Ad Elvira,
senza la quale non sarei
qui.
Scena
I.
[ I due
personaggi si trovano in uno studio dall'aria confortevole. La prima,
una donna sui quaranta, vestita con pantaloni e camicia casual,
accavalla le gambe su una poltrona che ha visto tempi migliori. La
seconda, drappeggiata in abiti neri che la fanno sembrare
più intimidatoria di quanto sia in realtà,
è seduta a gambe divaricate su un divano rosso, la schiena
appoggiata a morbidi cuscini di velluto. È chiaro che sono a
loro agio nel parlare l'una con l'altra. In questo momento discutono di
una questione che sembra dividerle. ]
DOTTORESSA LAURENT:
È un'ottima idea.
MEG: (aggrottando
la fronte)
No, è una pessima idea.
DOTTORESSA LAURENT: Il
miglior virtuoso del mondo. È un'occasione da non perdere.
C'è chi pagherebbe oro pur di avere
un'opportunità come la tua.
MEG: Beh, io non sono chiunque, quindi… La
risposta è no. (si ferma a
rosicchiarsi un'unghia smaltata di nero, accigliandosi dinanzi a una
pellicina molesta)
È ridicolo. Non ho bisogno di un baby sitter.
DOTTORESSA LAURENT:
Non si tratta di un baby sitter. Fa parte della terapia, Meg. E in
quanto tale faresti bene ad accettarla.
MEG: (bofonchia
qualcosa che assomiglia pericolosamente ad uno scimmiottio delle parole
dell'altra donna)
Mpfh.
DOTTORESSA LAURENT:
Tua madre ha avuto un'idea brillante. Beh, è una donna
brillante, non c'è da meravigliarsi se… (si ferma,
ponderando le parole)
Lo farai? Almeno provaci. Conoscerai un grande artista.
MEG: Non si sa nulla
di lui. È un recluso da vent'anni, da quando praticamente ha
iniziato la sua carriera. Sarà uno di quei vecchi con la
puzza sotto il naso. Non mi faccio fare da tutor da un vecchio
altezzoso, io.
DOTTORESSA LAURENT:
É vecchio?
MEG: Nessuno lo ha mai
neanche visto in faccia. Non si sa niente di lui. Se non che non
dà concerti… Un egoista, a mio parere. Uno non
può creare musica del genere e poi… (fa un
gesto vago con le dita piccole e magre) Puf. Scomparso dalla
circolazione.
DOTTORESSA LAURENT:
Quindi hai ascoltato le sue opere.
MEG: Certo che
sì. Chi non lo ha fatto? Forse solo qualche adolescente
brufoloso che si spara immondizia tecno nelle orecchie. (fa una
smorfia)
Comunque sia, continua a sembrarmi un'emerita puttanata. (non si
scusa per il termine volgare)
DOTTORESSA LAURENT: (trattenendo
a stento un sospiro — Dio solo sa quanti pazienti cocciuti ha
seguito negli anni, ma questa in particolare…) Meg, ricorda quello che
abbiamo detto tante volte riguardo al rischiare. Tu sei sempre troppo
impaziente di provare le cose. Ti getti nella mischia senza pensare. A
volte può essere un difetto… (Meg emette un lieve
sbuffo sarcastico) ma d'altro canto è qualcosa che non
possiamo ignorare. E quel qualcosa mi dice che muori dalla voglia di
saperne di più.
MEG: Su cosa,
esattamente?
DOTTORESSA LAURENT: Su
di lui. Sul mistero che lo circonda. Da quanto tempo ci conosciamo, Meg?
MEG: Da prima che
avessi Dany.
DOTTORESSA LAURENT:
Fidati di me, allora. Vedila come un'avventura.
MEG: Sono troppo
grande per le avventure. Ne ho avute abbastanza per una vita intera, e
non erano come mi aspettavo da bambina.
DOTTORESSA LAURENT:
Questa volta è diverso. Credo fermamente che nella musica ci
sia un potere di guarigione per l'anima che le medicine non possono
offrire. Pur con tutta la nostra scienza, noi medici ci troviamo
disarmati davanti alla vera bellezza. All'arte. (una breve
pausa, in cui osserva con occhi acuti quelli scettici della sua paziente) Sei convinta, adesso?
Prendila come una sfida.
MEG: E che io sia
dannata prima di tirarmi indietro davanti a una sfida.
DOTTORESSA LAURENT: (sorride) Esatto.
i.
Non sa cosa lo
sveglia, se il ronzio nelle orecchie o il rombo del cuore nel petto. Si
puntella sui gomiti e si sfila di dosso le lenzuola, divenute
ingombranti, asciugandosi il collo sudaticcio con un asciugamano che
tiene sempre a portata di mano sul comodino. Il sangue che gli pulsa
nei timpani è a dir poco fastidioso. China la testa tra le
ginocchia e respira lentamente, il movimento dei polmoni ben palpabile
sotto la pelle. Inspira,
espira.
Così gli ha detto il terapista da cui andava anni fa. Non
che andarci sia servito a tanto. Solo un'inutile perdita di soldi
— ma di soldi ne ha da spendere, lui, quindi non ci fa caso.
Inspira, espira.
Mi
chiamo Erik Danton, ho quarantacinque anni e sono francese. Si ripete questo segmento di
pensiero più e più volte, per ricordare a se
stesso chi è e dove si trova. Sono nella
mia stanza, a casa mia. Appena fuori Parigi. Sono al sicuro. Al sicuro
dalla morte, dal sangue — sulle mie mani e su quelle degli
altri. Al sicuro da tutto.
Si passa le lunghe
dita ossute tra i capelli umidi e controlla la sveglia. Sono le quattro
e mezza del mattino: un orario un po' atipico per farsi una doccia, ma
è abituato a stranezze ben peggiori. Sa che alle otto
precise riceverà una chiamata dal Daroga, che lo
vorrà sveglio e pronto invece che a dormicchiare
spaparanzato sul letto disfatto. Poi la cameriera, la signora Giovanna.
Sì, non può farsi vedere in questo stato. Con un
sospiro quasi doloroso, si tira su dal letto. Un ultimo sguardo di
nostalgia alle lenzuola calde e accoglienti, e poi dritto nella doccia.
Anche lì, nel bagno, non ci sono specchi.
Naturalmente.
«Dovrebbe
mangiare di più, signore.»
Giovanna è
una sessantenne piena di energia che ogni sabato gli rifila una
porzione di lasagne fatte in casa che potrebbe sfamare un'intera
famiglia, non certo uno stomaco ristretto come il suo. A suo tempo,
quando girava per il mondo, ha imparato a vivere di poco. Anche dopo
anni di agio, tutto quel lusso lo disorienta.
Sorride sotto la
maschera che indossa — sempre — e fa cenno alla
donna di non preoccuparsi. Giovanna viene da una famiglia italiana di
antiche tradizioni: da qui le lasagne per il datore di lavoro. Non sa
se sia così gentile con lui perché la paga tanto
da fare invidia a tutte le domestiche del mondo o perché
è sinceramente cortese e apprensiva. Una miscela di entrambe
le cose, sospetta. Il denaro rende gentile chiunque, se necessario.
Quando la domestica ha
ormai terminato le sue pulizie e lo ha edotto abbastanza sulla cucina
italiana da saziare una mandria di buoi, lui si dedica ad un altro tipo
di pulizia: quella personale. D'altronde, oggi ha appuntamento con una
donna.
Nulla di galante,
naturalmente. Al pensiero, quasi sogghigna — con l'usuale
amarezza. Non ha mai avuto a che fare con appuntamenti galanti, lui.
Conosce molti modi per uccidere un uomo, e nessuno può
— o poteva — superarlo nell'uso del laccio del
Punjab, ma non ha mai capito nulla delle donne. A parte Giovanna, la
domestica peso massimo che si ostina a chiamarlo
“signore” nella sua lingua d'origine, e non
“Monsieur”, non c'è
nessun’altra nella sua vita. Nessuna, a parte una vecchia
conoscenza: Antoinette Giry.
Infelicemente vedova
da tredici anni, di una manciata d'anni più anziana di lui,
è istruttrice integerrima di danza all'Opera Garnier.
È lì che l'ha conosciuta, quando gli riservava il
palco numero 5 perché…
No, meglio non pensare
al passato. Certe ferite sono ardue da rimarginare, e lui ha troppe
cicatrici sulla pelle anche solo per contarle.
Indossa il suo
completo Armani con un'eleganza che gli è quasi naturale. Si
fa recapitare giacche, cravatte, camicie e pantaloni di pura seta dalle
migliori aziende di moda, da tutte le capitali di stile del mondo
— Milano, Londra, New York, la stessa Parigi. È
sempre stato un suo… vizio, l'eleganza. Non per apparire
più attraente — senza la maschera che indossa
costantemente, o almeno quando non è solo in casa, sarebbe
più facile far sembrare mansueto un leone affamato
— ma per sentirsi più sicuro di sé.
L'eleganza ha il suo perché, dopotutto.
Non gli importa di
spendere tutto quel denaro in completi e scarpe e cappelli che chiunque
altro non potrebbe permettersi. Il Daroga è ostinato nel
ricordargli che i soldi non sono eterni, ma lui non è
stupido, e sa amministrare le sue spese. Sapeva risolvere le divisioni
a tre anni. Si limita a godersi quel poco che può: non
c'è peccato in questo,
assolutamente.
Ritornando ad
Antoinette, si tratta di un favore con cui deve ripagarla per
tutto ciò che lei ha fatto per lui negli anni dell'Opera.
Non sia mai che si dica che Erik non paga i propri debiti. È
molte cose, ma non è un ingrato, per quanto il Daroga lo
accusi spesso di questo peccato — ti ho
salvato la vita, Erik, e tu mi tratti come fossi lo zerbino di casa
tua! Dammi retta invece di annegare nel vino come fai di solito.
Continua così e ti rivedrò in un centro per
alcolisti anonimi. E
così via. Gli sembra di avere sul collo il fiato di un
genitore iperprotettivo. Ma cosa ne sa, lui? Non ha mai avuto dei
genitori veri.
Rumore di ruote sul
viottolo. Ah, eccola che arriva. Il suo debito da
ripagare.
Erik si aggiusta il nodo alla cravatta, lanciando un'occhiata fuori da
una delle grandi finestre nel salotto. Uno dei salotti, a dire il vero
— beh, non ha importanza. Scorge una figurina vestita di nero
a bordo di una motocicletta grossa il doppio di lei. Erik aggrotta la
fronte dietro la maschera. Se lo avesse saputo, le avrebbe prenotato un
taxi, con quel freddo.
Bussano alla porta.
Non può dire di non essere un tantino nervoso. Non ha
rapporti con le persone — eccetto il Daroga e Giovanna e
pochissimi altri — da anni. Quel che gli serve se lo fa
recapitare a casa via posta, o grazie ad Internet. Con quest'ultimo
può tenersi aggiornato sul mondo anche se non vi vive
davvero. Un'invenzione assai utile, a suo giudizio.
Erik attraversa il
grande atrio e apre la porta.
Non sapeva cosa
aspettarsi, ma quello che si trova davanti non è…
facilmente immaginabile. Una ragazza — potrà avere
sui diciannove, forse vent'anni al massimo — con disordinati
capelli neri, pelle olivastra e un viso che non si può dire
grazioso, ma passabile. (Beh, di certo lui non è tipo da
giudicare una persona per il proprio aspetto. Nei suoi anni di
convivenza con un volto deforme e una pelle fatalmente diversa, ha imparato a non farlo mai.
L'apparenza inganna.) Lunghe ciglia scure incorniciano occhi di carbone
e onice. È vestita nel modo strano in cui si abbigliano
certi giovani: giubbotto di pelle, stivali anfibi dal tacco pesante,
jeans strappati. In più, matita da sguardo letale intorno
agli occhi allungati e lucenti. Tutto rigorosamente nero. Sembra uscita
da una rivista di moda controcultura di scarsa qualità.
La giovane si toglie
le cuffie dalle orecchie e gli offre una mano, guantata —
sempre di nero.
«Meg Giry.
Mi aspettavi?»
Sembra notare solo
adesso che lei è vestita praticamente di stracci e lui
sfoggia un completo impeccabile. Non ne arrossisce minimamente. Si apre
in un sorrisetto e chiede di entrare.
«Prego»
dice lui, e le fa cenno di accomodarsi. La vede mordersi un labbro, e
sa perché. La sua voce è sempre stata suadente
alle orecchie degli altri, e questo deve averla disorientata. Non era
intenzione di Erik, comunque. Meg si riprende in fretta, guardandosi
intorno con una curiosità che sfiora la maleducazione.
«Cazzo.
Bella casa.»
A queste parole, Erik
già sa che il suo compito di insegnante sarà ben
più difficile del previsto. Cominciamo
bene.
Le offre di
accomodarsi in salotto, e lei si siede sul bordo di uno dei lussuosi
divani in pelle, sempre lo sguardo attento ad ogni dettaglio che la
circonda.
«Un
bicchiere di Chianti?»
«Di
che?»
Erik si schiarisce la
gola. Non può impedire al suo tono di voce di assumere una
sfumatura arrogante.
«Di Chianti.
Un vino italiano. Un'ottima annata.»
«Preferisco
la birra al vino.»
«Ah. Pardon, ma non ho birra.»
«Un appunto
per la prossima volta. Se hai in casa altro alcol, però
— whisky, vodka, gin — ne prendo un cicchetto
volentieri.»
Si dà il
caso che conservi una bottiglia di vecchio saké in cantina,
e ne offre un "cicchetto" all'amabile ragazza seduta sul divano di
casa sua. A gambe divaricate, poi, completamente a suo agio, almeno
all'apparenza.
Si scola lo shot di
saké in un fiato, umettandosi le labbra con l'eterno
sogghigno. Di certo non è vergine al sapore dell'alcol.
È quasi inquietante, ora che la osserva meglio, quanto
assomigli alla madre e allo stesso tempo abbia l'aria di una persona
con cui Antoinette Giry non potrebbe mai essere imparentata. Ha la
stessa forma degli occhi e i capelli neri, ma è piccola e
magra quanto la madre è alta, e scura di pelle quanto
l'altra ha la carnagione di porcellana. Immagina che siano i colori del
padre. Doveva avere una qualche origine africana, suppone.
Ha sentito parlare di
Claude Giry, naturalmente. Pianista talentuoso, marito e padre
esemplare, rinomato nell'ambiente musicale parigino. A questo,
è succeduto un ricovero in un istituto di igiene mentale,
fino al suo tragico suicidio avvenuto tredici anni prima. Una storia
che urla dramma da tutti i
pori.
«Mia figlia
non ha più continuato a suonare il pianoforte dopo
che…» Questo gli ha detto Antoinette al telefono,
quando lo ha contattato per proporgli per la prima volta la sua
offerta. Non sa ancora come si sia procurata il suo numero, anche se
è certo che ci sia di mezzo il Daroga. Lui è
ancora un frequentatore dell'Opera, e tutti sanno che è
vicino al misterioso e geniale musicista Erik Danton.
«Vorrebbe
riprendere?» aveva chiesto lui, con la sua voce
più vellutata. Antoinette aveva sospirato.
«Si
è convinta, alla fine. Le farebbe bene. Non ha mai superato
davvero la morte del padre, e questo… questo potrebbe
aiutarla a riavvicinarsi alla sua memoria in un modo che le ispiri
amore e dolci ricordi, e non amarezza.»
Lui aveva alzato un
sopracciglio. «Capisco. Madame, siete certa che io sia la
persona adatta?»
«Sì.
Non conosco musicista più talentuoso di voi,
Erik.» Un sospiro. «Si tratta di un esperimento,
capite. Abbiate pazienza con lei. Ha avuto un vissuto
problematico.»
Posso
solo immaginare,
pensa mentre la guarda masticare rumorosamente una cicca e tamburellare
il piede sul pavimento di marmo lustrato — opera di Giovanna,
ovvio; quella donna è sempre diligente nel tenere la grande
villa Danton ben pulita e ospitabile, sebbene i visitatori siano ben
più che rari.
Ma ora Erik si
è impelagato in questa situazione, e non può
uscirne fuori. Non vuole, d'altronde. Sembra una sfida interessante.
Fare di quella ragazza una brava pianista… Magari ha davvero
talento. Il padre doveva pur capirne qualcosa.
«Perché
la maschera?» chiede Meg all'improvviso. Erik nota che la sua
voce è roca e bassa, non certo il soprano delicato e
argentino di…
No,
non devo pensarci. Non adesso. Non a lei.
Si concentra sulla
giovane donna che siede dinanzi a lui. Non ha alcuna vergogna nel
chiedergli quello che di solito la gente ha troppo timore di sputargli
in faccia.
Perché
la maschera, Erik?
Ne indossa una di porcellana nera, che gli copre la maggior parte del
viso. Solo il labbro inferiore è lievemente scoperto,
così che si nota quando sorride o fa una smorfia. Ora
è il momento di fare una smorfia.
«Un
incidente?» chiede di nuovo Meg, senza attendere che lui
risponda alla sua prima domanda. Erik si schiarisce la gola.
«Un
incidente di nascita, ti correggo.»
Lei alza le mani,
lievemente sgomenta. «Non lo sapevo. Mi dispiace.»
Sembra sincera dalla prima volta che ha messo piede in casa sua. Se
solo non continuasse a masticare rumorosamente quella cicca…
«Niente di
cui tu debba preoccuparti.» Una pausa. «Sono
inutili le presentazioni, suppongo.»
«Su di te so
quel che sa il resto della gente.»
Erik sorride,
sardonico. «La gente presume molto, di solito. Cosa
sa?»
«Il tuo
talento è… ineguagliabile. È
risaputo.» Non lo dice per ingraziarselo: è un
dato di fatto, molto semplicemente. Non sbatte neanche le ciglia.
«Cantante lirico e non, compositore, musicista —
suoni una miriade di strumenti, e…» Si ferma per
versarsi dell'altro saké. «Non ti sei mai fatto
vedere in pubblico. La gente conosce il tuo nome, ma non la tua faccia.
E ora so perché.» Si scola un altro bicchierino.
Deve vantare una buona resistenza all'alcol, perché quando
ha finito è ancora lucidissima.
«Io invece
di te non so molto, se non che sei una ballerina nella compagnia
dell'Opera di Parigi. Un ruolo ambizioso.» Non le dice che sa
anche come è morto suo padre, o che sua madre è
sinceramente preoccupata per lei. Non deve — non vuole
— immischiarsi.
«Sono tutti
convinti che queste dannate lezioni mi farebbero bene. Sono qui per
dimostrare il contrario.» Gli sogghigna in faccia. Osa sogghignargli in faccia. Ma
bene.
«Tua madre
deve pur averti insegnato l'educazione.»
Lei s'incupisce.
«Perché mi dici questo?»
Lui le sventola un
indice sotto il naso. «Prima di tutto, per te è Monsieur. Secondo, non sono qui per
giocare.»
Lei distorce le labbra
sottili in una smorfia — un'altra. «Io ti chiamo
come mi pare.»
Erik sospira. Quella
ragazza lo sta facendo avvicinare pericolosamente al punto di
ebollizione. «Un po' di rispetto sarebbe dovuto.»
«Perché
sei un vecchio recluso? Uno il rispetto se lo deve meritare da me, ecco
tutto. E se tu mi apostrofi in questo modo…»
Iniziamo
male. Molto male.
«Ragazza, non ti chiedo niente.»
Lei si infiamma.
«Il mio nome è Meg. Non ragazza.»
«Non avevi
detto che potevi chiamarmi come più ti piaceva? Ebbene,
farò la stessa cosa anch'io.»
Lei si morde un
labbro. Sembra sul punto di alzarsi e prenderlo a pugni, ma non lo
fa. In qualche modo, si controlla.
«Ti hanno
mai detto che sei uno stronzo arrogante?»
«Molte
volte.» Ora sorride, serafico. «Cominciamo la
lezione?»
Ha bisogno di
accertarsi sulla sua preparazione. Che c'è, solo che è
arrugginita, decisamente arrugginita. E poi c'è
qualcos'altro che la blocca… Qualcosa a cui non sa dare
nome. Sa solo che, quando vede il lucido pianoforte a coda nella stanza
della musica, ne rimane impietrita per un attimo. Non stupita dalla sua
bellezza, no: proprio raggelata. Quasi impaurita. Svanisce in
un secondo, comunque, e ritorna spudorata come sempre. Si guarda
intorno masticando la cicca. La sala della musica è
l'orgoglio di Erik, riempita di ogni strumento possibile, libri di
spartiti e una stanza adiacente che è un vero e proprio
studio di registrazione.
Erik la invita a
sedersi sullo sgabello dinanzi al pianoforte, al centro della camera.
«Non ho
portato uno spartito. Avrei dovuto?»
«No.
Scegline uno da quella cartella.»
Inizia con un
semplicissimo valzer, ma s'intoppa sul più bello. Ci
vogliono due ore intere di esercizi perché riesca a suonarlo
in modo tale da non fargli sanguinare le orecchie. Dopo interminabili
minuti di digrignar di denti e maledizioni sussurrate, Meg ce la fa, ed
Erik ha compreso pienamente da dove cominciare con lei. Ossia, quasi
daccapo.
Conosce le basi, ma la
tecnica è scarsa. Si premura di informarla al riguardo, non
senza quel tono di superiorità che lo contraddistingue, ed
è forse per questo che lei si rabbuia e fa per prendere lo
spartito e scagliarglielo in testa. Alla fine non fa nulla, il che
è un bene. Erik non è tipo da accettare con
beneplacito che qualcuno gli lanci la sua roba (concernente la musica,
per altro) sulla propria testa mascherato.
Come compiti
per casa,
le assegna diversi esercizi di solfeggio. Lei distorce le labbra,
disgustata.
«Pensavo che
la pratica fosse più importante.»
«Lo
è anche la teoria.»
«Beh, si
dà il caso che a me non piaccia. Non mi è mai
piaciuta.»
«Fattela
piacere a forza. Non vi è altro modo.»
Meg gli riserva uno
sguardo fulminante. Si accordano per la lezione successiva —
sabato prossimo, alla stessa ora del pomeriggio —
dopodiché Meg fa per andarsene con il nuovo plico di
spartiti sotto il braccio.
«Ripassa
bene quel che ti ho insegnato oggi. Non dimenticare: il solfeggio
è—»
«La base
della pratica. Sì, lo so.» Gli dardeggia contro
uno sguardo acceso da sotto le folte ciglia scure. «Questa
lezione è ridicola. Anzi, questa idea è
ridicola.»
«Senti un
po', piccola scost—»
E prima che Erik possa
concludere, lei scompare lungo il viottolo, mette in moto
l’Harley Davidson — nera anche quella, bella
potente — e si dirige senza casco per la via di casa. Se
avesse qualcosa in mano, Erik glielo lancerebbe contro.
In
cosa mi sono immischiato? Questa ragazza è terribile. Senza contare che gli ha dato
dello stronzo arrogante pochi minuti dopo averlo conosciuto. Non sa se
essere più offeso o stupito perché,
sorprendentemente, ci ha azzeccato in pieno.
Note
dell'autrice:
Eccomi tornata con una nuova E/M! Chi ha letto l'altra mia long fic - Mon coeur
s'ouvre à ta voix - avrà
già familiarità con i personaggi e la coppia.
Questa fic è una sorta di AU, ma non è necessario
aver letto l'altra per capirla - sono sconnesse tra loro. Inoltre
è molto più leggera, meno tragica e assai meno
lunga della "collega". E' senza pretese, e spero vi faccia sorridere.
Aggiornerò regolarmente, dato che l'ho già
conclusa.
Bye :)
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