Hola! :)
Spero stiate tutti bene e che siate pronti per questo nuovo capitolo!
La storia si fa sempre più intricata, ora che anche Freya
è uscita da Avalon. E Alex riuscirà finalmente a
confessare a Merlino e ad Artù di aver trovato Excalibur?
Staremo a vedere.
E per quanto riguarda Hala e Baqi, i due fratelli gemelli introdotti
nello scorso capitolo? Che ne pensate? Il ragazzo ha trovato davvero la
prova dell'immortalità di Merlino? Sarà una
minaccia per il suo segreto?
Ringrazio tutte le belle persone che hanno commentato lo scorso
capitolo e chi ha semplicemente letto fino a qui.
Un bacio e una serena Pasqua/Pasquetta a tutti! ;)
Vostra,
_Pulse_
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21. Love in
the time of insecurities
«Piano, Artù... Fai piano».
Il biondo corrugò la fronte per la concentrazione e
socchiuse gli occhi, spingendo con ancora più delicatezza.
Di sfuggita vide gli angoli della bocca di Cathleen arricciarsi in un
sorriso e...
ROOM, STUMP, PUF.
«No, no, no!», gridò il paramedico,
pestando i piedi. «Stavi andando così bene questa
volta! Che cos’è successo?!».
Artù picchiò i palmi delle mani contro il volante
e subito dopo si tolse la cintura di sicurezza per poter uscire dalla
bestia di metallo e lamiere – più comunemente
chiamata automobile – che da più di
un’ora lo stava facendo impazzire.
Cathleen sospirò e lo seguì nel bel mezzo della
radura ricoperta di fiori.
«Artù! Artù, dove stai
andando?».
«Lasciami in pace, Cathleen».
Il paramedico accennò una corsetta e si portò
davanti a lui, ma il re di Camelot non accennò a volersi
fermare e per non essere travolta fu costretta ad iniziare a camminare
all’indietro come un gambero.
«Mi spieghi qual è il problema? Non sei
l’unica persona al mondo ad essere incapace a
guidare!».
Artù le rivolse uno sguardo carico d’astio.
«Questo dovrebbe farmi sentire meglio?».
«Sì! Cioè...». Cathleen si
passò una mano tra i capelli, sbuffando. «Quello
che intendo dire è che non è un problema.
Esistono tanti altri modi per spostarsi, in
quest’epoca».
«È vero, ci sono le moto», disse
guardandola con occhi eccitati.
Il paramedico gli puntò il dito contro. «No, non
ci pensare nemmeno. Nessuno tocca la mia moto».
Il re di Camelot scosse il capo con un sorrisetto amareggiato sul
volto, segno che aveva già immaginato la risposta della
rossa.
La spostò con un braccio e proseguì attraverso la
radura, verso il nulla. Cathleen quella volta non lo seguì:
si sedette semplicemente sull’erba, a gambe incrociate e con
una mano a sorreggerle il viso. Artù provò ad
ignorarla, ma la curiosità fu troppo grande e si
voltò, irritato dal suo comportamento.
«E adesso che cosa stai facendo?».
«Non ho più voglia di rincorrerti»,
rispose lei con una scrollata di spalle. «Mi troverai qui,
quando ti sarai sbollito e avrai voglia di parlare».
Cathleen era proprio strana: adorabile ed irritante, imbarazzante ed
affascinante, divertente e cupa. A volte Artù non riusciva
nemmeno a capire perché gli piacesse così tanto.
Gli ricordava Gwaine e i suoi modi di fare, il suo essere totalmente
devoto alla causa, il più leale dei suoi cavalieri, e al
contempo il più testa calda, pronto a dirgli in faccia se
una cosa non gli stava bene oppure no. E forse – molto
probabilmente – era proprio questo il motivo del suo affetto.
Artù alzò gli occhi al cielo e sbuffando
tornò sui suoi passi. Cathleen sollevò il viso
verso il suo, sorridendo candidamente, e gli indicò tutto lo
spazio che aveva a disposizione per sedersi.
«Mi sporcherò i jeans», le disse.
Il paramedico gli rivolse un’occhiata incredula e poi
prendendolo per mano lo trascinò giù, urlando:
«Non fare la principessa!».
Il re di Camelot provò un senso di
déjà-vu e al contempo di orrore sentendo quelle
parole. Non appena si trovò di fronte ai suoi occhi gentili
però, ogni sorta di tempesta dentro di lui si
placò.
«Allora, vuoi spiegarmi che ti prende?», gli
chiese. «Oggi è stata la prima volta che ti
mettevi al volante, non credo che sia già arrivato il
momento di gettare la spugna».
«Non ho intenzione di gettare la spugna, è solo
che...». Abbassò il capo, posando lo sguardo
sull’anello che aveva iniziato a rigirarsi intorno al dito.
Cathleen attese in silenzio, senza mettergli pressioni.
Alla fine confessò: «Mi sento inadeguato, in
questa epoca. Io... faccio di tutto per ambientarmi, per sembrare come
voi... Ma è così difficile! Io non sono abituato
a fallire e qui mi capita molto spesso, fin troppo».
Cathleen gli prese una mano tra le sue. «Da quanto tempo
sei... da quanto tempo ti sei risvegliato?».
«Quasi due mesi».
«E tu credi davvero che in due mesi avresti potuto
aggiornarti completamente? Non sei una macchina, Artù... Sei
un essere umano. E a me pare che tu te la stia cavando
egregiamente».
«Lo dici solo per farmi contento», la
rimbeccò, deviando il suo sguardo.
«Certo».
Artù si voltò di nuovo, incredulo.
«Come, scusa?».
«Ho detto: certo. Io ti voglio bene, Artù, e
voglio che tu sia contento. Se poi tu non pensi che io ti stia dicendo
quello che penso... beh, sono affari tuoi».
Artù non si sarebbe mai stancato dei suoi intricati metodi
per tirarlo su di morale, né di lei in generale. E mai
sarebbe riuscito a sdebitarsi completamente.
«Grazie, Cathleen».
Il paramedico sorrise e gli strinse una spalla. «Figurati.
Che dici, vuoi riprovarci un’ultima volta?».
Artù annuì e si alzò, porgendole una
mano per aiutarla a fare lo stesso. Lei la ignorò, forse non
la vide nemmeno perché era abituata a fare da sola, e una
volta in piedi iniziò a correre verso l’auto,
gettandogli un’occhiata di sfida.
Artù non avrebbe dovuto farlo per via dei suoi
“problemi di cuore”, ma quello non fu
l’unico motivo per cui si trattenne e la lasciò
vincere.
***
«Sinistra, destra, alto, giro…».
Il cozzare delle loro spade interrompeva il cinguettio degli uccelli e
sovrastava il gorgoglio del fiume, tanto che ad Alex sembrava che
fossero i soli al mondo.
«Che ne dici se improvvisiamo un po’?»,
gli chiese leggermente in affanno. «Voglio vedere se i miei
riflessi sono migliorati».
«Okay», acconsentì Merlino, facendo un
passo indietro.
Alex fece un respiro profondo e posizionò il piede destro
davanti al sinistro, facendo volteggiare la spada di trecentosessanta
gradi con una semplice rotazione del polso. Guardandola, il volto del
mago si illuminò grazie ad un sorriso che la
spiazzò.
«Che c’è?», gli chiese,
venendone contagiata.
«Il movimento che hai fatto… È
un’abitudine di Artù. Allora, sei
pronta?».
L’infermiera annuì, gettandosi dietro la spalla la
coda di cavallo. A causa di quella distrazione quasi non vide il
fendente di Merlino, che parò all’ultimo secondo,
spostando il corpo verso sinistra.
«Ehi!», si lamentò, o almeno ci
provò mentre un Merlino implacabile non le lasciava nemmeno
il tempo di respirare, puntando la spada verso ogni suo spazio mal
difeso.
Quando finalmente riuscì a contrattaccare, Merlino si
accucciò a terra e stendendo una gamba le colpì
le caviglie, facendole perdere l’equilibrio. Alex sarebbe di
certo caduta all’indietro, ma lo stregone fu più
veloce della stessa forza di gravità e
l’afferrò per un braccio. Si ritrovarono
così petto contro petto, occhi negli occhi.
«I tuoi riflessi sono… okay»,
ansimò Merlino, sorridendo.
Alex si protese ancora un po’ verso il suo viso, come se
volesse baciarlo, ma ad un soffio dalle sue labbra disse: «La
prima lezione di Artù è stata quella di non dare
mai nulla per scontato durante un combattimento, chiunque sia il tuo
avversario».
Merlino sentì la punta di un pugnale pungergli il fianco
sotto la maglia di ferro e sollevando gli occhi al cielo
scoppiò a ridere, per poi sollevare le mani in segno di resa.
L’infermiera si allontanò soddisfatta, anche se un
po’ le bruciava che Merlino le avesse detto che i suoi
riflessi erano solamente “okay”. Sapeva che se
avesse avuto Excalibur tra le mani l’esito di
quell’esercitazione sarebbe stato del tutto diverso, ma aveva
deciso di tenergliela nascosta ancora per un po’.
Da una settimana a quella parte infatti la spada magica non sembrava
causarle più gli stessi problemi: niente più
inibizione delle emozioni, niente più fastidiosi mal di
testa e, soprattutto, niente più incubi.
Era così sollevata e felice che Excalibur non le provocasse
più effetti collaterali – era come se finalmente
il suo organismo si fosse abituato a quel flusso di energia –
che aveva pensato che non ci fosse più bisogno di mettere al
corrente Merlino o Artù.
Anche il mago dopo l’ultima volta non le aveva più
fatto domande, sembrava proprio che se ne fosse dimenticato, ma questo
non la rendeva più tranquilla, anzi… La sua
attenzione per non destare sospetti doveva mantenersi sempre alta.
Però era felice, felice come non lo era da tanto tempo, e
non avrebbe cambiato nulla della propria vita.
«Che ne dici, facciamo una pausa?».
Alex smise di sfiorare i manici delle varie armi a disposizione per gli
allenamenti e si voltò di tre quarti per sorridergli.
«Volentieri. Mi daresti una mano a togliermi di dosso tutta
questa ferraglia?».
«Non aspettavo altro», rispose Merlino con sguardo
malizioso.
Con delicatezza le slacciò la gorgiera (a protezione del
collo), gli spallacci, i bracciali inferiori e poi l'armatura a scaglie
che le stringeva la pancia, a partire da sotto il seno.
La fece voltare delicatamente e la guardò negli occhi mentre
le sfilava lentamente anche la sottile maglia di ferro, luccicante
sotto i raggi del sole del mattino inoltrato.
«Magari ci fossero state delle donne cavaliere come te, a
Camelot. Mi sarei offerto di lucidare tutte le loro armature, e senza
l’uso della magia», le disse prima di catturare le
sue labbra tra le proprie.
Alex sorrise, aggrappandosi alle sue spalle per poi risalire ad
accarezzargli il collo e il viso. Si scostò dolcemente,
percorrendo con le dita le zampe di gallina che dopo
l’incidente al lago si erano accentuate ancora di
più agli angoli dei suoi occhi azzurri. Liberando la magia
che lo teneva in vita era invecchiato rapidamente, almeno di dieci
anni, ma ciò che provava per lui non sarebbe mai cambiato.
«Ti amo, Merlino».
Lo stregone annuì, posando la fronte contro la sua.
«Ti amo anch’io».
Improvvisamente sentirono una canzone sparata a tutto volume
all’interno della casa e senza esitazioni si scostarono
l’uno dall’altro per precipitarsi
all’interno.
***
Cathleen e Artù entrarono in casa, trovandola fin troppo
silenziosa.
«Merlino!», urlò a squarciagola il re di
Camelot. «Siamo tornati!».
Mentre il biondo si toglieva il giubbotto, il paramedico
entrò in cucina e attraverso le porte finestre che davano
sulla veranda scorse Merlino e Alex in giardino, stretti
l’uno nelle braccia dell’altro ed intenti a
scambiarsi effusioni, ignari del loro arrivo.
«Ma dove diavolo si è cacciato
quell’idiota?», borbottò Artù
comparendo sulla soglia della cucina.
«Ehi!», gridò Cathleen, facendolo
sobbalzare. «C’è troppo silenzio qui,
mettiamo un po’ di musica!».
Accese la radio e alzò il volume al massimo, lasciando che
quell’orribile canzone otturasse i timpani di entrambi.
Artù la fissò scioccato, tappandosi le orecchie.
«Cosa diavolo stai facendo?!». Le andò
incontro per spegnere l’apparecchio, ma Cathleen gli
gettò le braccia al collo e lo baciò
appassionatamente sulle labbra, sperando che quella bastasse come
distrazione e che Alex e Merlino accorressero il più in
fretta possibile.
Al contrario delle sue aspettative, Artù non si
allontanò da lei tanto presto. Approfondì il
bacio, spingendola di nuovo verso il lavello e sollevandola per i
fianchi per farla sedere sul ripiano della cucina.
Aveva appena sfiorato la pelle calda sotto la maglietta, quando Alex e
Merlino aprirono le porte finestre e li colsero sul fatto, rimanendone
a bocca aperta.
«Hai capito il nostro Mr.
Casto-fino-al-matrimonio?», esordì Alex,
sorridendo furbescamente di fronte al volto paonazzo di Artù.
Cathleen trattenne una risata invece, sporgendosi per spegnere la
radio. Poi incrociò lo sguardo di Merlino, il quale la
ringraziò silenziosamente.
«Un po’ di rispetto, ragazzina!», la
rimproverò il solo ed unico re, puntandole il dito contro.
«Piuttosto, voi che cosa stavate facendo?».
Alex e Merlino si scambiarono un’occhiata, quindi scrollarono
contemporaneamente le spalle, rispondendo in perfetta sincronia:
«Il solito allenamento».
«Com’è andata la prima lezione di
guida?», domandò poi Merlino.
Artù deviò il suo sguardo e fu Cathleen a
rispondere per lui, accarezzandogli una ciocca di capelli biondi:
«Ha ancora molto da imparare, ma confido nelle sue
capacità».
Lo stregone sorrise e gli diede una pacca d’incoraggiamento
sulla spalla. «Vedrete, ce la farete. Ora, avete qualche
richiesta particolare per il pranzo?».
Artù negò con un cenno del capo e si
voltò verso Cathleen, esitando un paio di secondi prima di
chiederle se volesse fermarsi lì a mangiare. Il paramedico
ne fu piacevolmente sorpresa ed accettò, a patto che potesse
aiutare.
«La cucina è tutta vostra!»,
gridò Alex, dileguandosi con Artù al seguito.
Merlino e Cathleen si guardarono con le labbra arricciate,
sull’orlo di una risata che non riuscirono a reprimere a
lungo.
***
«Allora Crudelia, come va?».
Merlino ghignò, osservandosi il ciuffo di capelli bianchi
attraverso la lama del coltello con cui stava tagliando a cubetti la
verdura.
«Non c’è male. Grazie per
prima».
«Oh, figurati».
«Visto che siamo soli, vorrei ringraziarti anche
per… lo sai, per avermi tirato fuori dal lago e aver salvato
Artù».
Cathleen gli sorrise, dandogli un leggero colpo d’anca.
«Non hai niente di cui ringraziarmi: una promessa
è una promessa. Piuttosto, come ti sembra stia reagendo Alex
al bracciale?».
«Magnificamente». Merlino sollevò lo
sguardo e oltre la finestra guardò Alex e Artù
esercitarsi al tiro con l’arco. «È
tornata la solita Alex di sempre, il che vuol dire che il bracciale sta
facendo il suo lavoro».
«Però?», lo incalzò il
paramedico, asciugandosi le mani su uno straccio ed incrociando le
braccia al petto.
Lo stregone sospirò. «Però temo che il
fatto che stia meglio l’abbia convinta ancora di
più a tenere segreta la sua fonte magica».
«Hai un piano?».
«In realtà sì, ce
l’ho». Lasciò il coltello sul tagliere e
posando entrambe le mani sul bordo del piano da lavoro sorrise
amareggiato, guardando Alex alle prese coi festeggiamenti dopo aver
scoccato una freccia che aveva centrato perfettamente il proprio
bersaglio.
«Da quando siamo diventati una coppia io non sono mai andato
a dormire a casa sua», iniziò a spiegare.
«All’inizio pensavo fosse solamente
perché se Artù avesse scoperto che non
c’ero si sarebbe insospettito, ma poi ho cominciato a pensare
che forse il vero motivo per cui non mi vuole è
perché…».
«Perché è lì che tiene la
fonte», concluse Cathleen per lui, accarezzandosi le labbra
con il pollice. «Hai intenzione di entrare in casa sua per
cercarla».
Merlino annuì, passandosi le mani sul viso stanco.
«Alex non mi perdonerebbe facilmente, se dovessi tradire in
questo modo la sua fiducia. Più di quanto io non abbia
già fatto con il bracciale di Morgana. Se lo facessi
davvero… rischierei di rovinare tutto ciò che
abbiamo».
Cathleen rimase per qualche secondo in silenzio, meditabonda. Poi
sorrise e gli posò una mano sulla spalla, stringendola
appena.
Il mago la osservò stupito, rendendosi conto che con lei era
stato così facile esternare i dubbi che lo dilaniavano da
un’intera settimana, al contrario di tutte le volte in cui ci
aveva provato con Artù ed aveva fallito.
«Lo faremo insieme», gli disse in tono
rassicurante. «Alex non potrà allontanarci tutti e
alla fine capirà che l’abbiamo fatto per il suo
bene».
Merlino abbozzò un sorriso e ricambiò il saluto
di Alex, la quale approfittando della distrazione di Artù si
era voltata per soffiargli un bacio.
«Grazie, Cath», mormorò, gli occhi
lucidi di commozione.
«È a questo che servono gli amici, no?».
«Alex è fortunata ad averti».
«Non mi riferivo solo a lei».
Merlino si voltò a fissarla, colpito da un
déjà-vu. Decise però di rimanere in
silenzio e dopo averle rifilato a sua volta un leggero colpo
d’anca tornò a tagliare le sue verdure.
***
Baqi osservò il proprio riflesso sulla teca che proteggeva
la preziosa corona ritrovata al galà di beneficienza di
Windsor, poi, sbuffando, raddrizzò la schiena.
Uscì dal museo a mani vuote, ma ancora pieno di speranze:
niente avrebbe scalfito la sua determinazione e in un modo o
nell’altro sarebbe andato fino in fondo alla faccenda, anche
a costo di ritrovarsi senza un penny. (E secondo sua sorella sarebbe
accaduto presto).
Con la borsa a tracolla che gli sbatteva sul fianco, si
fermò ad un Caffè Nero e con il proprio
bicchierone d’asporto si diresse nuovamente verso la
stazione. Mentre aspettava il treno, chiamò proprio Hala.
«Pronto?».
«Ciao, sono io. A che punto sei con i preparativi?».
«Ho finito adesso. Spero solo di essermi ricordata tutto. Tu
hai qualche novità?».
«No, nessuna».
«L’ennesimo buco nell’acqua. Che ti avevo
detto, Baqi?».
Il gemello alzò gli occhi al cielo nuvoloso ed
iniziò a farle silenziosamente il verso, prevedendo con
assoluta precisione tutto ciò che gli avrebbe detto.
All’improvviso Hala si interruppe ed infastidita disse:
«Mi stai facendo il verso, non è così?
Baqi… Te lo dico per il tuo stesso bene:
dimenticatene».
«Non posso, io… Non ce la faccio! Questa cosa
potrebbe cambiarmi la vita e fino a quando non le avrò
provate tutte non mi fermerò!».
«Senti, perché non vieni con me dalla signora
Chapman? Anche solo per un paio di giorni, per cambiare aria».
«Non servirà a niente, Hala. Ora, se non hai
nient’altro per cui rimproverarmi…».
«Potresti venire a fare qualche foto all’ospedale
in via di ristrutturazione grazie alla donazione del Principe William.
Potresti persino intervistare le infermiere che c’erano quel
giorno, scrivere un pezzo per il giornale…».
«Ti ho già detto che non sono interessato. Ci
vediamo tra poco».
Baqi terminò la telefonata senza nemmeno ascoltare le ultime
parole di sua sorella, parole che sarebbero state comunque sovrastate
dallo sferragliare del treno in arrivo.
***
Abigail strinse più forte la mano della nonna,
inconsapevolmente, mentre si schiariva la gola per chiedere
all’infermiera che le stava servendo il pranzo:
«Quanto ci vuole ancora per gli esiti degli esami?».
«Lo sai che ci vogliono almeno un paio di giorni,
tesoro».
«Sono passati, un paio di giorni».
L’infermiera le sorrise gentilmente, accarezzandole i
capelli. «Arriveranno quando arriveranno».
«Grazie», borbottò la ragazzina quando
la donna si fu allontanata per servire altri tavoli.
Sua nonna ridacchiò, accarezzandole il dorso della mano.
«C’è qualcosa che ti preoccupa, amore
mio, ma non ce n’è bisogno».
«Non puoi saperlo, nonna. Se questi esami sono andati
male…».
«Se sono andati male, faremo in modo che la prossima volta
vadano bene. Ce la caveremo, ne sono sicura».
Abby sorrise, giocando col purè nel proprio piatto.
«Grazie, nonna. Anche per essere rimasta, nonostante il tuo
agente ti faccia pressioni per il libro. Significa molto per
me».
«Il mio agente può anche andare al diavolo, lo
sai. E poi sento terribilmente la tua mancanza a casa».
«Pensavo che Hala e Baqi ti tenessero compagnia».
«Oh sì, i gemelli rendono viva quella vecchia
catapecchia, ma non sono come te». Le accarezzò
una guancia e senza alcun motivo ridacchiò.
«Che c’è?», le chiese Abigail,
voltandosi per seguire la direzione del suo sguardo. Non appena i suoi
occhi incrociarono quelli di Mark, il ragazzino li abbassò
sul proprio piatto, imbarazzato.
«A proposito dei gemelli… Vado a chiamare Hala per
sapere a che ora arriverà», esclamò sua
nonna, facendole l’occhiolino.
Abby arrossì e la guardò uscire dalla mensa, poi
si voltò di nuovo verso Mark e con un cenno del capo lo
invitò a raggiungerla. Lui non se lo fece ripetere due volte
e con il solo piatto di pasta e la forchetta sulle gambe la raggiunse.
«Dici che tua nonna se n’è
accorta?», le domandò subito, vergognosamente.
Abby annuì, trattenendo a stento le risate. Quindi
allungò le mani verso di lui e lasciò che gliele
stringesse, riscaldandole piacevolmente.
«Mi vuoi dire che cosa ti prende?», le
domandò alla fine. «È da Pasqua che ti
comporti in modo strano e ogni volta che provo a chiederti qualcosa
cambi argomento. Cosa mi nascondi?».
«Niente, Mark. Sul serio».
Il ragazzino scosse il capo, le sopracciglia inarcate. «Non
so più come dirtelo, Abby: non me la bevo».
Abigail sospirò e ritirò le mani per unirle in
grembo, dove iniziò a torturarsi il bordo della maglietta.
«In queste ultime settimane mi sento più stanca
del solito e ho… ho paura che gli esami di controllo mi
dicano qualcosa che non voglio sentire».
«Esami di controllo? Quando li hai fatti? Perché
non ne sapevo niente?».
Mark era furioso e Abby avrebbe voluto essere nel suo letto, con le
coperte tirate fin sopra alla testa.
«Non volevo che ti preoccupassi».
«
Preoccuparmi?
Abby, stai per caso dicendo che potresti…?».
«Non lo so, Mark!», urlò, attirando su
di sé l’attenzione di tutta la mensa.
«So solo che tu pensi sempre al peggio, è sempre
stato così! Sei fatto così! E se ti avessi detto
degli esami e delle mie paure, tu non saresti stato in grado di
aiutarmi! Anzi, avresti soltanto peggiorato la situazione!».
Aveva i polmoni che le dolevano e la gola che le bruciava a causa del
magone. Con la morte nel cuore e la voce tremante, concluse:
«Mi dispiace, ma non volevo finire per consolarti. Non questa
volta».
Abbassò lo sguardo e nonostante non avesse toccato cibo
uscì dalla mensa, diretta verso la propria stanza, dove
avrebbe pianto fino a non avere più lacrime.
***
«Grazie per il pranzo, era tutto buonissimo»,
esclamò Alex, alzandosi per impilare i piatti vuoti da
portare in cucina.
Merlino però le strinse il braccio e scosse il capo,
dicendo: «Lascia stare, faccio io».
«Dai, tu e Cathleen avete cucinato, ora tocca a me e ad
Artù dare una mano».
«Ehi, non mi mettere in mezzo!», si tirò
fuori il re di Camelot, alzandosi per dirigersi in salotto, dove si
spaparanzò sul divano, col telecomando in mano.
Tutti risero di fronte al suo comportamento regale e così
furono Alex e Merlino a sparecchiare. Soli in cucina, lontani dallo
sguardo del biondo, distratto anche da Cathleen, riuscirono persino a
scambiarsi un bacio.
«Fingi che la tua auto non parta, così
sarò costretto ad accompagnarti a casa. Che ne
dici?», le chiese il mago, sporgendosi per accarezzarle il
collo con le labbra, baciandolo e mordendolo lungo la linea della
mandibola.
«Mi stai proponendo una sveltina? Questo non me lo sarei mai
aspettata da te, Merlino», rispose con un sorriso incerto,
scostandosi. «Ad ogni modo non credo si possa fare.
L’allenamento di questa mattina mi ha distrutta ed
è meglio che mi faccia una dormita: ho il turno di
notte».
«Va bene, sarà per la prossima volta».
«Certamente», mormorò rubandogli un
altro bacio.
In quel momento sentirono Artù avvicinarsi e quasi si
ignorarono, riprendendo a sciacquare i piatti e ad infilarli nella
lavastoviglie.
«Ho ancora un buco…», disse il re del
passato e del futuro – più che a se stesso che a
loro – aprendo le ante dell’armadietto in cui
c’erano tutte quelle cose non proprio salutari che a lui
piacevano tanto.
«So io a che cosa dovrò fare un buco, se continua
così», sussurrò Merlino ad Alex, ma
abbastanza ad alta voce perché Artù lo sentisse e
gli tirasse addosso la prima cosa che gli capitò sotto tiro:
un portafrutta di legno quasi vuoto.
L’infermiera però agì puramente
d’istinto e fu più veloce: le sue iridi si tinsero
d’oro e il portafrutta si incenerì prima che
potesse colpire Merlino. Un mucchietto di cenere sul pavimento fu tutto
ciò che ne rimase.
Ci fu un momento di profondo silenzio, così profondo che
Alex si sentì un mostro ed ebbe voglia di scappare via. Ad
un tratto però Merlino le prese le mani, cercando qualcosa
che lei non scorse, e poi si concentrò sui suoi occhi per
esaminarli uno alla volta, come un vero dottore.
«Dimmi come ti senti», le ordinò.
«Io… Bene, credo. Era da tanto che non riuscivo ad
usarla».
Non avrebbe dovuto dirlo, Alex se ne rese conto troppo tardi e si morse
la lingua di fronte all’espressione furiosa di
Artù.
«Stai dicendo che hai
provato
ad usarla? Per quale stupido motivo avresti dovuto?», le
urlò contro, sotto gli occhi sgranati di Cathleen.
«Volevo esercitarmi, volevo riuscire a controllarla per
potervi aiutare! Ma da quando l’ho usata per risvegliare
Merlino non ci sono più riuscita, non so
perché».
Artù aprì la bocca per rimproverarla ancora, ma a
quel punto sia Cathleen che Merlino gli fecero segno di stare zitto.
Lo stregone la fece sedere e si inginocchiò di fronte a lei,
accarezzandole ancora le mani.
«Quello che voleva dire Artù è che non
è saggio usare la magia senza qualcuno che ti guidi.
Potresti ferirti seriamente».
«Allora guidami, Merlino. Ti supplico».
Merlino la fissò intensamente, poi posò gli occhi
in quelli di Artù, il quale gli rivolse uno sguardo tra il
minaccioso e l’impaurito.
Alla fine disse pacatamente: «Ci
penserò».
Artù provò ancora una volta a dire la sua
– e probabilmente avrebbe detto che Merlino era un pazzo
scriteriato – ma di nuovo Cathleen glielo impedì,
tappandogli la bocca con una mano e trascinandolo in salotto.
«Avresti dovuto dirmelo», disse Merlino non appena
furono soli, alzandosi per darle le spalle.
«Lo so. Lo so, ma sapevo che ti saresti arrabbiato e
così…».
«Io non sono arrabbiato, sono deluso. Deluso che tu non mi
ritenga degno di sapere che cosa ti succede. Forse è questo
il vero motivo per cui non vuoi sposarmi».
«Che cosa stai dicendo?».
«La verità è che non vuoi condividere
tutto con me. Ma lo capisco, anche io ho dei segreti, cose che
riguardano il mio passato e che probabilmente non saprai mai. Ma qui si
tratta del tuo presente… del nostro futuro».
Alex si alzò e lo abbracciò da dietro, affondando
il viso tra le sue scapole appuntite. Ogni volta che le guardava le
sembravano sempre sul punto di bucare la pelle tesa per lasciar spazio
ad un paio di ali d’angelo. E forse era così,
forse Merlino era davvero un angelo: il suo, costantemente impegnato a
proteggerla.
Non sapeva che cosa dire e non riusciva a dire quello che avrebbe
dovuto confessargli, perciò rimase in silenzio. Rimasero
così per parecchio tempo, fino a quando Merlino non si
voltò e la costrinse a guardarla negli occhi.
«Io ti amo, Alexandra Greenwood-Pendragon. Darei la mia vita
per te e tutto quello che faccio è per il tuo bene. Non
dimenticarlo mai».
Le posò un bacio sulla fronte e le diede di nuovo le spalle,
aggiungendo: «Credo che ora dovresti andare a riposarti per
il turno».
Alex annuì con un cenno del capo e senza aprire bocca
uscì dalla cucina ed attraversò il salotto, sotto
gli sguardi di Cathleen e Artù.
Saltò in auto e sfrecciò verso casa senza nemmeno
accendere la radio.
Era alla porta, alla ricerca delle chiavi, quando sentì il
proprio cellulare suonare. Se lo portò
all’orecchio e rispose distrattamente.
«Ciao Alex, sono Keith».
«Qualsiasi cosa sia, non è un buon
momento».
«Scusami, è solo che una collega del ricevimento
mi ha detto che è venuta di nuovo quella ragazza che chiede
sempre di te».
«Come? Questa è già la terza volta!
Secondo me si confonde… Da come me l’hanno
descritta, non credo di conoscerla».
«Beh, volevo solo avvisarti».
«Grazie, Keith. Ci vediamo».
Chiuse la chiamata e finalmente riuscì a trovare le chiavi.
Un fruscio alle sue spalle le fece rizzare le orecchie e si
girò, ma non vide nessuno. Probabilmente si trattava solo di
un gatto randagio, o dell’uccellino che aveva fatto il nido
tra le sue rose.
Entrò in casa, liberandosi subito del giubbotto e delle
scarpe.
Una volta in camera si gettò sul letto, affondando il viso
nel cuscino. Quando riaprì gli occhi, al proprio polso vide
il braccialetto coi motivi floreali che le aveva regalato Merlino.
«Apparteneva
ad una principessa bella e di buon cuore, proprio come te».
Sentendo di non meritarselo, se lo tolse e lo posò sul
comodino. Continuò a fissarlo fino a quando il sonno non le
fece chiudere gli occhi alle lacrime.
Nel suo giardino, dietro ai cespugli di rose, Freya osservava la
finestra della sua camera da letto e sorrideva.
***
«Credo che dovresti andare a parlare con Merlino»,
gli disse Cathleen, posando la guancia sulla sua spalla.
Artù la guardò con la coda dell’occhio
e capì che aveva ragione, come sempre. Raramente le donne
con cui aveva a che fare non l’avevano: anche Ginevra era
sempre stata la luce sul suo cammino, la guida che con gentilezza lo
aveva portato a prendere molte decisioni sensate.
Fu Merlino però ad andare da loro. Con ancora lo straccio
umido tra le mani, si lasciò cadere sulla poltrona e
sospirò con un braccio a coprirgli gli occhi.
«Lo faremo questa notte», esordì in tono
lugubre.
«Che cosa?», chiese Artù, arricciando il
naso: sentiva puzza di guai.
«Merlino vuole entrare in casa di Alex mentre lei non
c’è per cercare la fonte magica che sta tenendo
nascosta a tutti noi», gli spiegò Cathleen.
Per qualche istante Artù non riuscì a formulare
una frase di senso compiuto, spiazzato. Poi riuscì a stento
a trattenere la rabbia, digrignando: «Che piano è
mai questo? E tu come fai a saperlo?».
«Mi ha accennato qualcosa prima, mentre preparavamo il
pranzo. Ma non è importante, Artù». Gli
prese il mento tra le dita per guardarlo fisso negli occhi.
«Dobbiamo farlo per Alex, per la sua sicurezza».
«Non possiamo più aspettare», intervenne
il mago, massaggiandosi il viso. «Avete visto che
cos’ha fatto al mio portafrutta…».
«A proposito, come ci è riuscita?»,
chiese Artù. «Indossava il bracciale!».
Merlino sospirò, scuotendo il capo. «Non lo so,
forse sta perdendo di efficacia. Oppure, ancora peggio, la magia che
sta assorbendo è così potente da riuscire a
neutralizzarne gli effetti».
«Però hai sentito che cos’ha detto? Ha
detto che nonostante ci provasse, non è riuscita ad
utilizzare i suoi poteri prima di oggi», fece notare
Cathleen. «Questo che cosa potrebbe significare?».
Merlino rimase in silenzio con le mani unite di fronte al naso,
pensieroso, fino a quando non mormorò, con sguardo
spiritato: «È stato istintivo, emotivo…
Aveva una ragione ben precisa per evocare la magia: proteggere me. E
questo l’ha resa così potente da infrangere la
barriera creata dal bracciale».
«Tipo una scossa di adrenalina», disse Cathleen.
«Sì, ha senso».
Artù si alzò improvvisamente dal divano e si
diresse verso la mensola del grande camino, dicendo:
«Premettendo che per me niente di tutto questo
ha senso, possiamo
tornare al pessimo piano di Merlino? Come fai ad essere così
sicuro che la fonte magica sia a casa sua?».
Merlino e Cathleen si guardarono e Artù si sentì
ancora una volta l’escluso del gruppo, ma non fece in tempo a
farlo notare che il paramedico rispose: «È
semplicemente l’unico posto in cui Merlino non ha ancora
guardato. E poi sarebbe logico: anche io, se trovassi un qualcosa da
cui non vorrei mai separarmi, me la terrei sempre a portata di
mano».
«Cath ha ragione», l’appoggiò
Merlino.
Artù incrociò le braccia al petto, scrutandoli.
Non capiva perché all’improvviso quei due
andassero d’amore e d’accordo, ma non era il
momento adatto per occuparsi della questione: Alex aveva la
priorità su tutto.
«Va bene», esclamò arrendevolmente.
«Supponiamo che la fonte magica sia a casa di Alex. Come
facciamo ad entrare? E che ne facciamo quando la troviamo? Insomma, non
sappiamo nemmeno cos’è!».
Il silenzio cadde su di loro. Come aveva sempre sostenuto, i piani di
Merlino si rivelavano sempre fallimentari. Per questo se ne occupava
lui.
Fu proprio lo stregone però a parlare per primo, dopo
essersi schiarito la gola con un colpetto di tosse.
«In realtà io un’idea ce
l’avrei».
Artù sgranò gli occhi, incredulo alle proprie
orecchie. Spalancò le braccia e con tono sarcastico disse:
«Oh, molte grazie per averci messi subito al
corrente!».
«Non ne sono sicuro al cento percento, ma...».
«Dillo e basta, Merlino».
«Non vi piacerà… non vi
piacerà affatto».
«Merlino!».
«Excalibur!», gridò, alzandosi per
guardarlo dritto negli occhi. «Penso che ad Avalon Alex abbia
trovato Excalibur!».
Non c’erano parole per descrivere lo stato di shock in cui
Artù era piombato. Il fatto che Alex avesse trovato la spada
che era stata forgiata per lui la rendeva la sua più
importante discendente, ma anche colei che avrebbe dovuto sopportarne
il peso quasi insostenibile, un peso che gravava sull’anima
piuttosto che sulla mano con cui la si impugnava.
Ancora una volta fu Cathleen a riportarlo alla realtà,
rigorosamente a modo suo.
Seduta ancora sul divano, allungò le gambe fino ad
incrociare i piedi sul tavolino e si portò le mani dietro la
nuca, sogghignando: «Non so nemmeno come riuscivo a non
annoiarmi prima di conoscervi».
***
Erano state solo un paio d’ore di viaggio, tuttavia le erano
sembrate infinite. Era preoccupata per Baqi, preoccupata che in sua
assenza si ficcasse in guai ben più grandi di quelli con cui
aveva a che fare di solito.
Non si erano mai divisi per più di mezza giornata,
specialmente da quando i loro genitori li avevano cacciati fuori di
casa perché si erano ribellati alle regole ferree della loro
religione, e forse – al contrario di ciò che
pensava – era proprio Hala a non essere pronta a stare
lontana da lui.
La ragazza scese dal taxi e dopo essersi guardata un po’
intorno entrò nell’ospedale.
All’accettazione chiese indicazioni per il reparto oncologico
e una volta ottenute si diresse verso l’ascensore.
Non era una grande fan degli spazi ristretti, così come non
lo era degli ospedali, perciò pregò Dio, Allah e
tutti i suoi cugini perché non dovesse assistere ad una di
quelle scene da film, con tanto di rianimazione od operazione
d’emergenza. Ma fu proprio lì che lo
incontrò, l’amore della sua vita.
«Aspetta, aspetta!».
Hala si gettò tra le porte dell’ascensore, anche
col rischio di farsi male, per far sì che
quell’angelo sceso in terra, col camice bianco che gli
svolazzava alle spalle, le facesse compagnia in quel box di metallo.
Una volta al suo fianco la ringraziò, rivolgendole il
più bel sorriso che avesse mai visto.
«Grazie a te per onorarmi della tua visione»,
avrebbe voluto rispondergli, ma per fortuna le sue corde vocali si
erano attorcigliate l’una con l’altra.
Quando le porte si chiusero, Hala respirò profondamente per
annusare il suo profumo: nulla di troppo forte, solo un leggero accenno
di dopobarba al pino silvestre. Come piaceva a lei.
«Sei in visita a qualcuno?», le chiese il dottore,
indicando il trolley che aveva abbandonato in un angolo.
Hala annuì e si schiarì la gola.
«Nipote».
«Non l’avrei mai detto: sei giovane per avere una
nipote».
«No, non è mia, la nipote. Beh, quasi. Si tratta
di Abigail Reed, la conosce?».
Lui la fissò con i suoi ipnotici occhi grigio-azzurri, messi
ancora più in risalto dalla sua carnagione mulatta.
«È per caso una ragazzina con i capelli castani e
gli occhi scuri?».
«In carne ed ossa», rispose Hala, riuscendo
finalmente a ricambiare il sorriso.
«Sì, la conosco di vista. Leucemia,
giusto?».
Annuì mestamente, ricordando la conversazione che aveva
avuto con la signora Chapman prima che la invitasse a raggiungerla:
Abby aveva chiesto alla nonna di prolungare la sua permanenza in
ospedale fino a quando non avrebbe ricevuto gli esiti degli esami di
controllo, e visto che questo non era mai successo prima
d’ora (semmai era stato il contrario), le
possibilità che non prevedesse buone notizie erano alte.
«È la prima volta che vieni qui?», le
chiese ancora, dopo qualche lungo istante di silenzio.
O quell’ascensore era molto lento, o il tempo lì
dentro scorreva in modo diverso.
«A dire la verità sì. Mi hanno detto
che devo andare al quarto piano, ma...».
«Io stavo andando giusto da lei; ti accompagno».
Hala sentì il rossore iniziare ad impadronirsi del suo viso
e cercò di combatterlo, con ben scarsi risultati.
«Grazie, è... è molto gentile da parte
sua».
«Dammi pure del tu».
Le porte si aprirono sul quarto piano quando il dottore le porse una
mano e, sorridendo, si presentò: «Mi chiamo
Keith».
«Hala».
Il dottore sorrise e per la prima volta nella vita di Hala non fece
commenti né domande sul suo nome. Uno dei tanti motivi per
cui, nonostante tutta la fredda razionalità che aveva sempre
sostenuto di avere, iniziò ad innamorarsi perdutamente di
lui.
***
Abigail si asciugò le guance con una mano quando
sentì la porta della sua camera aprirsi per far entrare i
rumori di un lento pomeriggio in ospedale.
«Nonna, davvero... vorrei restare un po’ da
sola», mugugnò, tirando su col naso.
Ma la persona che si era seduta sul bordo del suo letto non era sua
nonna, e lo capì grazie alla delicata carezza con cui le
sistemò le coperte. Si voltò supina e
riuscì persino ad abbozzare un sorriso, incrociando gli
occhi azzurri di Merlino, dolci e rassicuranti, due fari luminosi nel
bel mezzo della semi-oscurità che regnava nella sua stanza a
causa del brutto tempo e delle tapparelle abbassate.
«Non c’era bisogno che venissi», gli
disse, massaggiandosi ancora una volta gli occhi umidi di lacrime.
«Invece credo proprio di sì. Non sarò
bravo a dispensare consigli come Alex, ma ci provo. E se non dovessi
riuscire a tirarti su di morale, posso sempre mandarti
Artù».
Abby rise di fronte all’espressione ammiccante di Merlino, al
quale tirò un pugnetto sulla spalla per farlo smettere.
«Tu e Alex avete litigato? È per questo che
è irreperibile?», gli domandò, sperando
che si dimenticasse di quello che gli aveva accennato al cellulare.
Merlino sospirò, gettando un’occhiata al soffitto.
«Non è stato proprio un litigio... Semplicemente
su alcune cose non la vediamo allo stesso modo».
«Già... Conosco la sensazione»,
mormorò. Poi si sforzò di sorridere, esclamando:
«Comunque ero sicura che alla fine vi sareste messi insieme:
siete fatti l’uno per l’altra!».
Il moro le rivolse un’occhiata eloquente, prendendole una
mano tra le sue. «Credi che non abbia capito che cosa stai
facendo? Sono venuto qui per te, non per parlare della mia relazione
con Alex».
Abigail sbuffò e il desiderio di piangere la travolse di
nuovo, con la forza di un’onda anomala.
«È tutto così difficile... Sto
iniziando persino a pensare che Mark aveva ragione, quando diceva che
stando insieme avremmo sofferto il doppio se uno dei due...».
«Qual è il problema, Abby?».
«Io ho paura che...». Deglutì il magone
che le bloccava la gola, abbassando gli occhi.
Merlino diede una strizzatina alla sua mano, così piccola e
fredda, attirando nuovamente la sua attenzione. Il sorriso sul suo viso
la colpì, perché era un sorriso che non gli aveva
mai visto ma che in qualche modo gli calzava a pennello: consapevole,
empatico, quasi saggio.
«Temi una recidiva», le disse, spiazzandola
completamente.
Con gli occhi sgranati, Abby non riuscì a trattenersi:
«Come fai a saperlo?».
«Ho notato gli stessi cambiamenti che hai notato tu,
suppongo», rispose con gentilezza, scrollando le spalle.
«Ti stanchi più facilmente, mangi poco
perché hai la nausea, controlli sempre che le maniche dei
maglioncini ti coprano bene fino al polso...».
Abby gli mostrò le petecchie sulle braccia, tornate
all’improvviso nel bel mezzo della terapia. Con gli occhi
colmi di lacrime e la voce non proprio ferma, disse: «Io non
voglio pensare al peggio».
«E non devi», sussurrò il moro,
avvicinandosi a lei per stringerle delicatamente il viso tra le mani.
«Ascoltami: non puoi saperlo per certo, è inutile
che ti disperi ora. E sarà inutile anche disperarsi dopo,
nel caso in cui i tuoi sospetti siano fondati: potrai ancora lottare,
Abby, e ce la farai. Ne sono certo».
«Ho trattato malissimo Mark»,
singhiozzò, posando il capo nell’incavo della sua
spalla. «Gli ho detto che non volevo consolarlo questa volta,
che lui pensa sempre al peggio e non avrebbe potuto aiutarmi».
«Ehi... Ehi, è tutto okay»,
cercò di tranquillizzarla, massaggiandole la schiena.
«Sistemeremo tutto, te lo prometto. Artù si sta
occupando di lui».
Abigail alzò di scatto la testa, atterrita.
«Artù
cosa?».
***
Al ritmico bussare alla porta, Danilo gettò
un’occhiata verso Mark, profondamente immerso nel gioco della
PS Vita con cui stava scaricando un po’ di tensione
– aveva assistito a ciò che era successo tra lui e
Abigail in mensa e poteva immaginare che di tensione da scaricare ne
avesse a palate – crivellando di buchi i propri nemici. Era
ovvio che non aspettava visite. E anche se fossero state visite a
sorpresa, non le avrebbe gradite.
Danilo sospirò stancamente e si spinse giù dal
letto per scivolare nella propria sedia a rotelle. Quindi
andò alla porta e l’aprì di scatto,
facendo spaventare il ragazzo dall’altra parte, proteso per
captare i rumori provenienti dall’interno.
«Guarda un po’ chi c’è... Il
re di Camelot in persona», esclamò divertito.
Artù lo fissò con cipiglio perplesso, incerto se
lo stesse silenziosamente prendendo in giro o facesse sul serio. Alla
fine borbottò: «Ex re, a voler essere
precisi».
Ma il ragazzino non parve sentirlo e disse ancora: «Il che mi
ricorda che non ti ho ancora ringraziato come si deve! Sto mangiando
doppia razione di dessert grazie a te!». Protese un pugno in
avanti, aspettandosi che il biondo lo colpisse col proprio; tutto
ciò che ottenne però fu un’occhiata
confusa.
«Ma che problemi hai,
bro?»,
gli domandò stizzito, per poi aggiungere:
«Perché sei qui?».
Artù ignorò volontariamente il suo tono
sfrontato, nonostante nel giro di due minuti quel ragazzino fosse
riuscito a fargli saltare i nervi, e spiegò il motivo della
sua presenza: «Volevo chiedere udienza a Mark».
«Tu vuoi...?». Danilo deglutì,
scioccato. Quando si riprese, alzò le mani in segno di resa
e si voltò per poter urlare in direzione di Mark:
«Ehi, lo schizzato è tutto tuo!».
Il ragazzino alzò gli occhi dalla Play Station e si
pietrificò quando vide il proprio compagno di stanza
dileguarsi, lasciandolo da solo con Artù, il ragazzo che
Merlino aveva usato come modello per i suoi disegni; lo stesso ragazzo
di cui Abby era una profonda ammiratrice – l’aveva
persino definito sexy, una volta! – e che Mark odiava proprio
per questo motivo.
Mise in pausa il gioco, sperando che si trattasse di una cosa breve, e
si tolse le cuffie dalle orecchie.
«Ciao Mark», lo salutò il biondo, dopo
essersi chiuso la porta alle spalle.
«Che cosa vuoi?».
«Se fosse stato per me, non sarei qui ora. Ma Merlino ha
insistito perché facessi almeno un tentativo».
«Non ti seguo».
Artù prese la sedia addossata al muro accanto alla porta e
la portò vicino al letto del ragazzino; quindi si sedette
con le braccia incrociate sullo schienale e le gambe divaricate.
«Abby non è riuscita a contattare Alex e
così ha chiamato Merlino. Era piuttosto scossa».
«Sì, beh, non so cosa vi abbia detto, ma
io...», iniziò a dire, senza nemmeno sapere dove
lui stesso sarebbe andato a parare. Comunque Artù lo
interruppe, alzando una mano e guardandolo severamente.
«Merlino è con lei, al momento, e mi ha mandato
qui a parlare con te».
Mark lo fissò fino a quando il biondo non abbassò
la mano, dandogli il permesso di contribuire alla conversazione. E
tutto quello che disse fu: «Tu e Merlino siete
pazzi».
Dopo un minuto di pausa, infastidito dal silenzio e dallo sguardo fisso
di Artù, aggiunse: «Di che cosa dovremmo parlare,
eh? Della ragazza che amo e che probabilmente non metterà
più piede fuori da quest’ospedale? Del fatto che
la mia teoria era fondata? No, grazie. E se anche ci fosse una remota
possibilità che io dica ad alta voce come mi sento in questo
momento, nessuno capirebbe».
Artù scrollò le spalle, sogghignando.
«Sei un tipo da scommesse, vero? Beh, che ne dici di questa?
Se io ti dico come ti senti in questo momento, tu mi dai
l’affare a cui sei sempre attaccato», disse
indicando con un cenno del mento la PS Vita che aveva in grembo.
«Se mi sbaglio… puoi chiedermi tutto quello che
vuoi».
Mark era così infuriato che le nocche sui propri pugni
divennero bianche. «Ma chi cazzo ti credi di essere, eh? Sei
davvero uno schizzato».
«Abbiamo un patto oppure no?».
«Patto sia!».
«Ottimo!». Artù si alzò, con
un sorriso già vincente sul viso, e si portò ai
piedi del letto di Mark, con le mani strette intorno alle sbarre su cui
scorreva il vassoio-tavolino.
«Ti senti inutile, spezzato, devastato, perché la
ami più di ogni cosa e non puoi immaginare di passare anche
un solo giorno di questa vita senza di lei. Vorresti poter far
sbocciare di nuovo il sorriso sul suo volto, vorresti poterla farla
ridere, ma hai perso ogni speranza. Pensi di non essere abbastanza
forte per te stesso, figuriamoci per entrambi. Faresti di tutto per
lei, qualsiasi cosa, ma sei anche convinto che la vita non è
una favola e che per voi non ci potrà mai essere il lieto
fine».
Il silenzio cadde su di loro, un silenzio così pesante che
Mark sentì il proprio cuore battere furiosamente nella cassa
toracica. Abbassò gli occhi umidi di lacrime,
vergognosamente, e con uno sforzo si allungò verso
Artù per porgergli la Play Station. Sapeva riconoscere la
sconfitta.
Il biondo più che stringere le mani intorno alla console le
strinse intorno a quella di Mark, il quale sollevò gli occhi
e fece una smorfia perché non sarebbe riuscito a trattenersi
ancora a lungo: alla fine, avrebbe pianto di fronte ad un estraneo.
«Ora capisci perché Merlino mi ha mandato qui? Noi
due siamo simili, Mark. So come ti senti perché ci sono
passato».
«E com’è andata a finire?»,
gli domandò, tirando su col naso.
Artù sorrise dolcemente, ricordando gli occhi di Ginevra,
luminosi e pieni di amore la prima come la seconda volta in cui le
aveva chiesto di diventare sua moglie.
«Che tu ci creda o no, abbiamo avuto il nostro lieto
fine», disse, liberandolo dalla propria stretta per potersi
sedere al suo fianco sul letto. «Se c’è
una cosa che Merlino è stato in grado di insegnarmi
è proprio questa: l’amore vero è
più forte di qualsiasi cosa, è in grado di
mantenere sempre viva la speranza. E anche se fa male non
può essere accantonato, ignorato, tantomeno rinnegato.
Perciò lotterai fino a quando avrai respiro, e scoprirai che
ci riuscirai, che troverai la forza e il coraggio necessari,
perché semplicemente non puoi arrenderti».
Mark scrutò quegli occhi blu come il mare, ardenti di vita
eppure anche spenti, risucchiati in un passato che sembrava
irrecuperabile ormai. Quindi gli porse la mano in segno di gratitudine:
avrebbe lottato per Abby, lo avrebbe fatto fino alla fine dei suoi
giorni.
Artù gli afferrò l’avambraccio e lo
strinse, sorridendo soddisfatto. «Va’ da lei,
su».
Mark ricambiò lo sguardo con determinazione e scese dal
letto per recuperare la propria sedia a rotelle. Sulla porta della
stanza, si voltò un’ultima volta verso
Artù, ancora seduto sul suo letto.
«Come si chiamava l’amore della tua
vita?».
Artù abbassò il capo, mordendosi un sorriso
consapevole. Quando rialzò gli occhi rispose con fierezza,
pronunciando il suo nome con tenerezza e devozione:
«Ginevra».
Mark scosse il capo, ridacchiando. «Certo, che domanda
stupida».
Il re di Camelot lo salutò con un cenno del capo e quando se
ne fu andato si alzò per andare alla finestra: il tempo non
prometteva nulla di buono, anzi… sembrava che il cielo si
stesse preparando per una tempesta coi fiocchi. Eppure eccolo
là il suo raggio di sole: seduta sull’altalena nel
bel mezzo del parco, Cathleen si fumava una sigaretta con un sorriso
sereno sulle labbra, e tutta la malinconia svanì guardandola.
***
Merlino uscì dalla camera di Abby proprio quando Mark
fermò la propria sedia a rotelle davanti alla porta. Si fece
da parte e guardò i due ragazzini alzarsi in piedi e
corrersi incontro sulle proprie gambe: un’immagine da un
significato così profondo, quasi sacro, che gli
scaldò il cuore.
«Non ti lascerò andare, non lo
permetterò», sussurrò Mark,
accarezzandole i capelli sulla nuca.
Quando fu in grado di distogliere lo sguardo e scacciare via la
malinconia causata dalla semplicità dei loro sentimenti, una
semplicità che lui e Alex per varie ragioni non avrebbero
mai avuto, trovò sei paia di occhi ad attenderlo: quelli
della nonna di Abby, la signora Chapman; quelli di Keith e quelli di
una ragazza che non conosceva, dalla pelle olivastra, con dei magnetici
occhi ambrati e i capelli neri, lunghi fino alle spalle e un
po’ scompigliati.
Quest’ultima lo fissava come se avesse appena visto un
fantasma, un misto tra l’incredulo e l’atterrito.
Provò ad accennarle un sorriso, ma la sua espressione
scioccata non mutò. Così la ignorò e
basta, rivolgendosi a Keith: «Dottor Ellis, come mai al
quarto piano?».
«A Pasqua ho incrociato Abigail e volevo solo vedere come se
la passava. Inoltre in ascensore ho conosciuto Hala,
la…».
«La mia figlioccia», specificò la
signora Chapman, sorridendo.
«E visto che non era mai stata qui l’ho
accompagnata».
«Sì, infatti non mi sembra di averla mai vista da
queste parti. O mi sbaglio?», le chiese, ricambiando il suo
sguardo ora con durezza, insospettito dal suo comportamento. Il sesto
senso non gli stava fornendo sensazioni positive… affatto.
«No, noi… No, non ci siamo mai visti»,
balbettò, sistemandosi una ciocca di capelli dietro
l’orecchio. «È solo che… mi
ricorda molto un’altra persona, mi scusi».
«Non c’è problema. Mi chiamo Merlino,
dammi pure del tu», si presentò porgendole la
mano, anche se con riluttanza.
«Hala, piacere».
«
Aureola
intorno alla luna. Molto poetico».
La ragazza rimase ancora una volta a bocca aperta e nessun altro fece
commenti sulla sua uscita. In ogni caso Merlino non gliene avrebbe dato
il tempo, dato che si congedò subito dopo: «Visto
che la situazione sembra risolta, io andrei: ho diverse commissioni da
sbrigare».
«Ci vediamo domani all’agriturismo,
Merlino», lo salutò la nonna di Abigail.
«Certo. Presuppongo che anche Hala si fermerà
lì per la notte, giusto?».
«Sì, ho già prenotato una stanza anche
per lei».
«Benissimo. Allora a domani, buona serata».
«Ciao Merlino», lo salutò anche Keith,
sollevando una mano.
Merlino si voltò, non dopo aver scambiato
un’ultima occhiata con quella ragazza così
scioccata dal suo aspetto.
Uno dei suoi peggiori timori si stava facendo strada nella sua mente,
ma prima che diventasse un pensiero troppo ingombrante lo
accantonò, concentrandosi sul piano che doveva ancora
mettere a punto per quella sera: il recupero della fonte magica di
Alex.
***
«Sei sicura di stare bene? Mi sembri… strana,
ecco».
«Tranquillo Baqi, è tutto okay».
Il ragazzo si passò una mano tra i capelli e
gettò il cartone della pizza nel lavandino,
dopodiché si gettò su uno dei tre divani in
salotto ed accese la TV per passare un po’ il tempo.
«Allora, come sta la vecchia? E la piccola Abby?».
Sentì Hala sospirare dall’altra parte del telefono
e si corresse: «Volevo dire la signora Chapman».
«Stanno bene, più o meno. Lo sai che Abby ha un
ragazzo, ora? L’ho conosciuto oggi, si chiama Mark».
«È ricoverato anche lui?».
«Sì, linfoma di Hodgkin se non ho capito
male».
«Uhm… immagino le scene romantiche e super
strappalacrime».
«Te l’ho mai detto che sei insopportabile a volte?
Solo perché a te non te ne va mai bene una non devi
denigrare la felicità degli altri, hai capito?».
«Ecco che ricomincia… Senti, Hala, se tu stai bene
e non hai nient’altro da raccontarmi io me ne andrei a
letto».
«Sì, bravo Baqi, dormici sopra. Buona
notte».
Il gemello terminò la comunicazione senza nemmeno salutarla,
convinto che gli stesse nascondendo qualcosa di grosso. La conosceva da
quando erano ancora due feti nell’utero di loro madre, come
pensava di potergliela fare sotto il naso?
Spense la TV dopo nemmeno cinque minuti di zapping, innervosito, e
salì in camera sua per togliere la corrente anche al suo
cervello. Ma il sonno tardò ad arrivare e i pensieri si
accumularono l’uno sull’altro, fino a quando non si
ricordò di ciò che Hala gli aveva detto quella
mattina: «Potresti venire a fare qualche foto
all’ospedale in via di ristrutturazione grazie alla donazione
del Principe William».
Per quale diavolo di
motivo il Principe William ha voluto donare personalmente dei soldi a
quell’ospedale? A così poca distanza dal
galà di beneficienza, soprattutto…
Il suo istinto di reporter lo fece alzare di scatto dal letto.
Recuperò il PC e cercò su Google notizie
sull’accaduto, trovandosi poi risucchiato da quel vortice di
link, hashtag e foto che altro non era che Twitter. Trovò
gli account di alcune delle infermiere dell’ospedale, le
quali avevano scattato foto e fatto video per immortalare quel momento
più unico che raro.
«Oh, cavolo», mormorò ad un tratto.
Avvicinò di più il viso allo schermo del PC, poi
ingrandì la foto con lo zoom e si massaggiò gli
occhi increduli. In un angolo, diretto verso le porte
d’uscita, era stata catturato il profilo del suo ragazzo
immortale.
In fretta e furia preparò una valigia e corse alla stazione,
per poi scoprire che l’ultimo treno che portava a Newport era
appena partito. Il prossimo disponibile era quello delle sei e
quarantacinque.
Baqi si sdraiò su una delle panchine della stazione con la
custodia del proprio PC tra le braccia. Nonostante la
scomodità e il freddo, riuscì ad appisolarsi con
un sorrisino vittorioso sulle labbra.
***
All’atteso
bip
bip del proprio cellulare, Cathleen si affrettò
a leggere l’SMS di Merlino e poi lo infilò
nuovamente in una delle tasche dei pantaloni, facendo cenno ad
Artù che potevano andare.
Per l’intera durata del viaggio tra loro regnò il
silenzio, rotto soltanto dal tamburellare insistente delle pioggia e
dal rumore delle spazzole dei tergicristalli, probabilmente da
cambiare.
Cathleen fermò l’auto proprio di fronte al
giardino di Alex e si voltò verso Artù, con gli
occhi fissi verso il parabrezza e l’espressione assorta.
«Che cosa c’è?», gli chiese
quasi lamentosamente, richiudendo la portiera al vento freddo e alla
pioggia.
«Non capisco perché non hai lasciato venire anche
Merlino».
Cathleen si soffiò tra le mani unite a coppa di fronte alla
bocca, in modo da scaldarle un poco, e gli lanciò
un’occhiata saccente: «A certe cose proprio non ci
arrivi, eh Artù? Come pensi che si senta Merlino in questo
momento?».
Il re di Camelot scrollò le spalle, facendo una pernacchia
con le labbra, e diede un colpetto al draghetto di pezza rossa appeso
allo specchietto retrovisore. «Non sono mica un veggente, io.
Suppongo… non bene».
«Non bene», ripeté il paramedico,
fermando il dondolio del suo feticcio. «Si sente schiacciato
dai sensi di colpa, crede che tutto questo stia succedendo a causa sua
e ha paura che la magia gli porti via anche Alexandra. Non ha bisogno
di sgattaiolare in casa sua, come un ladro, per proteggerla
da qualcosa che lei, di sua spontanea volontà, ha scelto di
tenergli nascosta».
«Io non credo che lei…»,
iniziò a dire per difendere la sua erede, ma fu interrotto
dal paramedico.
«Shhh», lo azzittì con una mano sulla
sua bocca. Quindi indicò la finestra della camera di Alex,
al secondo piano, da cui grazie alla luce di un fulmine riuscirono a
scorgere per la seconda volta un’ombra.
«Di sicuro non è il suo gatto»,
sussurrò il re quando si fu liberato.
Cathleen recuperò di nuovo il proprio cellulare, con mani
tremanti. «Dobbiamo avvisare Merlino».
«No», glielo impedì Artù,
prendendole l’apparecchio dalle mani.
«Sei per caso impazzito?».
Con sguardo orgoglioso e determinato esclamò:
«Possiamo farcela anche senza di lui», poi
uscì in fretta dall’auto e senza nemmeno curarsi
di prendere l’ombrello si incamminò verso la porta
di casa.
«Cosa? No, Artù!».
Cathleen lo rincorse, urlandogli a mezza voce di ritornare in
sé. Alla fine lo raggiunse e gli strappò di mano
la copia della chiave di casa di Alex (recuperata da Merlino senza che
spiegasse loro come).
«Si può sapere che ti prende? Non sappiamo con chi
abbiamo a che fare, se si tratta di un topo d’appartamento o
di qualche creatura magica spuntata da chissà dove! Non so
come fosse quindici secoli fa, ma ora finire ammazzato non ti
renderà un eroe!».
«Dammi la chiave, Cathleen», disse tra i denti,
guardandola severamente nonostante la pioggia battente gli avesse ormai
inzuppato i capelli, gocciolanti sul viso.
Il paramedico ricambiò lo sguardo, rimanendo in silenzio per
una dozzina di secondi. Poi sollevò un angolo della bocca in
un sorriso amareggiato.
«Ho capito», mormorò, avvicinandosi a
lui d’un passo. Erano così vicini da poter vedere
il riflesso dei propri occhi in quelli dell’altro.
«Questa mattina hai detto che ti senti inadeguato, che troppo
spesso fallisci in ciò che fai… Vuoi dimostrare
il tuo valore, dimostrare che anche in quest’epoca puoi
renderti utile. Ma la verità, Artù, è
che non devi farlo per forza. Non ne abbiamo bisogno… Io non
ne ho bisogno».
«Io invece sì, io ne ho bisogno»,
rispose, sollevando una mano per scostarle dalla fronte una ciocca di
capelli rossi. «Da quando ho scoperto che senza Merlino non
avrei mai ottenuto nulla a Camelot, e che mi ha salvato la vita
centinaia di volte, io ho… ho giurato a me stesso che questa
volta sarei stato io ad aiutarlo. Devo farlo, Cathleen. Mi
capisci?».
Il paramedico annuì, con gli occhi bassi, e lentamente gli
porse la chiave che gli aveva sottratto. Artù
l’afferrò con solennità e poi sotto la
debole luce della luna, in gran parte nascosta dalle nubi
temporalesche, la infilò nella serratura.
Silenziosamente e senza accendere la luce si avviarono verso le scale.
Artù fece segno a Cathleen di rimanere alle sue spalle e
mentre si dirigevano verso il piano superiore estrasse dalla cintura
dei jeans il proprio pugnale.
Si fermarono improvvisamente quando un'ombra si stagliò su
di loro. In cima alla scalinata, nel rettangolo della porta della
camera di Alex, c'era una donna. A suggerirglielo era solo la sua
corporatura minuta, dato che il cappuccio che portava sulla testa e
l’oscurità impedivano loro di scorgerne il volto.
Potevano vedere benissimo però la spada che teneva tra le
mani, luccicante grazie ai fulmini che continuavano a schiantarsi non
molto lontano da lì: Excalibur, in tutta la sua
magnificenza.
Tutti quanti rimasero immobili per un paio di secondi, indecisi sul da
farsi; poi accadde tutto talmente velocemente che non ebbero nemmeno il
tempo di pensare.
La ladra corse di nuovo all’interno della stanza, andandosi a
ficcare in un vicolo cieco. O almeno così credevano. Una
volta raggiunta, infatti, la donna era già a metà
della sua trasformazione e ancora prima di completarla si
gettò contro la finestra.
Cathleen gridò per lo spavento, mentre pezzi di vetro e
pioggia piombavano nella stanza già messa a soqquadro dalla
sconosciuta. Artù invece si affacciò sul giardino
e scorse una pantera alata atterrare sulle quattro zampe e poi
ritrasformarsi in essere umano sotto i suoi occhi increduli: Freya gli
lanciò un’ultima occhiata prima di iniziare a
correre verso il bosco, dove sperava di far perdere le proprie tracce e
trovare un nascondiglio sicuro.
«Presto, dobbiamo raggiungerla! Ha preso
Excalibur!», urlò il solo ed unico re, prendendo
Cathleen per mano per trascinarla con sé giù per
le scale.
La rincorsero per quelle che sembrarono ore, inoltrandosi nel fitto del
bosco che circondava Avalon.
Ad un certo punto Freya si fermò e con un braccio steso
verso di loro disse poche parole nella lingua dell’Antica
Religione. Non riuscirono ad udirle a causa dei rombi di tuono,
così come non sentirono il rumore degli alberi sradicati dal
suolo. Per questo non furono in grado di reagire tempestivamente e si
salvarono solo grazie alla prontezza di riflessi di Artù, il
quale afferrò Cathleen per la vita e si gettò con
lei in un basso burrone, giusto un momento prima che gli alberi
cadessero loro addosso.
Senza badare ai ringraziamenti ripresero l’inseguimento e
corsero, corsero e corsero fino a quando Artù non
riuscì più ad ignorare il pezzo di spada intriso
di magia nera che gli stava perforando il cuore e cadde a terra.
Cathleen si gettò al suo capezzale, senza più
fiato, e sotto il suo sguardo terrorizzato il sovrano iniziò
a respirare affannosamente, sputando acqua salmastra. Inarcò
la schiena per il dolore e sbatté più volte le
palpebre, ma questo non servì a cancellare la sensazione di
star sprofondando di nuovo nelle acque di Avalon.
«Artù! Artù, ti prego,
resisti!», gridò il paramedico, conscia che il
panico la stava per sopraffare. Perciò si costrinse a
reagire e ricordò cosa le aveva detto Merlino qualche giorno
prima, a proposito del dispositivo che aveva creato per aiutare
Artù a superare quel genere di attacchi.
Lo aveva portato con sé, come Merlino le aveva detto di
fare, ma il terrore la sovrastò quando, infilando entrambe
le mani nella borsa a tracolla aperta, non lo trovò. Doveva
esserle caduto quando si erano gettati nel burrone per non rimanere
schiacciati da quei tronchi.
Si guardò intorno, alla ricerca di una qualche ispirazione,
ma il senso di déjà-vu fu più forte e
il panico la travolse definitivamente.
Non avrebbe sopportato di assistere inerme alla morte della persona che
amava, non un’altra volta. Il volto di Zachary prese per un
attimo il posto di quello di Artù, ma le bastò
chiudere gli occhi perché tutto tornasse alla
normalità e vedesse il viso del biondo abbandonato contro la
terra umida.
«No, no, no… Artù! Artù,
rispondimi!», gridò Cathleen con tutto il fiato
che aveva nei polmoni, per poi accasciarsi su di lui, scossa dai
singhiozzi.
Sentì dei passi alle sue spalle e prima che potesse voltarsi
venne scaraventata ad un paio di metri di distanza da una forza
invisibile, ma tanto potente da lasciarla disorientata. Quando smise di
vedere tutto sfocato, vide la ladra infilzare la spada nel terreno e
chinarsi su Artù.
«Non osare avvicinarti!», le urlò
nonostante fosse allo stremo delle forze.
La donna non l’ascoltò e premette le mani sul
petto del sovrano, da cui si sprigionò quasi subito una luce
dorata tanto intensa da farle male agli occhi.
Artù si rianimò all’istante, respirando
a pieni polmoni e sputacchiando ancora un po’
d’acqua. Non appena si accorse della presenza di Freya si
tirò persino su seduto, puntandole contro il pugnale che
teneva ancora stretto in mano. Non fu costretto ad usarlo
però, perché la custode di Avalon cadde a terra
svenuta non appena la luce irradiata dai suoi palmi si spense.
Il re di Camelot cercò con lo sguardo Cathleen, trovandola
seduta contro il tronco di un albero, sporca di terra e con gli occhi
sgranati per lo shock. Faticosamente si alzò e la raggiunse
per stringerla in un abbraccio. Non la lasciò andare nemmeno
quando decise di chiamare Merlino per avvisarlo dell’accaduto
ed ammettere che anche quella volta aveva rischiato di finire
ammazzato.
***
Merlino era nella sala d’attesa del quarto piano –
deserta a quell’ora – in piedi di fronte alle
vetrate da dove si poteva avere uno sguardo d’insieme del
piccolo parco giochi e del parcheggio di fronte all’ospedale,
quando aveva mandato a Cathleen l’SMS di via libera. Poi si
era seduto ad aspettare, certo che Alex, essendo arrivata in anticipo,
sarebbe passata ad augurare la buonanotte ai bambini prima di iniziare
il turno al Pronto Soccorso. E così era stato.
«Ehi», esclamò con voce insicura
l’infermiera.
«Ciao».
Dopo aver stritolato per bene la fibbia della propria borsa, Alex si
sedette al suo fianco e si sistemò i capelli dietro le
orecchie, sospirando. Aprì la bocca per pronunciare il
discorso che si era preparata, ma Merlino glielo impedì,
mormorando: «Non porti il bracciale».
L’infermiera si accarezzò il polso.
«Sì, io… l’ho dimenticato a
casa, perdonami».
Lo stregone scrollò le spalle, per poi posare gli occhi
sulla copertina del proprio libro di favole.
«Sono già andati tutti a letto?», chiese
Alex, schiarendosi la gola.
«Così hanno detto. Ma sono sicuro che Abby e Mark
rimarranno alzati, questa notte».
«Ho visto delle chiamate di Abby, ma dormivo. Che cosa mi
sono persa?».
«Hanno avuto un momento di crisi, ma l’hanno
risolto».
«Bene, sono contenta per loro».
C’era un’insolita tensione tra di loro,
così fitta che Alex non riuscì più a
reggerla e ruppe il silenzio: «Mi dispiace, Merlino. Mi
dispiace di non averti detto dei miei tentativi con la magia, di averti
tenuto all’oscuro di alcune cose che mi stavano
succedendo». Gli prese le mani tra le sue, ma Merlino
deviò ancora il suo sguardo. «Voglio che tu faccia
parte del mio presente e del mio futuro, davvero».
Dopo un istante di silenzio, sollevò le sue mani per
baciarne una sulle nocche. Solo allora Merlino voltò il capo
verso di lei, con gli occhi seri e saggi, stanchi ed antichi come la
sua anima.
Alex gli accarezzò dolcemente una guancia, sorridendo
emozionata. «Ti ricordi tutte le volte in cui ti ho invitato
a fare una colazione decente, alla fine del mio turno?».
«Ti ho sempre detto di no», mormorò
Merlino, posando la fronte contro la sua.
«Beh, faresti meglio a dire di sì questa volta,
perché devo farti una proposta molto importante».
«Ah sì?».
«Uhm-uhm». Alex avvicinò le labbra alle
sue e le sfiorò in un bacio.
Merlino le prese il volto tra le mani e lo approfondì,
sentendosi al settimo cielo e allo stesso tempo calpestato da una
decina di cavalli.
Non era pronto ad affrontare le conseguenze di ciò che lui,
Artù e Cathleen avevano architettato alle sue spalle. Ne era
così spaventato che addirittura avrebbe voluto interrompere
la missione, fare marcia indietro e dimenticarsi di tutto. Ma
l’amava troppo per farlo. Magari l’avrebbe persa
per sempre, ma almeno non avrebbe dovuto convivere col peso di aver
avuto la possibilità di aiutarla e di non averlo fatto.
«Allora?», lo incalzò Alex, sorridendo
sulle sue labbra.
«Ci sarò», promise, strappandole
l’ultimo bacio prima che si alzasse.
Merlino continuò a sorriderle mentre richiamava
l’ascensore, con gli occhi verdi luminosi come mai, e
nonostante i secoli di esperienza ebbe paura di non farcela, di
tradirsi e di mostrarle ciò che realtà provava:
un dolore immenso, una sofferenza che aveva provato in pochi momenti
della sua vita.
Quando Alex scomparve all’interno dell’ascensore,
Merlino si lasciò andare e con il viso nascosto tra le mani
versò qualche lacrima, pregando perché
eventualmente Alex riuscisse a perdonarlo, un giorno.
L’avrebbe aspettata, anche più di quanto aveva
aspettato Artù, e l’avrebbe amata ancora
più forte.
Era ancora seduto lì, a pezzi, quando il solo ed unico re lo
chiamò per spiegargli che il loro piano non aveva dato i
risultati sperati, ma che in un certo senso era andato ancora meglio:
avevano preso due piccioni con una fava.
Ancora non sapevano che gli eventi di quella notte avevano soltanto
dato il via al compimento del loro destino.
***
Alex era convinta, quella volta niente e nessuno le avrebbe impedito di
essere totalmente onesta con Merlino. Perché lo amava senza
riserve e voleva spendere ogni giorno della sua vita con lui, bello o
brutto, in gioia o in malattia, magia o normalità.
Perciò, se per lui era così importante, era anche
pronta a fare il grande passo.
Mancavano ancora diverse ore alla fine del turno, un’attesa
quasi insopportabile che però viveva felicemente,
immaginandosi come avrebbe reagito il mago a quello che sperava fosse
solo il primo dei loro successi insieme.
Il suo umore cambiò radicalmente quando fu chiamata al
ricevimento del Pronto Soccorso, dove l’attendeva un agente
Fisher dai capelli bagnati, la divisa di riserva e un sacchetto di
plastica chiuso ermeticamente, contenente il dispositivo assorbi magia
nera che Merlino aveva costruito per Artù.
Alex cercò di dimostrarsi il più calma possibile,
nonostante avesse il presentimento che fosse successo qualcosa di
grosso, e salutò l’agente chiedendogli il motivo
per cui l’aveva fatta chiamare.
«La tua vicina di casa, la signora Levinson, ha chiamato alla
Centrale un’ora e mezza fa per denunciare
un’effrazione a casa tua», le spiegò con
fin troppa calma.
«Che cosa?».
«Ho già effettuato un sopralluogo e confermo che
qualcuno ha messo a soqquadro la tua camera da letto, solo ed
esclusivamente la camera da letto. La mia ipotesi è che
fosse una persona che sapeva dove cercare, una persona che conoscevi,
dato che a quanto mi risulta non ci sono segni di scasso sulla
porta».
Alex boccheggiò come un pesce fuor d’acqua,
incrociando gli sguardi di un paio di colleghe. Darrell si
avvicinò e posandole una mano sulla schiena le chiese se ci
fosse un posto dove potessero parlare in privato.
L’infermiera lo condusse nella stanza relax e in qualche modo
riuscì a superare lo shock e ad offrirgli un
caffè. Poi, seduti al tavolo, l’agente
continuò a raccontarle ciò che aveva visto sulla
scena: la finestra rotta dall’interno, il testimone oculare
che aveva visto due persone correre verso il bosco e le orme che
confermavano il racconto di quest’ultimo. Quindi spinse verso
di lei il prototipo di Merlino – solo ora realizzava che era
imbustato in quel modo perché era da considerarsi una prova
– e le chiese: «Hai idea di che cosa
sia?».
Alex posò lo sguardo sul cristallo, pregando
perché non reagisse alla sua vicinanza, e dopo aver
deglutito negò col capo. «Mai visto in vita
mia».
«Quindi confermi che non è questo che cercavano a
casa tua».
«Sì, confermo».
Darrell allora mise il dispositivo da parte e Alex lo seguì
con gli occhi, domandandosi che fine avrebbe fatto e perché
fosse finito nel bosco. Una possibile risposta iniziò a
farsi strada nella sua mente, ma fu bloccata dalla nuova domanda
dell’agente.
«So che hai dato alla tua vicina un doppione delle chiavi,
per le emergenze. Ce l’ha qualcun altro?».
«Beh, mio padre».
«Capisco. E hai idea di chi avrebbe potuto fare una cosa del
genere? Anche una sensazione va bene per iniziare».
«No, io non…».
«È successo qualcosa di strano in questi giorni?
Hai visto qualcosa di insolito nel vicinato? Magari persone
sconosciute?».
Alex si portò le mani tra i capelli, sospirando.
«Al momento non mi viene in mente niente».
Poi però le tornò alla mente la ragazza che aveva
chiesto di lei all’ospedale per ben tre volte.
Aprì la bocca per metterne a conoscenza l’agente,
ma all’ultimo decise di tacere e di indagare prima per conto
suo: se avesse avuto a che fare col “magico mondo”
di Merlino avrebbe rischiato di esporlo.
«Okay, allora… ti aspetto in Centrale per la
denuncia contro ignoti», esclamò Darrell,
rivolgendole un sorriso cortese. «Grazie per il
caffè».
«Grazie a te», mormorò Alex,
già immersa in altri pensieri.
Non si accorse infatti che l’agente era rimasto sulla porta
fino a quando non esclamò: «Lo so che questo non
è il momento adatto, ma voglio scusarmi per il nostro ultimo
scambio di battute. Non avrei dovuto fare quella domanda su Merlino e
Myra, non è stato molto professionale».
L’infermiera alzò il capo, colpita dal suo tono
dispiaciuto, e inaspettatamente riuscì ad abbozzare un
sorriso. «Non c’è problema, è
acqua passata».
«Bene», esclamò contento. «Ora
sarà meglio che vada a mettere in sicurezza casa tua. Mi
raccomando, fai cambiare la serratura».
«Lo farò».
Darrell la salutò con un cenno della mano e quando fu uscito
Alex ripescò il proprio cellulare nella tasca dei pantaloni,
lo accese e chiamò subito Merlino per informarlo
dell’accaduto. Quando non le rispose, il pensiero che aveva
interrotto poco prima si fece ancora più insistente e la
sensazione di aver commesso un terribile errore le strinse lo stomaco,
facendole salire persino le lacrime agli occhi.
Finito il turno in ospedale corse a casa, sicura che Merlino non la
stesse aspettando dalla signora Begum.
Come le aveva anticipato, Darrell aveva messo un nastro della polizia
sulla porta e chiuso a chiave con il doppione della signora Levinson.
Facendo il giro della villetta, Alex poté rendersi conto che
aveva fatto lo stesso alla finestra sfondata, che ora aveva la persiana
chiusa.
Aprì la porta e passò sotto al nastro, senza
toglierlo, per poi correre direttamente al piano di sopra, il cuore che
le batteva forte nella cassa toracica. L’agente Fisher le
aveva detto che nella sua camera da letto era stato messo tutto a
soqquadro, ma fu comunque diverso dal vederlo coi suoi occhi, tanto che
si pietrificò sulla soglia.
Quando si riprese, si diresse per prima cosa verso l’armadio
sventrato. La cercò furiosamente, lanciando fuori i vestiti
rimasti appesi e calciando via i cassetti già aperti, ma di
Excalibur nessuna traccia.
Alzò lentamente gli occhi, scioccata, e nella stessa
posizione in cui l’aveva lasciato il pomeriggio prima, sul
comodino, vide il bracciale che le aveva regalato Merlino. Lo stesso
Merlino che da allora aveva smesso di fare domande sulle sue
capacità, di ricordarle che se c’era qualcosa che
la turbava poteva parlarne con lui, di voler passare del tempo a casa
sua. Lo stesso Merlino che il giorno prima l’aveva
allontanata in quel modo, che le era sembrato così strano,
quasi mortificato, quando le aveva detto che quella mattina avrebbero
fatto colazione insieme.
Ora non aveva più dubbi: lui l’aveva sempre
saputo, o almeno immaginato, e aveva atteso pazientemente che Alex
facesse il primo passo verso di lui. Quando si era reso conto che non
sarebbe successo, aveva deciso di intervenire.
Alex, ora più che mai divorata dai sensi di colpa,
gattonò fino al comodino per prendere il bracciale ed
avvicinarselo alle labbra, in un bacio di scuse.
«Merlino», iniziò a mormorare ad occhi
chiusi, serrati con forza, e le gambe strette al petto.
«Merlino, mi dispiace».
***
Lo stregone fu scosso da un brivido così forte che dovette
sedersi sulla poltrona alle sue spalle. Sentì
Artù chiamarlo, ma la sua voce era lontanissima, al
contrario di quella di Alex, echeggiante nella sua mente.
«Mi dispiace
di averti deluso».
La sua sofferenza era così intensa che Merlino riusciva a
sentirla come propria, il legame che aveva creato tra loro
così potente che faticò a spezzarlo e a tornare
alla realtà per rispondere ad Artù e Cathleen,
chini su di lui e preoccupati.
«Alex mi ha appena parlato col pensiero, come
Mordred», spiegò, stringendosi le gambe al petto e
circondandole nel suo stesso abbraccio.
Artù era troppo sconvolto per rispondere, perciò
fu Cathleen ad accarezzargli la spalla e a sussurrare:
«Va’ da lei. Ha bisogno di te».
Merlino posò gli occhi su Freya, stesa sul divano e con
diverse coperte a tenerla al caldo. Era esattamente come se la
ricordava, nonostante i secoli.
«Noi ce la caveremo, te l’assicuro»,
aggiunse il paramedico, dandogli un altro colpetto al braccio.
Il mago annuì, convincendosi che Alex era sempre e comunque
la sua priorità.
Durante il viaggio verso casa sua cercò di prepararsi una
spiegazione, ma le parole continuavano a sfuggirgli. Così,
quando parcheggiò l’auto di fronte al suo
vialetto, non aveva la minima idea di che cosa sarebbe successo.
Salì velocemente le scale e la trovò in camera da
letto, seduta con la schiena appoggiata al muro e gli occhi sollevati
verso il soffitto. Tutto intorno a lei era caos e distruzione e Alex
sembrava una fenice, appena rinata dalle sue stesse ceneri e bellissima.
Quando si accorse della sua presenza, si alzò in piedi e gli
corse incontro per gettargli le braccia al collo. Merlino si sarebbe
aspettato di tutto, tranne quello.
Non appena incrociò quegli occhi splendidi che tanto amava,
ebbe la certezza che se anche fosse riuscito a prepararsi in anticipo
un discorso, pronunciarlo correttamente sarebbe stato impossibile.
Perciò la strinse forte a sé, baciandole i
capelli e sussurrandole semplicemente la verità:
«Avrei dovuto essere sincero con te, avrei dovuto metterti a
conoscenza delle mie paure, ma avevo il terrore che mi allontanassi
ancora di più. Non posso perderti, Alex, e mi dispiace
di…».
«Smettila, smettila», disse dolcemente
l’infermiera, allontanandosi per guardarlo negli occhi.
«Non devi scusarti di nulla, tu. Sono io quella che ha
sbagliato, quella che si è lasciata corrompere dalla magia e
che ha rischiato di perdere non solo la sanità mentale, ma
tutto ciò che ha di più caro».
«Ero così spaventato…», disse
ancora Merlino, baciandole la fronte, le guance, il mento.
«Ma va tutto bene adesso. E ti prometto che d’ora
in poi…».
Alex lo interruppe posando le labbra sulle sue, prendendogli
delicatamente il volto tra le mani. Poi si inginocchiò su
una gamba e sorridendo disse: «Avrei preferito farti questa
proposta a colazione, ma non posso più aspettare. Merlino,
vuoi ancora sposarmi?».
Lo stregone sgranò gli occhi e scoppiò a ridere,
il cuore gonfio di gioia. «Sì. Sì, lo
voglio».
«Grazie al cielo», mormorò Alex,
stringendogli di nuovo le braccia intorno al collo e lasciandosi
sollevare da terra in una giravolta.
***
«Nottata impegnativa?».
L’agente Fisher alzò il capo, abbandonato poco
prima tra le braccia incrociate sul bancone, ed accennò un
sorriso alla signora Begum e al bicchierone di caffè gli
aveva appena messo di fronte al naso.
«Non ne avete idea. Ciambelle?».
«Scherza, vero?».
Si stava servendo dall’espositore, quando un nuovo cliente
entrò nella caffetteria accompagnato da uno scampanellio.
«Buongiorno!», lo salutò cordialmente la
signora Begum. «Come posso aiutarla?».
«Ahm… un caffè bello forte, grazie,
e… mi chiedevo se lei conosce per caso un ragazzo che si fa
chiamare Emrys».
«No, mai sentito».
Il ragazzo si appoggiò al bancone, proprio accanto a
Darrell, ed iniziò a sfogliare nervosamente un taccuino
pieno d’appunti, parlando tra sé.
«Era qui, da qualche parte… Ah, ecco! Un certo
Merlino, invece? Le dice qualcosa?».
«Merlino?», ripeté la signora Begum,
aprendosi in un sorriso.
L’agente Fisher però la interruppe sul nascere,
chiedendo allo sconosciuto: «Chi lo cerca?».
Il ragazzo si voltò verso di lui ed esitò, forse
a causa del timore reverenziale della divisa o forse per il suo viso
sfatto. Darrell diede un vigoroso morso alla sua ciambella, sporcandosi
di zucchero a velo ai lati della bocca, e questo lo rese più
innocuo agli occhi del ragazzo, il quale finalmente rispose:
«Il mio nome è Baqi. Sto portando avanti
un’indagine privata».
L’agente lo fissò, sempre più
incuriosito. «Continua».
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Avanti, quanti hanno pensato che all'inizio del capitolo
Artù e Cath stessero facendo...
altro? xD
#supertroll