coda
dell’occhio gli parve di scorgere un bagliore azzurrognolo,
così particolare ed unico da riportare a galla
quell’antico ricordo dalla sua memoria.
Urlò a Cathleen di fare inversione ad U e la ragazza non
pose domande. Fermò la moto proprio di fronte alla sponda
del lago ed entrambi si tolsero il casco, a bocca aperta di fronte alla
sfera iridescente che sembrava attenderli.
Artù scese rapidamente dalla moto, pronunciando il nome di
Merlino in un rapido crescendo: iniziò mormorando,
terminò gridando con tutto il proprio fiato.
La sfera lo guidò fino alla sponda est, dove si rese ben
presto conto dell’assenza della piccola barca con cui era
riuscito a raggiungere Freya.
«Merlino!», lo chiamò disperato, con
entrambe le mani intorno alla bocca.
La palla iridescente si immerse nella nebbia, fino quasi a sparire alla
loro vista. Quando si fermò iniziò a brillare
più intensamente per guidarli, come un faro.
«Che cos’hai intenzione di fare?», gli
domandò Cathleen, guardandolo mentre lanciava il casco tra
le felci e si toglieva le scarpe.
«Merlino è là, devo andare a
prenderlo».
«Non ci pensare nemmeno, è troppo
pericoloso».
Artù la fissò intensamente. «Lui
l’avrebbe fatto per me».
Cathleen fece per imporre ancora la propria autorità, ma non
un suono le uscì dalla gola; l’unica cosa che
riuscì a fare fu afferrarlo per un braccio prima che
entrasse in acqua. E gli salvò la vita.
Non appena Artù entrò in contatto con
l’acqua del lago, infatti, una fortissima corrente
tentò di trascinarlo sul fondale melmoso. Il re di Camelot
si aggrappò con entrambe le mani al braccio di Cathleen e il
paramedico usò tutte le proprie forze per tirarlo fuori.
Alla fine ci riuscì e Artù le cadde addosso
sull’erba, ad un soffio dal suo viso.
«Grazie», ansimò il biondo.
«Figurati».
Si rialzarono faticosamente mentre la sfera continuava a brillare con
insistenza ad una trentina di metri dalla riva.
Artù aveva appena iniziato a guardarsi intorno alla ricerca
di un metodo alternativo per attraversare il lago senza toccarne la
superficie, fallendo miseramente, quando si accorse che Cathleen si
stava spogliando.
«Che cosa stai facendo?», le domandò
strabuzzando gli occhi, osservando la maglietta che le metteva in
risalto il seno e le lasciava scoperto il tatuaggio col drago sulla
schiena. (Ecco, un drago sarebbe stato d’aiuto in quel
momento!).
«Tieni, inizia a chiamare un’ambulanza: ne avremo
bisogno».
Artù osservò il cellulare della ragazza, confuso.
«Cathleen…».
«Mi pare ovvio che tu non possa entrare in acqua,
perciò lo farò io».
«Assolutamente no».
Il paramedico si voltò verso di lui ed incatenò i
loro sguardi. «Ho promesso a Merlino che mi sarei presa cura
di te e io mantengo sempre le mie promesse. Tu hai bisogno di lui e io
ti aiuterò a salvarlo».
Senza dargli il tempo di rispondere gli prese il volto tra le mani per
stampargli un bacio sulle labbra e poi gettarsi nell’acqua
gelata.
«No, Cathleen!», urlò Artù
prendendo la rincorsa, ma ad un passo dalla riva si fermò
con le mani protese in avanti, digrignando i denti.
***
L’acqua era tanto fredda da intorpidirle i muscoli, ma
Cathleen evitò di pensarci e continuò a nuotare
verso il centro del lago, fino a quando non si rese conto di aver perso
di vista la sfera luminosa che avrebbe dovuto farle da guida.
Circondata dalla nebbia, si guardò intorno spaesata, mentre
un velo di panico iniziava ad avvolgerla. Quando non riuscì
più a non pensare al peggio, scorse la sfera di luce
volteggiare poco sopra la sua testa. Sospirò sollevata,
concedendosi persino una risata, e disse: «Portami da
Merlino».
La sfera eseguì i suoi ordini, conducendola fino ad una
barchetta malridotta da cui penzolava un braccio inerte. Ne
afferrò il polso per controllarne le pulsazioni:
c’erano, seppur deboli.
«Merlino. Merlino, svegliati!», provò a
chiamarlo, sporgendosi sulla traballante imbarcazione.
Essa non avrebbe mai sorretto il peso di entrambi e di sicuro non
sarebbe mai riuscita a spingerla fino a riva. C’era
un’unica soluzione ed era sicura che se Merlino fosse stato
sveglio non gli sarebbe piaciuta.
Respirò profondamente e si aggrappò al braccio
penzolante del mago, i piedi appoggiati al fianco della barchetta.
«Al mio tre. Uno, due… tre!».
Facendo leva con le gambe tirò Merlino verso di
sé ed ottenne il risultato sperato: la barca si capovolse e
lo stregone le cadde addosso a peso morto, trascinandola
sott’acqua.
Le ci volle qualche secondo per reagire a quel freddo penetrante, in
grado di assopirla. Riaprì gli occhi di scatto e scorse
Merlino galleggiare verso il fondo a qualche metro da lei.
Nuotò più velocemente che poté nella
sua direzione e quando lo ebbe afferrato per la vita lo
trascinò con sé in superficie. Inspirò
tant’aria da farle male ai polmoni e poi, con lo stregone
ancora tra le braccia, iniziò a nuotare verso riva, mentre
sentiva le sirene dell’ambulanza avvicinarsi sempre di
più.
Sentì anche la voce di Artù e fu quella a darle
l’energia necessaria a percorrere gli ultimi metri, fino a
dove il livello dell’acqua era sufficientemente basso da
potersi reggere sulle gambe.
La nebbia si diradò e sorrise incrociando lo sguardo colmo
di apprensione di Artù, il quale per quanto volesse
avvicinarsi per aiutarla non poté farlo. Ci pensarono un
paio di suoi colleghi, i quali la raggiunsero e la liberarono del peso
di Merlino, subito caricato su una barella ed infilato nel retro
dell’ambulanza.
Una volta completamente fuori dall’acqua, Artù la
strinse fra le braccia e la baciò appassionatamente sulle
labbra, togliendole quel poco di fiato che aveva. Lei si
allontanò ridendo e lasciò che le scostasse i
capelli bagnati dal viso, rassicurandolo: «Sto bene,
è tutto okay».
«Mi hai fatto quasi venire un attacco».
Cathleen si beò del calore del corpo di Artù, ma
quando capì che non sarebbe bastato si fece consegnare una
coperta da uno dei paramedici.
«Stai bene, Cath?», le domandò il
collega. Senza darle il tempo di rispondere, aggiunse: «Sali
su, devi farti dare un’occhiata».
Cathleen scosse il capo, indicando la moto abbandonata sul ciglio della
strada. «Io mi rivesto e vi seguo, non
c’è problema. Fate salire lui,
piuttosto».
«Come preferisci. Forza, andiamo!».
Artù la guardò ed esitò a lasciarle
andare la mano. Lei annuì e lo spinse sul retro
dell’ambulanza, accanto alla barella dove giaceva il corpo
immobile di Merlino. Lo salutò con un cenno della mano prima
che le porte venissero chiuse di colpo e poi si sedette, sfinita,
accanto ai suoi vestiti asciutti, lo sguardo fisso sul lago e sulla
nebbia che lentamente si stava diradando.
***
«Ce l’ho, ce l’ho! Il cestino di uova
numero sei è alla reception del Pronto Soccorso!»,
esclamò Danilo puntando il dito sul foglietto con gli indizi
e sistemandosi gli occhiali sul naso.
«Che stiamo aspettando? Andiamo!», gridò
Mark, affrettandosi a raggiungere per primo l’ascensore.
Premette freneticamente il pulsante mentre i bambini della sua squadra
incastravano le loro carrozzine accanto alla sua. Troppo tardi si rese
conto che Abigail, caposquadra rivale, si stava dirigendo da sola nella
direzione opposta.
Mark sarebbe tornato subito al quarto piano, preoccupato per lei, se
non avesse visto dei paramedici affrettarsi nello spostare da una
barella all’altra un incosciente Merlino, affiancato da
Artù, pallido come un lenzuolo.
Dall’ascensore accanto al suo comparve la seconda squadra,
ora guidata da Gabriel. A loro si era unita Alex, contenta che la
caccia alle uova stesse riscuotendo un tale successo. Il suo sorriso
però scomparve non appena Mark le indicò i
paramedici che stavano scortando Merlino lungo il corridoio.
***
«Merlino!». Alex si fece spazio tra le infermiere e
prese la mano gelata dello stregone tra le sue. «Merlino, ti
prego, rispondimi!».
«I parametri vitali sono stabili, ma non reagisce agli
stimoli», disse un paramedico al dottore che si era preso in
carico il suo caso.
«Dobbiamo fargli subito una TAC. Potrebbe avere un emorragia
interna o dei danni al sistema nervoso».
Alex guardò Artù, terrorizzata. Era
già successo prima che Merlino piombasse in quella specie di
coma, ma ora sapeva che cosa fare per svegliarlo. Ma per farlo aveva
bisogno di stare da sola con lui, bastavano pochi minuti.
Artù, proprio come se le avesse letto nel pensiero, le
fornì il diversivo perfetto.
«È tutta colpa mia! È tutta colpa
mia!», iniziò a gridare disperato, mettendosi le
mani tra i capelli e tirando giù uno scaffale colmo di
provette ed altri strumenti. Un paio di infermiere si staccarono dalla
barella per contenere la sua follia, ma il re di Camelot non ci
impiegò molto per liberarsi della loro stretta ed avventarsi
sul dottore, che colpì al naso con un pugno ben assestato. A
quel punto anche i due paramedici lasciarono la barella, affidandola
completamente alle mani di Alex, e placcarono Artù,
spingendolo addirittura a terra, in attesa dei ragazzi della sicurezza.
Alex corse più a non posso verso l’ascensore e
quando si aprirono le porte gridò a tutti di levarsi di
mezzo, ché quella era un’emergenza. Si
fiondò all’interno e premette un paio di tasti a
caso: tutto ciò di cui aveva bisogno era che le porte si
chiudessero lasciandoli soli.
Le sue preghiere vennero ascoltate.
Aspettò che l’ascensore fosse salito di qualche
metro e poi premette il pulsante d’arresto, grazie a cui si
ritrovarono sospesi e nella semi-oscurità.
«Che cosa ti è successo?», gli chiese
teneramente, scostandogli dalla fronte il suo nuovo ciuffo di capelli
bianchi. Quindi chiuse gli occhi e concentrandosi al massimo
liberò la magia che sentiva incendiarle il petto.
Una scarica elettrica la percorse da capo a piedi e attraverso le mani
che aveva stretto sul petto di Merlino si diffuse nel corpo dello
stregone, che come dopo una scarica di defibrillatore riaprì
gli occhi, mostrando le iridi dorate.
Il mago schizzò seduto sulla barella, chiedendosi dove fosse
e perché. Alex non gli rispose: semplicemente gli
gettò le braccia al collo e lo baciò, sentendo
finalmente il cuore stretto in una morsa dolorosa ma piacevole.
***
«Mi dispiace di aver rovinato la caccia alle uova»,
ruppe finalmente il silenzio lo stregone, una volta solo con Alex nella
sua stanza di ospedale, dove sarebbe rimasto fino al mattino seguente
per accertamenti.
«Non che fosse partita nel migliore dei
modi…», rispose l’infermiera
stringendosi nelle spalle.
Si abbandonò alla sedia che fino a quel momento era stata
occupata da Artù e sospirò, massaggiandosi gli
occhi.
«Perché mi hai mentito, Merlino? Che ci facevi ad
Avalon?».
Il mago rabbrividì sentendo pronunciare da Alex il vero nome
del lago, non tanto perché aveva deciso di chiamarlo anche
lei in quel modo ma per il pensiero che ne fosse venuta in contatto a
sua insaputa. Che fosse venuta in contatto con Freya, ora libera dalle
sue catene. Solo il cielo sapeva quello che la custode avrebbe potuto
dirle per ammaliarla.
La fissò intensamente e alla fine decise di scoprire le
carte in tavola: Alex era in pericolo e, che le piacesse o no, doveva
lasciarsi aiutare.
«Sono andato ad Avalon perché avevo bisogno di
risposte».
«Risposte?», ripeté Alex, muovendosi
nervosamente sulla sedia.
«Sì. Volevo sapere se vi eri stata, se avessi
trovato qualcosa».
Il silenzio che seguì le sue parole fu così
profondo e pesante che Merlino si sentì morire per la
centesima volta.
«Alex, qualsiasi sia il problema… possiamo
risolverlo, insieme. Devi solo parlarmene».
L’infermiera era sul punto di cedere, con la bocca
già dischiusa, quando Mark aprì di colpo la porta
della stanza, gli occhi sgranati per l’incredulità.
«Dovete venire subito a vedere, è
pazzesco».
Alex ovviamente non si lasciò scappare
quell’occasione d’oro per rimandare il discorso e
si alzò per aiutare Merlino ad indossare qualcosa.
Gli recuperò una delle vestaglie in dotazione
dell’ospedale e poi a braccetto si incamminarono lentamente
verso la sala d’aspetto del Pronto Soccorso, dove si era
radunato praticamente l’intero ospedale.
Lì incontrarono Artù e Cathleen, sorridenti
mentre li invitavano a farsi avanti.
«Tutto questo non mi piace», mormorò
Alex, facendosi largo tra la folla. «Non so tu, ma io ho
detto di noi solo a…». La voce le morì
in gola non appena lo sguardo del Principe William si posò
su di lei.
«Bene, ora che ci siamo tutti», esordì
il Duca di Cambridge, senza smettere di sorriderle, «sono
davvero onorato di poter fare questa donazione al reparto oncologico
del vostro ospedale».
Con un gesto teatrale un uomo panciuto e sorridente entrò
dalle porte scorrevoli tenendo tra le mani un grandissimo assegno
facsimile. La cifra riportata aveva un sacco di zeri ed era firmato con
lo stemma reale.
Alex sollevò il volto esterrefatto verso quello di Merlino e
lui non riuscì a non ricambiare il sorriso. Quindi le diede
una leggera spinta per farla uscire dal cerchio e il Principe William
le porse una mano. Alex la strinse, titubante e rossa come un peperone,
poi prese in consegna il largo assegno di cartone e si
lasciò scattare delle foto dai colleghi
dell’ospedale. Ad un tratto invitò tutti i bambini
a raggiungerla e insieme posarono per gli obiettivi dei cellulari,
facendo linguacce, segni di vittoria e pugni
rock’n’roll.
Merlino si stava beando di quello sprazzo di gioia, dimentico di tutti
i loro problemi, poi si accorse di un uomo grande e grosso, vestito in
modo elegante e con un auricolare all’orecchio, che stava
facendo il giro della sala per raggiungerlo, e tutto tornò
alla schifosa normalità di sempre.
Cercò di sgusciare via come se nulla fosse, invisibile; il
gorilla però lo afferrò per una spalla prima che
potesse nascondersi nei bagni e gli sussurrò
all’orecchio delle parole che non solo lo tranquillizzarono,
ma che addirittura lo fecero sorridere di nuovo.
Gettò uno sguardo rassicurante ad Artù e
Cathleen, i quali lo avevano visto e avevano temuto il peggio, e
seguì l’omone fino alla limousine reale. Si
chinò per entrare nell’ampio abitacolo e una volta
seduto sui morbidi sedili di pelle ridacchiò, eccitato come
un bambino.
«Dovevo immaginarlo che dietro tutto questo doveva esserci il
tuo zampino, Lilibeth».
La Regina Elisabetta II abbassò il giornale che stava
sfogliando e gli sorrise. «Pensavo non ti avrei
più rivisto, amico mio».
***
«Che cavolo di giornata», disse Alex non appena si
fu chiusa la porta alle spalle. Aveva ancora il sorriso che le andava
da un orecchio all’altro.
«Dove sono Artù e Cathleen?».
«Li ho spediti a casa», spiegò Merlino,
sistemandosi meglio i cuscini dietro la testa. Fu solo una scusa
però, grazie alla quale nascose il braccialetto di Morgana,
su cui aveva rimuginato fino ad un’ora prima con il solo ed
unico re.
«Aspettate un
attimo: che cosa sono questi Sidhe?».
«Sono gli
spiriti custodi delle porte di Avalon. Assomigliano a delle fatine blu,
piuttosto repellenti…».
Artù si
passò una mano sul viso, lanciando un’occhiata
torva a Merlino, il quale non capì l’errore che
aveva commesso fino a quando non vide Cathleen alzarsi in piedi di
scatto ed iniziare ad urlare che le fate erano la sua ossessione e lui
non l’aveva avvisata dell’esistenza di quegli
esseri magici ad un passo da casa sua.
«In ogni caso
non avresti potuto vederli. Sono poche le persone che hanno
l’onore di interagire con loro», tentò
di spiegarle Merlino ed incredibilmente riuscì a calmarla.
Artù
incrociò le braccia al petto ed attirando
l’attenzione di entrambi su di sé fece il punto
della situazione.
«Sei andato ad
Avalon per parlare con Freya, però in qualche modo hai
risvegliato gli Sidhe e loro ti hanno detto che lei non dimora
più nelle acque del lago, che è stata riportata
in vita da una potente magia. E tu credi davvero che sia stata
Alex?».
«È
l’unica spiegazione possibile», esalò
Merlino, prendendosi il setto nasale tra due dita. «Avete
visto cosa è stata in grado di fare a
Londra…».
«Scusate
ancora se vi interrompo, ma io ancora non ho capito da dove la prende,
tutta questa magia», disse Cathleen, ferma ai piedi del letto
di Merlino.
Lo stregone scosse
mestamente il capo. «Purtroppo non l’ho ancora
scoperto. Dev’essere qualcosa di estremamente potente,
però».
«Ci
dev’essere un collegamento», borbottò
Artù, prendendosi la testa tra le mani.
«Perché mai Alex avrebbe dovuto riportare in vita
Freya? Non riesco a capirlo».
«Forse non
l’ha fatto apposta. O forse Freya ha ignorato la mia
minaccia, l’ha avvicinata e le ha offerto qualcosa in
cambio».
«Ma
cosa?!», sbottò Artù, irritato da tutti
quei punti interrogativi.
Merlino aprì
la bocca per sciorinare altre ipotesi, quando un pensiero tanto
semplice quando terrificante gli attraversò la mente.
La risposta era sempre
stata di fronte ai suoi occhi… Come aveva fatto a non
rendersene conto prima?
«Merlino? Ehi,
ti è venuto in mente qualcosa?», gli chiese
Cathleen, convergendo su di sé lo sguardo apprensivo di
Artù.
«No. No,
nulla», mentì istintivamente.
Doveva rifletterci
ancora un po’, prima di avvertire Artù della
possibilità che Alex avesse trovato l’oggetto
magico forse più potente che fosse mai stato creato.
«Una cosa
è certa però: non possiamo rischiare che Alex
assorba ancora più potere. Potrebbe esserle letale, per
quanto ne sappiamo».
«Che cosa hai
intenzione di fare?».
Merlino
sollevò gli occhi su Cathleen. «Passami il
giubbotto, per favore».
«Se stai
cercando il tuo cellulare, penso che sia kaputt ormai».
«No, non sto
cercando il mio cellulare…», mormorò
infilando la mano prima in una tasca e poi nell’altra.
Artù
trattenne il fiato quando il mago estrasse il bracciale di Morgana,
già consapevole di ciò che avrebbe significato:
mentire ad Alex, all’unica persona che poteva davvero
definire “di famiglia”.
«Nemmeno io mi
abbasserei a tanto, ma… è per il suo
bene», disse Merlino.
Cathleen
osservò prima l’uno e poi l’altro,
ripetutamente. Alla fine sospirò, sconsolata:
«Grazie per la spiegazione, illuminante».
«Questo
braccialetto è incantato», iniziò a
raccontare lo stregone. «Morgause l’ha regalato a
Morgana perché non avesse più gli incubi che le
impedivano di dormire, incubi che altro non erano che visioni. In poche
parole è in grado di contenere la magia».
«Quindi se ho
capito bene vuoi darlo ad Alex nella speranza che lo indossi in ogni
momento», ricapitolò Cathleen e Artù
terminò la frase per lei: «Così nel
caso in cui dovesse venire in contatto con la fonte magica sconosciuta,
essa non possa influenzarla in alcun modo».
Merlino posò
il braccialetto sul comodino, combattuto. «L’idea
è quella».
«E per quanto
riguarda Freya? Che cosa intendevano gli Sidhe dicendo che il mondo ne
perirà se non la riportiamo da loro?».
Cathleen
deglutì rumorosamente all’ipotesi
dell’apocalisse, ma lo stregone, per nulla impressionato,
rispose semplicemente: «La mia priorità ora
è Alex. Più avanti penseremo a Freya».
«È
saggio lasciarla libera di andare dove vuole, di fare ciò
che vuole?», insistette Artù.
«Ovviamente
non è saggio, ma, come ho detto…».
«Potrei
occuparmi io di lei».
Merlino e
Artù si voltarono contemporaneamente verso Cathleen,
sorridente e nervosa allo stesso tempo.
«Insomma…
conosco tutti in paese. Qualcuno deve pur aver visto una ragazza uscire
dalle acque del lago. Avrà avuto fame, freddo…
deve per forza aver chiesto aiuto a qualcuno».
«Il suo
ragionamento non fa una piega», disse Merlino dopo una
dozzina di secondi di silenzio.
«Non ti
azzardare!», lo rimproverò Artù. Poi,
con lo sguardo più severo che gli avesse mai visto negli
occhi, le disse: «Tu non ti occuperai proprio di nessuno da
sola. Non sappiamo nemmeno se Freya sia ancora maledetta».
«Maledetta?
Perché continuano a venire fuori dettagli
inquietanti?», domandò Cathleen, dondolandosi sui
talloni.
Merlino roteò
gli occhi al cielo e chiarì: «Al tempo, Freya era
stata vittima di una maledizione a causa della quale ad ogni luna piena
si trasformava in un Bastet, una pantera alata. Non abbiamo prove
però che la maledizione sia ancora attiva…
è diventata la custode di Avalon, dopotutto».
«In ogni caso
avrebbe la magia dalla sua parte e tu, indifesa, non andrai da nessuna
parte», rincarò la dose Artù,
indicandola minacciosamente.
«Se seguissi
il tuo ragionamento dovrei chiudermi in casa e non uscirne mai
più per paura di essere attaccata
all’improvviso!».
«Non sarebbe
una brutta idea!».
I due si guardarono
negli occhi, senza rendersi subito conto della vicinanza dei loro corpi
e dei loro respiri affannati che si univano in uno solo. Quando
finalmente si allontanarono l’uno dall’altra, erano
già paonazzi.
«Non puoi
impedirmi di fare qualche domanda in giro», disse pacatamente
Cathleen.
«No, non
posso. Ma se vorrai seguire delle piste dovrai avvisarmi e lo faremo
insieme».
I loro sguardi si
incrociarono di nuovo e quella volta si sorrisero.
«Abbiamo un
patto?», chiese Artù, allungando la mano verso di
lei.
Cathleen
annuì e lo sorprese stringendogli l’avambraccio
come le aveva insegnato Merlino.
Proprio in quel momento
qualcuno bussò alla porta. L’agente Darrell Fisher
fece capolino nella stanza e gettò un’occhiata
frustrata ad Artù, il motivo per cui lui era lì.
«Ho parlato
delle tue condizioni con il dottore a cui hai spaccato il naso e alla
fine ha deciso di ritirare la denuncia. Sei molto fortunato,
Pendragon».
«Grazie mille,
Darrell», disse Merlino, sollevato di avere una rogna in meno
a cui pensare.
«Non
c’è problema. Tu piuttosto, che ci facevi nel bel
mezzo del lago? E che hai fatto ai capelli?».
«Oh, il
capello bianco è solo una nuova moda»,
esclamò sorridendo. «Al lago invece stavo
pescando. Lo faccio ogni tanto, per rilassarmi. Questa volta
però mi è venuto un malore improvviso e devo
essere svenuto».
«È
stato davvero un miracolo che tu non sia caduto in acqua. Potevi morire
annegato».
Cathleen sorrise,
mordicchiandosi un’unghia. «Il Club della Dea
Bendata, li chiamo io. Senta un po’, agente… Posso
farle una domanda un po’ strana?».
Il poliziotto
annuì. «Spara».
«Ha per caso
visto qualcosa di sospetto, negli ultimi tempi, intorno al
lago?».
Artù e
Merlino si scambiarono un’occhiata, increduli che Cathleen
avesse già iniziato a giocare al detective.
«Qualcosa di
strano, eh? A parte la passeggiata con balestra del signor Pendragon e
il quasi annegamento di Merlino, no, non mi pare…
Perché?».
«Semplice
curiosità. Mio nonno mi raccontava un sacco di storie su
quel lago, diceva che era infestato dai fantasmi. Spiegherebbero la
nebbia costante e lo strano malore di oggi di Merlino».
L’agente
sorrise, dicendo: «Mi dispiace, ma non credo nel
soprannaturale». Quindi si diresse verso la porta.
«Ora devo andare. Riguardati, Merlino. E non tentate troppo
la sorte, voi due!».
«Sarà
fatto, agente!», rispose per gli interessati Cathleen,
congedandosi col saluto militare.
«Bene, e uno
è fatto», esclamò poi, orgogliosa del
proprio operato.
Artù e
Merlino si guardarono e scossero il capo, iniziando a pentirsi di
averla coinvolta in quella storia.
«Strano, non li ho incrociati lungo la strada».
«Uhm?». Merlino sbatté le palpebre e
ricordando ciò che aveva detto poco prima precisò
con tono malizioso: «Non ho detto a quale casa li ho
spediti».
«Oh… Credi che possa davvero funzionare tra
loro?».
Merlino scrollò le spalle e le fece spazio sul lettino.
Alex lasciò lo zaino con i vestiti puliti del mago sulla
sedia, spense la luce sul comodino e si accucciò al suo
fianco, arrotolandosi nella coperta arancione con cui di solito lo
copriva quando lo trovava addormentato in una delle stanze dei bambini.
Merlino iniziò ad accarezzarle i capelli, ancora non del
tutto convinto del suo piano. Si ripeté le stesse parole che
aveva detto ad Artù quel pomeriggio, ovvero che era per il
bene di Alex, e prendendo un lungo respiro per farsi coraggio
infilò nuovamente la mano tra i cuscini per recuperare il
braccialetto.
«Alex», le sussurrò nel buio e nel
silenzio della stanza. C’era così tanto silenzio
che aveva paura che l’infermiera si accorgesse del tranello
grazie ai battiti furiosi del suo cuore.
«Uhm?».
«Ho un regalo per te».
Alex si sollevò su un gomito e fissò a bocca
aperta il bracciale che le stava porgendo. «È
bellissimo, davvero. Ma… perché adesso? Lo sai
che non è il mio compleanno».
«Lo so, stupida».
L’aiutò ad infilarselo al polso e
guardò attentamente la sua reazione, cercando di capire se
avesse avvertito la magia di cui era impregnato.
«È meraviglioso», sussurrò
invece, alzando il polso verso la luce lunare per poterne ammirare
meglio le incisioni floreali.
«L’ho trovato poco tempo fa, tra le cianfrusaglie
in soffitta, e mi sei venuta in mente tu», le
spiegò. «Apparteneva ad una principessa bella e di
buon cuore, proprio come te».
«Era più bella di me?».
Merlino fece finta di essere indeciso e si beccò un cuscino
in faccia, subito seguito da un bacio.
«Grazie, Merlino. Ti amo», sussurrò
Alex, col capo di nuovo posato sul suo petto.
Merlino inspirò piano e chiuse gli occhi al soffitto,
riprendendo ad accarezzarle i capelli. «Anche io, Alex. Anche
io».
***
Darrell aprì la porta del suo piccolo appartamento e subito
se la richiuse alle spalle mettendo il chiavistello. Quindi si
liberò della giacca e della fondina e si diresse verso il
salotto, dove l’unica fonte di luce era quella azzurrognola
della televisione accesa.
Sorrise, sollevato ed intenerito, quando trovò la sua ospite
addormentata sul divano.
Le tolse il telecomando di mano e dopo aver recuperato una coperta
gliela stese addosso, facendo attenzione a non svegliarla. Avrebbe
voluto anche accarezzarle i capelli e posarle un bacio sulla fronte, ma
non si azzardò. Non sapeva come avrebbe reagito. In effetti,
oltre al suo nome non sapeva proprio nulla di lei.
Circa una settimana prima l’aveva trovata affamata,
infreddolita e spaventata nei pressi del suo condominio, nascosta
dietro gli alberi al limitar del bosco che circondava il lago. Senza
pensarci su due volte l’aveva presa tra le braccia e portata
a casa, per poi scoprire che aveva quasi del tutto perso la memoria. O
almeno così gli aveva detto.
Il tarlo del dubbio aveva iniziato a mettere radici dentro la sua
testa, precisamente da quel pomeriggio, quando l’amica di
Merlino e Artù si era dimostrata tanto incuriosita dal lago.
Ovviamente aveva mentito per prendere tempo e decidere sul da farsi, ma
da allora non aveva fatto altro che rimuginarci sopra.
Perché gli aveva fatto quella domanda? Perché
tutte le cose più insolite e sospette capitavano proprio nei
pressi di quel lago spesso e volentieri immerso nella nebbia?
Darrell si massaggiò le palpebre ed entrò in
cucina per mettere qualcosa sotto i denti prima di andare a letto. Si
immobilizzò, piacevolmente sorpreso, trovando la tavola
apparecchiata, un paio di candele che donavano un’atmosfera
romantica, del pane e un piatto di minestra da riscaldare.
Guardò la ragazza addormentata sul divano e sorrise,
cacciando in un angolo tutte le domande e le teorie scomode.