Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo

di Adeia Di Elferas
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I meldolesi erano accorsi come cavallette a Cusercoli, seguendo l'invito di Pandolfo Malatesta e avevano iniziato subito a mettere in difficoltà Achille Tiberti e i suoi.

L'animosità delle nuove truppe, arrivate a dare manforte a quelle poco organizzate e poco numerose guidate dal Gottifredi più giovane, stava facendo la differenza e i comandanti della Contessa Riario si videro costretti a scriverle di nuovo, chiedendole con maggiore insistenza o il permesso di ritirarsi o di ricevere rinforzi.

“Piuttosto – aveva provato a proporre Cicognani, benché Tiberti non avesse voluto farne cenno nel suo messaggio – che ci dia il permesso di richiamare gli uomini lasciati di stanza nelle terre già prese.”

“Così facendo ce le riconquisterebbero una dopo l'altra e allora sì che sarebbe stato davvero tutto inutile!” rimbeccò Tiberti, dando già la lettera alla staffetta.

“A ogni assalto perdiamo uomini – controbatté Cicognani, che cominciava a farsi un po' insofferente nei confronti della prudenza dell'altro condottiero – ogni giorno d'attesa è un giorno in meno verso la sconfitta.”

Al che Achille lo aveva mandato silenziosamente a quel paese, senza prendersi la briga di ricordargli la precarietà tanto dello Stato della loro signora, quanto dell'intera campagna militare in cui si erano buttati.

Era fondamentale non lasciarsi impensierire da qualche perdita. La Tigre lo aveva previsto, Tiberti se lo ricordava bene, e aveva strappato a tutti loro la promessa di non darsi per vinti troppo facilmente.

Aveva delle carte segrete ancora da giocare e se l'attacco del meldolesi era in effetti stato un colpo inatteso, la Contessa avrebbe di certo saputo fare un affondo ancor più spettacolare.

Bastava avere fede e attendere con fiducia. Tiberti si fidava di pochissime persone, sulla faccia della Terra e quelle poche erano sue consanguigne. L'unica che faceva eccezione era proprio la sua signora e, che diamine, Cicognani poteva farsi prendere da tutte la paure del mondo, ma Achille non avrebbe fatto altrettanto.

“I rinforzi arriveranno – disse con decisione, prima che Cicognani cambiasse strada, per andare a controllare un altro lato del campo – e con loro la vittoria.”

 

Guglielmo Altodesco, fresco ambasciatore forlivese a Rimini, stava aspettando di poter parlare con Pandolfo Malatesta.

La Tigre gli aveva scritto una breve missiva in cui gli ordinava di agire con prontezza, facendo pesare, e non poco, il legame che lei stessa era riuscita a stabilire con il Pandolfaccio, ma Altodesco si stava scontrando con la flemma ostentata del signore di Rimini, che era capace di far attendere i suoi interlocutori per intere mezze giornate.

Quella volta, però, il Malatesta fu abbastanza rapido, tanto che quando si presentò nella saletta d'aspetto dedicata ai dignitari stranieri, Guglielmo non aveva ancora ceduto alla tentazione di mettersi a sedere per riposare le gambe.

Pandolfo fece segno con una mano dalle lunghe e sottili dita all'ambasciatore di seguirlo e lo condusse fino nelle sue stanze private: “Qui nessuno ci ascolta, nemmeno quei cani randagi dei miei fratellastri.” spiegò.

Altodesco osservò il lusso sfrenato del letto a baldacchino intarsiato e broccato d'oro, lo sfarzo delle tende che toccavano terra in uno svolazzo di tessuti pregiati, l'eccesso dei soprammobili e degli specchi che occhieggiavano dalla parete, ma non si lasciò scomporre.

Mantenne il suo sguardo neutro e l'espressione dura, mentre cominciava a reclamare, senza attendere un invito esplicito del Malatesta: “La mia signora è molto scontenta di quello che avete fatto, messere.”

Pandolfo, che si era seduto mollemente alla scrivania – che era ingombra di fogli stracciati, tagliacarte e ninnoli vari – sollevò le sottili sopracciglia, facendole sparire sotto i capelli neri: “Di cosa, precisamente? Ho fatto molte cose negli ultimi giorni, non posso ricordarmele tutte...”

Guglielmo non cedette all'irritazione per quel tono che suonava come una chiara provocazione, e spiegò: “La mia signora non è stata contenta di vedervi appoggiare la causa del Gottifredi più giovane. Il patto di reciproco rispetto e lealtà è stato tradito da voi con troppa facilità, secondo la mia signora. Avete mandato gli abitanti di Meldola contro i nostri soldati, dopo che la Contessa aveva stretto con voi un accordo molto chiaro. Vi ha fornito la scusa per chiamare a Rimini Guerra e farne ciò che volevate, ma in cambio si aspettava da voi lealtà.”

Il Pandolfaccio sbuffò, cominciando a giocherellare con uno degli stiletti, passandoselo da una mano all'altra distrattamente: “Le donne sono pronte a credere a tutto, non trovate?”

Altodesco tradì per la prima volta il suo profondo nervosismo e il suo viso venne attraversato da una breve contrazione, mentre rimbeccava, risentito: “State molto attento a come parlate, ricordatevi chi avete davanti, messer Malatesta. Se mancherete di nuovo di rispetto alla Contessa, sarò costretto a...”

“A fare cosa?” ridacchiò Pandolfo, puntellandosi sulla sedia, come un bambino curioso, mentre le sue dita si stringevano con maggior cattiveria attorno al manico del tagliacarte: “A lamentarvi con la vostra signora? E che può mai fare lei contro di me? A differenza di Guerra, io so molto bene che lei non ha nessuno dalla sua parte. Non riuscirebbe mai a mettere in difficoltà Rimini. Io ho l'esercito che era stato di mio padre e non ho paura di usarlo. Quella gatta avrà anche artigli affilati, ma non riuscirebbe a ottenere sostegno nemmeno da Faenza, anche se ha messo in scena la buffonata di far sposare sua figlia con quel bambinetto che fanno passare per l'erede di Galeotto Manfredi... Perché, quindi, dovrei temerla?”

Altodesco si irrigidì. Non sapeva come contrastare quell'ostilità. La cosa che più lo scompensava era vedere la mano del signore di Rimini circondare l'impugnatura dello stiletto con una forza che poteva preludere un attacco improvviso.

Quell'uomo era pazzo, ci si poteva aspettare di tutto da lui, perfino un colpo di testa come uccidere un ambasciatore straniero senza averne motivo.

Inoltre, nemmeno i suoi discorsi mettevano Altodesco in una buona posizione. La Contessa gli aveva paventato una possibilità simile, ma non ricordava più che genere di invettive e minacce gli aveva raccomandato di usare come contrattacco. La tensione che aveva accumulato gli stava annebbiando la memoria. Sapeva bene che le guerre si vincono anche nei salotti e nei parlatori segreti, dunque sentiva sulle sue spalle una grandissima responsabilità. E, insieme, pesava anche la consapevolezza di non essere all'altezza delle richieste della sua signora.

“Vi sentite messo all'angolo, ambasciatore?” chiese Pandolfo, con un sorriso mellifluo, mentre si alzava e si avvicinava a Guglielmo con fare insinuante, lo stiletto ancora in pugno e uno sguardo rapace che fece venire i brividi al forlivese: “Vi aiuto io. Dite alla Tigre che non ho alcuna intenzione di sottostare al suo volere senza averne un valido motivo, tuttavia, sono un uomo ragionevole e di incole volubile. Se saprà offrirmi qualcosa in cambio, o se sarà in grado di dimostrarmi la sua forza e quindi di impensierirmi davvero, allora potrei anche cambiare idea.”

Altodesco guardò dritto negli occhi folli di Pandolfo e annuì, senza riuscire a dire altro. Sentiva la lama del tagliacarte pericolosamente vicina e si stava pentendo amaramente di averlo seguito nelle sue stanze.

“E ora, su, forza! Correte a scrivere alla vostra signora!” lo canzonò il signore di Rimini, portando il suo lungo naso a meno di un millimetro da quello dell'ambasciatore: “Non vorrei mai che si impensierisca, non ricevendo la vostra lettera quotidiana..!”

Guglielmo non se lo fece ripetere, e, vergognandosi come non mai, lasciò le stanze di Pandolfo quasi correndo.

Il Malatesta, a quel punto, abbandonò il sorriso serafico e fasullo che aveva tenuto per quasi tutto il tempo stampato sulle labbra e si rimise alla scrivania. Gettò lo stiletto sui fogli di carta straccia ed espirò a fondo. Si fece serio e si morse l'unghia del pollice fin quasi a farsi male. Alla fine riprese uno dei piccoli coltelli e, con un mezzo ringhio, lo lanciò contro una delle colonne del baldacchino, centrandola in pieno e facendo sì che la lama si piantasse con precisione nel legno pregiato.

 

Quel 22 novembre la piazza centrale di Forlì brulicava di contadini strappati ai campi e cittadini esaltati che avevano risposto a titolo volontario all'ennesima coscrizione di massa voluta dalla Contessa Sforza Riario.

La paga promessa era stata di certo fondamentale, nell'ottenere una risposta tanto entusiastica e di massa.

Caterina aveva lasciato al Capitano Mongardini, a Luffo Numai e all'Auditore il compito di controllare che tutto fosse in ordine e che il suo decreto fosse stato seguito alla lettera.

Quel dovere sarebbe spettato al Governatore della città, ma, dalla morte di Giacomo Feo, la Contessa non aveva ancora scelto il suo successore e si vociferava che avrebbe anche potuto non sceglierlo mai.

Quando tutte le matricole furono messe in riga e voltate verso il palazzo dei Riario, Caterina comparve da una delle finestre e salutò i nuovi membri del suo esercito.

Era azzardato mandare delle reclute che si erano portate le armi da casa a dare manforte ai veterani in un assedio, ma era l'unico modo per contrastare in fretta l'attacco abbastanza inatteso dei meldolesi.

In molti sarebbero morti, mandati allo sbaraglio a fare la guerra senza aver mai preso una lezione di spada, ma almeno avrebbero tamponato la catastrofe in attesa di rinforzi seri.

Con i nuovi soldati sarebbero partite anche tre passavolanti e Caterina sperava che, in mano a Tiberti, si sarebbero rivelate la chiave vera per conquistare Cusercoli, sterminare i meldolesi e andare avanti con la campagna.

Che quelli di Meldola avessero da sempre degli strascichi spiacevoli con i forlivesi, la Contessa lo aveva capito da tempo, ma non credeva che sarebbe bastato tanto poco per portare quasi tutti gli uomini di un paese a scagliarsi contro il suo esercito.

Aveva creduto, quando era piccola, che nel milanese la gente fosse attaccabrighe solo perché nelle osterie scoppiavano spesso delle risse, ma da quando si era trasferita in Romagna, si era accorta che in giro c'erano anche esempi più fulgidi.

Nella sua terra natale difficilmente i contadini e i commercianti avrebbero lasciato volontariamente i loro lavori solo per vendicarsi di vecchi rancori andando a uccidere i soldati di un altra città.

Evidentemente Malatesta conosceva meglio di lei il cuore dei romagnoli. E sì che gli Sforza avevano avuto proprio in quelle zone i loro primi natali...

Quando l'adunata si ritenne conclusa, tra un gran suonare di campane e di tamburi da guerra, la Contessa rientrò, lasciando che le reclute prendessero la loro via sotto al sole plumbeo di quel giorno.

Il freddo non era pungente come lo era stato negli anni addietro nel medesimo periodo, tuttavia la quasi assenza di piogge la impensieriva.

Le pestilenze e le peggiori malattie amavano quel clima secco. In più, aver impoverito di braccia i campi, avrebbe potuto portare a problemi al momento del raccolto e quindi una carestia, che sarebbe andata a favorire ancora di più le epidemie.

Quando Luffo Numai aveva avanzato quel dubbio, però, la Tigre aveva subito trovato la risposta pronta, zittendolo: “Se per allora gli uomini non saranno ancora tornati dal fronte – aveva detto, sbrigativa – allora a lavorare nei campi ci penseranno le donne.”

 

Quella sera, a cena, la tavola alla rocca era occupata solo da Caterina, da sua figlia Bianca, da suo figlio Galeazzo e da sua madre Lucrezia.

Cesare era in chiesa, forse, a pregare, mentre Livio aveva mangiato presto, nel suo letto, perché di nuovo malaticcio, e Sforzino aveva voluto a tutti i costi fargli compagnia.

“Secondo me – aveva ipotizzato Bianca, nel tentativo di fare un po' di conversazione leggera, quando sua nonna aveva spiegato il motivo dell'assenza del bambino – dato che Livio non mangia quasi niente, Sforzino ha voluto restare con lui per mangiarsi anche la sua cena...”

Nessuno, però, aveva reagito come sperato a quel goffo motto di spirito, a parte Galeazzo che si era permesso un brevissima risata, subito spentasi allo sguardo severo di sua madre.

Mentre prendevano dal centro della tavola il pane e qualche pezzo di carne arrosto, i commensali vennero interrotti dall'arrivo di un soldato, che consegnò una lettera urgente a Caterina.

Questa, senza badare in nessun modo alla buona creanza, che non voleva si leggessero missive a tavola, lasciò giù il pane che aveva afferrato e prese il messaggio, aprendolo subito.

Il modo in cui inarcò appena le labbra verso l'alto fece dire a Lucrezia: “Buone notizie?”

La Tigre congedò il soldato e richiuse la lettera, tornando a servirsi da mangiare: “Direi di sì. Si tratta della risposta di Faenza, vergata dalla mano di Niccolò Castagnino, a nome di Astorre Manfredi, ovviamente.”

A sentire quei nomi, Bianca smise all'istante di masticare e deglutì quello che aveva in bocca con l'aiuto di un sorso di vino.

“Gli avevi chiesto rinforzi?” si informò Lucrezia, che, negli ultimi giorni, aveva tentato con tutta se stessa di non urtare più sua figlia e di fingere che la guerra le stesse bene, così come le fugaci avventure di Caterina, i suoi eccessi nel bere e le urla agoniche che – per fortuna ormai solo in via eccezionale – si udivano arrivare dai sotterranei della rocca in certe notti di vento.

Caterina masticò con calma un pezzo di pane nero, senza sollevare lo sguardo dal piatto: “Sì.”

Bianca aveva accantonato anche il calice di vino, quasi intatto, e pure Galeazzo si era fatto attento e guardava alternativamente la madre e la nonna.

“Credevo che avessi allentato i rapporti con Faenza... Mi era parso di capire che non avevi più una linea di comunicazione col tutore di Astorre... Come hai fatto a convincerlo?” domandò Lucrezia, pulendosi gli angoli delle labbra con piccoli colpetti del dorso della mano.

La Contessa alzò le iridi verdi e controllò che non ci fosse nemmeno un servo nella sala, poi spiegò, con un mezzo sospiro: “Ho scritto a Castagnino dicendogli in modo molto chiaro che esigevo il loro aiuto e che lo volevo anche in fretta. A dirla tutta, ci hanno messo anche troppo a rispondermi. Si capisce che hanno dovuto ragionarci sopra parecchio o che qualcuno, magari Venezia, che sta cercando di comprare Manfredi, ha opposto resistenza.” intinse un po' della mollica grezza del pane nero nel sangue scuro che colava dalla carne arrosto e continuò, dopo averla inghiottita: “Ho detto che ero pronta a perdonare ufficialmente la loro assenza di tatto e le loro mancate condoglianze per la morte di mio marito, in riguardo alla confusione e allo sgomento che il governo faentino deve aver provato nel sentire della mia dura repressione.”

Lucrezia annuì con una certa convinzione, anche se, per quanto si rendesse conto di non essere abbastanza addentro agli affari esteri dello Stato per capire a fondo l'entità di quel mezzo ricatto, pensava che non fosse poi un grande scambio, per Faenza.

Infatti la Tigre soggiunse, prendendo altra carne dal centro della tavola: “E infine ho ricordato senza mezzi termini il legame di sangue che ormai lega le nostre famiglie. Un giorno Bianca partorirà l'erede di Astorre Manfredi, dunque preservare le nostre sostanze e il nostro Stato conviene anche ai faentini.”

Appena Caterina si rimise a masticare, chiudendo apparentemente il discorso, Bianca, che si era fatta pallida come non mai, deglutì un paio di volte, come se stesse resistendo a dei conati di vomito e scostò la sedia dal tavolo: “Perdonatemi... Non mi sento molto bene. Posso ritirarmi?” chiese, senza rivolgersi a nessuno in particolare.

La Contessa agitò una mano a mezz'aria, in segno di permesso, e aggiunse: “Galeazzo, vai ad accompagnare tua sorella nella sua stanza.”

Appena i due figli furono usciti dalla sala, Caterina liquidò con un paio di ordini il servo, che era rientrato per togliere i piatti di Bianca e Galeazzo.

“Sei stata indelicata.” la rimproverò Lucrezia, tagliando con il coltello da tavola un pezzo di formaggio: “Tua figlia spera ancora che tu annulli il suo matrimonio e invece salti fuori a dire cose del genere...”

La Tigre all'improvviso sentì lo stomaco chiudersi. Nemmeno a lei aveva fatto piacere parlare a quel modo davanti a Bianca, ma se voleva raggiungere il giusto fine, era necessario sacrificare qualcosa.

“Infatti ho tutta l'intenzione di far sciogliere il suo matrimonio, e voglio che a farlo sia direttamente dal papa in persona.” disse, a denti stretti, come se si trattenesse dall'alzare la voce: “E poi, appena saremo abbastanza forti, marcerò su Faenza e dei Manfredi non resterà che ogni tanto uno stralcio di stemma inciso sulle pareti di qualche chiesa.”

La madre la fissò attonita: “E allora perché..?”

“Perché non mi fido più di lei!” sbottò la Tigre, alzandosi di scatto e battendo i palmi delle mani sul tavolo, facendo trasalire Lucrezia: “Se le dicessi esattamente ciò che ho in mente di fare, potrebbe lasciarselo scappare con suo fratello Cesare o con qualcuno dei soldati con cui gioca ai dadi o con chissà chi e io non posso permettermelo! Se una voce del genere arrivasse all'orecchio di Castagnino, potrei dire addio ai suoi soldati e alle sue armi e allora Malatesta non ci penserebbe un istante a farmi uccidere e prendersi il mio Stato e anche le vostre vite!”

Dopo quella sfuriata, la donna rimase ansante per qualche momento, poi diede un colpo secco al piatto in cui stava mangiando, mandando parte dei suo contenuto a rovesciarsi sul tavolo e lasciò la sala, troppo furente per riuscire a sostenere altri discorsi con sua madre.

Lucrezia, rimasta sconvolta da quello scatto di rabbia, sentì crescere dentro di sé la sua solita tristezza e, combattendo il groppo che le si era formato nella gola, si strinse nelle sue spalle doloranti per l'artrosi, e si sforzò di mandare giù ancora qualche boccone, mentre sulla porta si profilava di nuovo il servo, frettoloso, che pareva anche lui ben deciso a renderle il pasto indigesto.

 

Tommaso Feo diede l'ordine alle reclute e ai balestrieri di partire subito, passando pure da Faenza, in considerazione del nulla osta che Niccolò Castagnino si era permesso di inviare a Imola.

“Mio figlio Piero – disse Gian Piero Landriani, quando il genero si presentò alla rocca per aggiornarsi sul numero di uomini rimasti in città – mi ha scritto per assicurarmi che alla rocca di Forlimpopoli è ancora tutto tranquillo.”

Tommaso, appoggiato con la schiena al muro, in una posa molto informale, fece un breve suono gutturale in segno di assenso.

“Hanno dovuto fare da punto di smistamento per i contadini che si sono arruolati, ma sembrerebbe tutto sotto controllo, contando che siamo in guerra.” concluse il castellano della rocca di Imola.

Il Governatore teneva le braccia incrociate sul petto e sul suo viso potevano leggersi le ore di tribolazione e le notti insonni passate nella ricerca capillare di soldati e balestrieri esperti da inviare alla cognata Caterina a Forlì.

Gian Piero apprezzava molto la caparbietà del genero, vedendola come una dote impagabile per un uomo d'armi e per un marito, anche se si era reso conto sempre di più che quando doveva ubbidire agli ordini di Caterina – soprattutto se erano ordini complessi e importanti come quello – Tommaso si faceva cupo e scontroso.

L'unica che sembrava non accorgersene, o che forse fingeva di non farlo, era Bianca, che in quei giorni appariva invece particolarmente allegra e leggera, come se nascondesse qualche meraviglioso segreto.

Mentre i due uomini avevano cominciato a discutere della situazione di Imola, immaginando i vari scenari che avrebbero potuto aprirsi nel caso in cui Pandolfo Malatesta avesse tradito la fiducia di Caterina, proprio Bianca entrò nello studiolo del padre senza annunciarsi in alcun modo.

“Fate come se non ci fossi.” disse, andandosi a sistemare sul divanetto vicino al fuoco, per attendere il marito.

Una linea sul viso di Tommaso parve distendersi, all'arrivo della moglie, ma Gian Piero notò come l'uomo non mostrò alcun moto di trasporto nei confronti di Bianca, nemmeno quando questa, con il pretesto di prendere dallo scaffalo un libro da leggere per passare il tempo, gli passò accanto, tanto vicino da sfiorarlo.

'La sua mente vive coi fantasmi' pensò Landriani, scrutando gli occhi profondi e lontani di Tommaso.

“Non credete che sia stata una misura troppo drastica?” chiese a un certo punto Gian Piero, riferendosi all'editto di Caterina, per cui qualunque disertore, di qualunque rango, sarebbe stato punito con la morte.

“Assolutamente no.” fece subito Tommaso, con l'ostinata prontezza di chi sarebbe disposto a difendere qualunque cosa a qualcuno a cui tiene in modo particolare.

Bianca, che era immersa nella lettura, si lasciò distrarre da quel cambio di tono nella voce del marito e alzò lo sguardo su di lui.

Inconsciamente, si portò con delicatezza una mano al grembo, dove il loro tanto sospirato figlio stava crescendo e dove – quella pareva davvero la volta buona – sarebbe cresciuto fino al giorno della sua nascita.

Al Governatore quel breve gesto non sfuggì e così chiuse un momento gli occhi, staccandosi dal muro e sbrigando con noncuranza la questione: “Credo sia buona norma usare un deterrente forte con i soldati, soprattutto coi generali. Di questi tempi ci sono troppi voltafaccia e a noi non serve avere gente simile tra i nostri ranghi.”

“Forse dovremmo tornare al nostro palazzo...” suggerì Bianca, poggiando il libro accanto a sé e mettendosi lentamente in piedi: “Ci sarà quasi pronto da mangiare...”

“Perché non restate qui a farmi compagnia?” propose Gian Piero, che però aveva avvertito una strana tensione nell'aria: “Da quando tua madre Lucrezia è a Forlì, pranzo sempre da solo...”

Bianca sorrise pacata al padre e declinò: “Domani, magari. Sono un po' stanca, preferisco mangiare a casa.” e così dicendo prese il marito sottobraccio e lo invogliò a raggiungere la porta sospingendolo con discrezione.

“Come preferisci.” cedette Landriani, con un sorriso un po' malinconico.

Da quando aveva seguito sua moglie Lucrezia in Romagna, aveva avuto una vita abbastanza tranquilla, priva delle paure che l'avevano attanagliato negli ultimi tempi passati nella Milano del Moro, tuttavia qualcosa si era andato pian piano spezzando.

Non vedeva suo figlio da un'eternità, essendo come lui castellano e quindi costretto a non lasciare la rocca che gli era stata affidata, e spesso doveva privarsi della compagnia della moglie, che si divideva tra Imola e Forlì anche più del necessario, a suo avviso. Sua figlia Bianca, poi, da quando aveva sposato Tommaso Feo era sempre come in affanno, come se stesse cercando di rincorrere qualcosa, senza mai arrivarvi davvero.

“A domani.” salutò Gian Piero, facendo il baciamano alla figlia e dedicando un cenno marziale del capo al genero: “Passate un buon pomeriggio e una santa notte.”

 




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