Flusso
d’acqua
Ecco,
sta succedendo. Stamattina mi sono svegliato ed era lì,
nella mia testa, nel
mio petto, nei miei fianchi, nelle mie caviglie. L'esigenza.
Scrivi, non per gli altri, non per te stesso, ma per te stesso da
donare agli
altri.
Ecco. Sta ritornando, come un flusso di marea.
Sto scrivendo... per il me stesso che dono agli altri.
Non
ho mai imparato a nuotare, a malapena sono capace di mantenermi a
galla, eppure
adesso sto nuotando. Quante vasche? Chi se ne frega, non ha importanza.
Arrivo ad
un punto davanti a me e quando le mie mani toccano
un’estremità, mi do una spinta
indietro e riparto, al contrario, fino a quando non sono i miei piedi
ad
incontrare un ostacolo freddo e scivoloso e i muscoli delle mie gambe
si
gonfiano e si tendono a risospingermi di nuovo davanti. E
l’acqua mi scivola
lungo il corpo. Mi entra nelle narici ma continuo a respirare
nonostante ciò.
Sono
interamente vestito di fluido liquido e scivoloso, un abito che si
rinnova ad
ogni bracciata, un velo d’acqua.
Sotto
il flusso della doccia, un po’ fredda e un po’
calda, a seconda di come muovo
la maniglia, mi sento più vulnerabile, ma come un fante in
prima linea in
battaglia, senza corazza e armato solo di una sciabola e della forza
disperata
di chi non sa se ne uscirà vivo. Ma io so che
vivrò. Ho lasciato alle spalle
gli anni dell’adolescenza in cui mi permettevo di giocare con
la morte,
avvicinandomi più del dovuto al laghetto artificiale della
villa comunale,
facendo girare la punta delle forbici sulla pelle sottile, bianca e
ramificata di
blu, del braccio.
Adesso
ho consapevolezza di quanto sia stato bello aver sviato ogni singolo
colpo, per
trovarmi adesso, vivo e palpitante.
Avevo
smesso di credere che ne valesse la pena. Ma adesso ritorno a crederci.
L’acqua
mi sommerge ma non mi lascia affogare.
Accanto
a me navigano delle pagine bianche strappate: le pagine del mio diario
che
ancora non ho ricoperto di inchiostro nonostante quanto successo la
scorsa
settimana. Sono stato troppo impegnato a riscoprirmi per riordinare le
idee e
adesso che ci provo riesco solo a tirar fuori un lunga sequela di
pensieri
senza alcun senso apparente, a parte quello di essermi rimaste bloccate
in
petto da troppo tempo.
Ricordo
frammenti della mia vita…
Sono
in cucina, con mia sorella e una nostra amica, nata il giorno prima che
nascessi io. Voglio provarci. Ho sedici anni.
“Annarita”
inizio, rivolgendomi a mia sorella. “Posso dirti una cosa
personale?”
Niente
di personale può esserci tra chi non riesce a capirsi, pur
avendoci provato da
sempre, prima di gettare la spugna. Quei giorni di quando eravamo
piccoli e lei
imitava ogni mio piccolo gesto, una breve corsa, una risata stridula,
il gesto
di portare le mani avanti e poi lasciarle ricadere lungo i fianchi,
sono finiti
e non ritornano più.
“Non
azzardarti a continuare e non azzardarti a dirlo a mamma o a
papà” è la replica
di mia sorella.
Adesso
sono passati dieci anni e non siamo più ragazzini. Non
c’è più astio, solo una
matura consapevolezza che, comunque vadano le cose, ci sarà
sempre qualcosa a
legarci. Perché ci sarà un giorno in cui ci
saremo solo noi a ricordarci di
giorni passati e di persone che non ci saranno più. Questo
può bastare per chi
non chiede nulla in un legame familiare.
Sono
in un cortile, lo stesso anno, qualche giorno prima o dopo, ma tanto
bastava
per farmi riflettere, per farmi decidere. Ed è
lì, sorridente, pronto a
prendermi l’anima e rifarmela interamente nuova. I suoi occhi
sono luminosi
mentre mi guardano. Sono brutto, sono il primo ad ammetterlo, ma adesso
mi
sento bellissimo.
Sono
pronto a lasciarmi afferrare, a sentire per la prima volta cosa si
prova quando
qualcuno ti tocca come se fossi la cosa più preziosa di
questo mondo, come solo
l’età adolescenziale può fare, con
l’impeto di una tempesta che si rovescia
interamente su di te.
Non
so ancora che non durerà per sempre come mi illudo; non so
ancora quanto vorrò
morire quando mi verrà detto “Mi spiace, non ce la
faccio”.
Basta
poco per odiare ciò che si è amato. Ma quando il
tuo cuore continua a battere,
quando ogni mattina ti alzi comunque, quando vedi che ci sono dolori
più
grandi, allora smetti di pensare al dolore di una storia finita e,
forse per
salvaguardarti, forse perché davvero ci credi, pensi solo al
bene che ti ha
fatto provare.
E
quando lo rivedo, dopo il lutto doloroso, non ho nulla da
recriminargli. Sono
solo felice che lui sia felice.
“Cerca
di essere felice anche tu. Fallo per te. Te lo meriti.”
Sono
in salotto, di fronte al muretto separatorio, un libro in mano (o forse
è il
quadernetto che uso come diario), il telefono all’orecchio.
Ho diciannove anni.
“Mamma…
io…” cerco di dire alla cornetta.
“C’è
qualcosa di cui vuoi parlarmi?” mi chiede mia madre, con la
rassegnazione di chi
sa di non poter sfuggire ad una chiacchierata spiacevole ma purtroppo
necessaria.
“Io…
no… no… io… n…”
“Quando
ritorno a casa ne parliamo”.
Ma
non ce la faccio. Ho paura che tu smetta di volermi bene, anche se so
che già hai
capito. Lo leggo nel tuo sguardo rassegnato.
Adesso
che non ci sei più, vivo col rimpianto di non avertelo
chiesto “Cambia qualcosa
per te? Mi vuoi comunque bene? Sono sempre tuo figlio?”
E
quando nel mio cassetto ritrovo quella cartolina che comprasti per
Annarita ma
che mi desti affinché fossi io a consegnargliela, quando eri
già scivolata sul
letto, lo sguardo fisso e le labbra bluastre, quando ti ho sostenuta e
ti ho
scossa non capendo che stavi ascoltando le ultime parole che ti stavo
rivolgendo in questa vita “Mamma! Mamma!”, quando
ritrovo quella cartolina e la
do ad Annarita e lei mi abbraccia piangendo, mi chiedo se è
stato un caso o se
davvero hai continuato a fidarti di me fino all’ultimo.
La
prima volta che ti ho sognata dopo che te ne sei andata, mi sorridevi.
Sulla
riproduzione casuale di iTunes è partita l’aria
“Addio del passato” da “La
Traviata” cantata dalla Callas
Quando
Thérèse Martin aveva quattordici anni ci fu il
processo ad Enrico Pranzini, che
aveva assassinato la sua amante, la figlia illegittima di
quest’ultima e la
loro domestica. Venne condannato alla ghigliottina.
La
piccola Thérèse, già santa
nell’animo, pregò Dio di toccargli
l’anima, di non
abbandonarlo nel buio del peccato. Il giorno in cui Pranzini sarebbe
stato
giustiziato, Thérèse non si staccò dal
crocifisso della sua stanza, pregò
consumando tutte le sue lacrime “Gesù, ti prego,
toccagli l’anima, non
lasciarlo da solo adesso che ha tanto bisogno di te”.
Quanto
poterono le preghiere di quella fanciulla? Non si può dire,
se si vuole avere
certezze. Tanto, se si vuole avere fede.
A
due passi dalla ghigliottina, Pranzini si gettò ai piedi del
prete accanto a
lui, con le lacrime agli occhi, chiedendogli di poter baciare il
crocifisso che
aveva in mano.
“Signore,
ricordati di me quando sarai nel tuo regno”
“In
verità ti dico, oggi sarai con me in Paradiso”
Non
esiste l’Inferno, ma solo un luogo di passaggio che ci separa
dal Paradiso.
Tutti meritano il perdono.
Sulla
riproduzione casuale di iTunes è partita “Tu es
partout” di Edith Piaf
Sono
in macchina con mio padre, una settimana fa, fuori la stazione di
piazza
Garibaldi a Napoli, con venticinque anni di vita e con tante smorfie
dipinte in
faccia, con il treno che partirà tra un quarto
d’ora. Non voglio andarmene
continuando a tenermi un conto in sospeso troppo a lungo.
E
parlo. La voce è un lieve sussurro che sembra perdersi nei
rumori del traffico
del centro.
“Lo
avevo capito. Che ti credi, un padre queste cose le sa”.
È
stato tutto così normale, con l’unico dramma del
mio sorriso bagnato di lacrime
durante il ritorno in treno a Roma. Ed io che speravo di stare lontano
dai
soliti cliché cinematografici.
Pensavo
che tutto sarebbe cambiato in maniera totale, ma una confessione
è troppo poca
per stravolgere un intero mondo. La vita va avanti come se nulla fosse
accaduto. Eppure io sento il mio intero mondo cambiato.
Sorrido,
le persone che fino a ieri non sopportavo adesso mi sono familiari come
vecchi
amici, e le vecchie amicizie sempre presenti sono entrate ancora di
più nel mio
cuore. Il miagolio del gatto di casa mi sembra più fievole e
tranquillo e il
modo in cui mi guarda, la testolina capovolta, la gola e la pancia
scoperti per
ricevere qualche carezza, sembrano più affettuosi.
Quando
sono sceso per andare a fare un po’ di spesa, c’era
una bimba che piangeva in
braccio al padre, il faccino affondato nella sua spalla. Mi guarda
tirando su col
naso e imbronciando la boccuccia. Io le sorrido e cerco di farle capire
che va
tutto bene. Lei mi guarda un po’ basita, gli occhi tondi e
stupiti. Poi sorride
e si porta la manina accanto al faccino, come un saluto o un bu bu
settete.
Va
tutto bene, non devi piangere.
I
motivi per essere tristi potrebbero anche abbondare e li sento,
perché li so
riconoscere al tatto cardiaco, e un leggero segno lo lasciano, ma non
mi fanno
più tanto male.
Perché
il dolore ha lasciato lo spazio a qualcos’altro, di diverso,
che non ricordo di
aver mai provato.
Lungo
la strada che dalla Sapienza porta a Termini c’era un enorme
pozzanghera,
ricoperta, ai bordi, di piccole foglie gialle e di petali di fiori
rosa, un
misto di autunno e primavera. Non sono riuscito a specchiarmici
perché era
troppo sotto i miei piedi e troppo lontana dalla mia testa.
Ma
temevo di vederci quella tisica faccia da “san
luigino”, magra e col nasone e
con le occhiaie. È da tanto che non mi sento bello,
né per me stesso e di
conseguenza neanche per qualcun altro. E vorrei esserlo.
Quello
che non ho mai provato è la voglia.
Adesso
è partita “Because the night” di Patti
Smith
Dopo
la pozzanghera con le foglie e i petali, segue questa piscina
immaginaria, con
dei fogli di carta che ci navigano sopra come zattere inzaccherate, per
una
frazione anche la doccia che mi fa scorrere l’acqua lungo il
corpo nudo. Ma è l’acqua
che persiste.
Prima
erano le coperte nelle quali cercavo conforto, quel contatto che mi
spinge a
coprirmi anche quando la calura estiva ti dovrebbe far calciare via
quell’ammasso
di lenzuola per respirare meglio.
In
questo vortice io voglio, voglio, voglio, per la prima volta voglio
davvero.
Adesso
che mi sento libero, voglio. Non più vorrei, ma voglio
davvero.
Una
voce che risuona da lontano, un battito lontano di parole che mi
arrivano, ed
io voglio.
Le
mie braccia adesso battono in quest’ammasso duro e composto
di acqua, cercando
di uscire, di emergere, smetterla di respirare liquido.
Voglio
chiamarlo.
Emergo
dall’acqua, riprendendo aria e urlando
“Vieni”.
Adesso
è una corsa sfiancante lungo una strada in salita, senza
vestiti, ma
appesantito dall’acqua che continua a premermi sulla pelle.
E
voglio.
Forse
è solo egoismo, l’avventatezza di chi è
alle prime esperienze con la libertà.
Forse non c’è alcuna vera consapevolezza e
sarà solo un altro modo per farsi
male o, peggio ancora, fare male a qualcun altro che non se lo merita.
Ma dopo
anni di solitudine, dopo anni in cui non ho mai chiesto nulla, adesso
voglio.
In
altri tempi mi avrebbe frenato la paura di commettere un errore, di
sbattere
contro una parete, contro un rifiuto o contro
un’indifferenza. Ma adesso non
voglio più avere paura.
Voglio
tornare a provare quella felicità sperimentata in passato.
Sei
forse tu, che voglio imparare a conoscere? Mi sento come se fossimo
sulla
stessa lunghezza d’animo, come se non facesse differenza se
parlassimo per ore
o se rimanessimo semplicemente in silenzio.
Tu
sai più cose di me ed io vorrei conoscere tanti altri
aspetti di te che ancora
mi sfuggono. Da quelli più semplici (Qual è il
tuo piatto preferito? Quale
colore preferisci? Cosa ti piace canticchiare quando cammini per
strada?) a
quelli più complessi (Cosa vorresti ricevere in regalo per
il tuo compleanno? Se
sei rimasto ferito, sei riuscito a guarire?). Voglio conoscerti in
maniera
talmente completa, così quando ti vedrò
potrò baciarti come saluto, potrei portarti
subito a cena; e la notte ti accompagnerei fin sotto la porta di casa
tua,
appoggiando la mano sulla porta che hai appena varcato. Inizierei
già tutto, al
primo sguardo.
Forse
scapperesti se ti venissi incontro con questa violenza,
perché forse il mio è
solo un travisamento, e allora mi taglieresti fuori… e non
avresti colpe,
perché l’iniziativa sarebbe stata solo mia. Io da
solo dovrei piangermela.
Rimpiangerei
di aver perso un confidente, una persona che sto scoprendo importante
per me.
Ma
se ho osato tanto fino ad ora, perché non dovrei osare
ancora?
Jim
Morrison disse “Rifiutarsi di amare per paura di soffrire
è come rifiutarsi di
vivere per paura di morire”.
Anche
a costo di soffrire, voglio. Voglio provare ad essere di nuovo felice.
Ho
perso delle parole lungo la strada. Devo ritrovarle.
Eccole.
Sto
confondendo tutto con la paura della solitudine? Forse, ma come si
può aver
paura della solitudine quando con essa ci ho vissuto tanto a lungo,
l’ho a
lungo cercata e desiderata fino a che essa non è diventata
parte di me, e
ancora mi accompagna nelle mie passeggiate kantiane che durano quattro,
cinque,
sei ore, senza fermarmi.
Adesso
è partita “The Call” di Regina Spektor.
Amo questa canzone. Mi ha salvato la
prima volta.
Magari
è paura. Ma se è così, avrei potuto
concentrarmi su rimedi più semplici, più a
portata di mano, per combattere la solitudine. E invece mi sento spinto
verso
una sola direzione, perché sento che potrebbe essere quella
giusta e voglio che
sia quella giusta.
Là
di fronte a me, come una porta semi aperta, si erge in lontananza.
“Coltivalo
questo sentimento, se ci tieni davvero. Sta a te fare in modo che
fiorisca e
che duri”.
Sono
partito con tante parole per “l’amato me
stesso” e concludo con una valanga di
parole per una seconda persona e forse questa è fuggita via.
Ma
non sono mai stato bravo con i finali. Mi riesce bene solo quello che
sta tra
la parola inizio e la parola fine.
Non
torno più ad immergermi in acqua. Non ne sento il bisogno
Dal
balcone aperto spira una brezza leggera, calda e piacevole.
Dovunque
tu sia “Voglio amarti”.
Nota
Questa
la dedico all’ “essere speciale” cantato
da Battiato. Tutti mi hanno detto di
provare ad essere felice. Adesso sono io che lo chiedo a me stesso.
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