Titolo:
Inori
Personaggi: Adrien Agreste,
Marinette Dupain-Cheng, Altri
Genere: fantasy, romantico,
drammatico
Rating: PG
Avvertimenti: longfic, AU
Wordcount: 1.648 (Fidipù)
Note: Ed eccoci qua con il nuovo capitolo di Inori che, dopo un
progresso iniziale lento, ha cominciato a carburare e a muoversi: un
capitolo interamente dedicato a Marinette questo, perché...beh, dovevo
concentrarmi su di lei e su ciò che le sarebbe successo (o meglio
rivelato). E adesso? Adesso cosa succederà? Chi lo sa.
Vado un po' di fretta oggi perché, prima di tutto devo fare un secondo
aggiornamento, e poi devo tornare a studiare (ahimè), quindi passo subito
ai ringraziamenti: grazie a tutti voi che leggete, commentate, inserite le
mie storie nelle vostre liste, mipiacciate i post sul gruppo facebook di
Ladybug e...
Beh, grazie di tutto cuore!
Marinette si sistemò il cappuccio del
mantello, osservando la madre di qualche passo più avanti a lei: la
piccola figura rotonda di Sabine si muoveva velocemente fra gli stretti
vicoli di Paris, immersi nell’oscurità notturna, quasi come se la donna
fosse abituata a percorrere quelle strade: «Dove stiamo andando?» domandò
nuovamente alla madre, ricevendo in cambio un borbottio incomprensibile.
Quando sua madre aveva chiuso la panetteria, quella sera, invece di
trascorrere la serata tranquillamente come ogni altro giorno, l’aveva
esortata a seguirla fuori.
Perché?
Inciampò in una pietra e storse la bocca, fermandosi e appoggiandosi al
muro di una casa per massaggiarsi la caviglia dolorante: «Marinette, non
abbiamo tutta la serata» mormorò sua madre, fermandosi poco più avanti e
sospirando: «Dobbiamo andare.»
«Ma dove?»
«Capirai tutto quando arriveremo.»
La ragazza osservò la madre riprendere il proprio cammino, incurante di
ciò che le voleva chiedere e sospirò, poggiando il piede per terra e
seguendola, stando ben attenta alla strada per quanto la luce fioca della
luna glielo permetteva; Sabine svoltò un angolo e si fermò poco più
avanti, davanti a una porta di legno di un edificio in pietra che aveva
visto giorni migliori.
In vero, Marinette sapeva che quell’abitazione era abbandonata.
Madame Mandeliev se ne lamentava sempre…
«Mamma?» mormorò la ragazza, avvicinandosi alla donna e osservandola
mentre bussava tre volte contro il legno marcio, rimanendo poi in attesa:
«Mamma?»
«Silenzio, Marinette.» le intimò Sabine, facendo un passo indietro e
osservando l’uscio aprirsi un poco: «Sono io. La rosa è con me.» dichiarò
seria, Marinette vide la porta chiudersi di nuovo e poi alle sue orecchie
giunse il suono metallico di una catena che veniva tolta e la porta si
spalancò.
Riconobbe immediatamente l’uomo che aveva aperto loro e rimase a fissarlo
mentre si faceva da parte, chinando la testa quando Sabine passo davanti a
lui: «Monsieur Césaire…» mormorò, fissando Otis Césaire, il padre di Alya,
che si chinava al suo cospetto: «Ma cosa…?»
«La prego di entrare, mia signora.»
«Cosa?»
«Marinette, entra.»
La ragazza annuì e osservò Otis chiudere la porta alle sue spalle,
sistemando nuovamente il catenaccio e abbozzando un sorriso nella sua
direzione: «Sono così felice che stasera…»
«Otis, non ora.»
«Sì, certamente.»
Che stava succedendo?
Otis non era mai stato così accondiscente con sua madre. Perché lo era
adesso? Perché lo era con la donna che lavorava con sua moglie?
«Marinette, andiamo.»
«No.» mormorò la ragazza, fissando la donna in volto e notando la tensione
di Sabine: «Non farò un passo finché non mi dici cosa sta succedendo,
mamma.»
«E’ per questo che siamo qui, per spiegarti tutto.» dichiarò la donna,
avvicinandosi e prendendo la figlia per le spalle: «Hai compiuto diciotto
anni, è giusto che adesso tu sappia. Devi sapere chi veramente sei, chi
era tuo padre e cosa gli Agreste ci hanno fatto.»
«Mamma, ma…»
«Vieni, Marinette.» ordinò Sabine, voltandole le spalle e proseguendo per
il piccolo corridoio, sparendo nella stanza alla fine di questo.
Marinette si voltò, osservando Otis che, con un cenno del capo, la esortò
ad andare: la ragazza annuì, stringendo il mantello che indossava e
avanzando lentamente verso la stanza ove era sparita sua madre, sentendo
voci che borbottavano fra di loro e avvertendo la presenza dell’uomo alle
sue spalle; inspirò profondamente, fermandosi davanti la porta e poggiando
la mano sulla maniglia.
Doveva entrare.
Se voleva sapere il perché dello strano comportamento di sua madre, doveva
entrare in quella stanza.
Lasciò andare l’aria e abbassò la maniglia, aprendo la porta e guardando
le persone riunite nella stanza: molte facce erano sconosciute per lei, ma
alcuni volti no.
Monsieur Fu.
Theo.
Alya e sua madre.
Madame Bustier, una cliente gentile che veniva ogni giorno alla
panetteria.
Marinette rimase ferma sulla soglia, osservando le persone che la
fissavano e cercando con lo sguardo la madre che, le braccia aperte, e un
sorriso dolce in volto le andò incontro: «Marinette, mia dolce e preziosa
Marinette.» mormorò Sabine, prendendola per le spalle come aveva fatto
poco prima e fissandola in volto: «Io ti ho fatto vivere nella menzogna,
figlia mia.»
«Cosa?»
«Vostra altezza, con calma.» mormorò Fu, facendosi largo e raggiungendole:
«Non potete…»
«Vostra altezza? Mamma? Cosa…»
«Sono così lieto di potervi parlare in modo consono, mia signora.» mormorò
Fu, chinando la testa e sorridendole dolcemente, facendole cenno di
andare verso una parte della stanza ove un allegro fuoco stava
scoppiettando nel caminetto: «Vorrei spiegarvi il motivo per cui siete
qui.»
Marinette lo seguì, osservando coloro che la circondavano e incrociando lo
sguardo Alya che, con un sorriso di scuse in volto, la fissava a testa
alta: «Perché mi state parlando così?»
«Mi sarebbe molto piaciuto farvi questo discorso nel luogo in cui siete
nata, in cui è nato vostro padre…» mormorò Fu, fermandosi davanti al
fuoco: «Sapete che un tempo, Paris era governata dai Dupain, no? Vostra
madre vi avrà sicuramente detto della famiglia maledetta…»
«Il cui nome porta solo morte per mano degli Agreste. Sì, so che Gabriel
Agreste li uccise tutti e prese il dominio di Paris.»
«Diciassette anni fa, il capo dei Dupain venne assassinato da Gabriel
Agreste» continuò Fu, come se lei non avesse parlato, voltandosi poi verso
di lei: «Tom Dupain, il precedente reggente di Paris, era vostro padre.»
«Cosa?»
«Non avevi nemmeno un anno, quando Agreste dette l’assalto al palazzo ove
vivevo con mio marito, Tom.» mormorò Sabine, facendo voltare la ragazza
verso di lei: «Tom non si era mai accorto della sete di potere di Gabriel,
altrimenti sono certa che avrebbe fatto qualcosa; quella notte, mio marito
– tuo padre, Marinette – sacrificò la sua vita per permettermi di fuggire
con te e di non far uccidere a Gabriel l’unica che avrebbe potuto
reclamare il trono di Paris.»
«Gabriel Agreste sa benissimo che Sabine si nasconde a Paris e per questo
che ha cercato, in ogni modo possibile, di soffocare quel nome e di
uccidere chiunque fosse legato alla famiglia dei Dupain.»
«Ma è stato ingenuo.» dichiarò sprezzante Sabine, sorridendo: «Non ha mai
pensato che mi sarei nascosta nel quartiere povero di Paris e avrei
vissuto come una panettiera, in attesa che mia figlia compisse l’età
adulta per rivelarle tutto quanto.» continuò la donna, avvicinandosi alla
figlia e prendendole il volto fra le mani: «Ti ho cresciuta, alimentando
l’odio per quella famiglia che ti ha portato via tuo padre e la tua vita,
la tua vera vita. Tu sei l’unica che può guidare coloro che sono ancora
fedeli alla nostra famiglia e tingere le strade di Paris del sangue degli
Agreste. Impugna la spada di tuo padre e vendica il nome dei Dupain,
Marinette.»
La ragazza scosse il capo, facendo un passo indietro e scacciando con un
gesto della mano quelle della madre, fissandola sconvolta: «Io…»
«E’ il tuo destino, Marinette. Io ti ho cresciuta per questo.»
«Io…» Marinette fece vagare lo sguardo per la stanza, portandosi le mani
al collo e scuotendo la testa: «Io…»
«Vostra altezza.» mormorò Fu, facendo un passo verso di lei mentre
Marinette continuava a indietreggiare, negando con la testa: «Principessa
Marinette…»
«Io non sono una principessa.»
«Lo sei, Marinette. Sei la figlia di Tom Dupain, l’unico che avrebbe
dovuto governare Paris. Tu sei…»
Marinette fece un altro passo indietro, scontrandosi contro qualcosa: si
voltò, osservando Otis chinare la testa in segno di rispetto e, alla vista
di quell’uomo burbero che aveva sempre ripreso lei e la figlia, qualcosa
si ruppe; Marinette si voltò, correndo nello stretto corridoio e
raggiungendo la porta d’ingresso dell’abitazione, armeggiando con il
catenaccio e cercando di aprirlo.
«Marinette.»
La voce di Alya la fece voltare e si trovò a osservare l’amica, a pochi
passi da lei: «Tu sapevi tutto?» domandò, fissando lo sguardo nocciola
venire attraversato da una luce colpevole: «Sapevi tutto?»
«Mia madre mi ha informato, quando ero piccola. Io dovevo proteggerti,
stare attenta a te quando noi…»
«Mi hai mentito.»
«No! Io ti voglio bene, Marinette. Sono grata di essere la tua migliore
amica…»
«Ma non hai pensato a informarmi?»
«Non potevo, Marinette.» mormorò Alya, abbassando le spalle e scuotendo la
testa: «Non potevo.»
La mora scosse il capo, riprendendo a lavorare sul catenaccio e, una volta
riuscito a togliere, aprì la porta di legno e si gettò fuori, iniziando a
correre per i vicoli di Paris: lei era la figlia di Tom Dupain? Lei faceva
parte della famiglia maledetta, la famiglia il cui nome portava solo
morte?
Nessuno le aveva detto niente.
Tutti l’avevano fatta vivere in una menzogna e ora, di punto in bianco,
volevano che lei accettasse tutto e prendesse il suo ruolo nello
spettacolino che avevano organizzato.
Sua madre. Alya. I Césaire.
Tutti quelli che conosceva le avevano mentito.
Si fermò, voltandosi indietro e sentendo alcune voci.
L’avevano seguita? L’avrebbero riportata in quella stanza?
Scosse il capo, riprendendo a correre e allontanandosi, quanto più poteva,
da tutto ciò che aveva sempre conosciuto: il luogo dove era cresciuta, il
luogo dove tutti le avevano mentito.
Si tirò su il cappuccio del mantello, sfiorando con i mignoli gli
orecchini che aveva indossato quella sera e che aveva nascosto alla vista
della madre, sistemando le ciocche dei capelli: «Chat Noir…» mormorò,
ricordando il ragazzo mascherato che le aveva fatto quel dono, il giorno
del suo compleanno.
Lo stesso che le aveva dato appuntamento a Notre Dame e le aveva
dichiarato il suo amore.
L’unico che, nonostante il mistero che gli aleggiava attorno, non le aveva
mentito.
Strinse la stoffa del mantello all’altezza del cuore, sentendo l’aria
mancarle: avrebbe voluto piangere, avrebbe voluto gridare, sarebbe voluta
tornare indietro e dire a sua madre tutto quello che stava pensando.
Avrebbe voluto…
Avrebbe voluto rivedere quel ragazzo dagli occhi verdi e i capelli biondi.
Avrebbe voluto…
Scivolò per terra, mentre le prime lacrime le bagnarono le guance e lei
rimase lì, con le braccia strette all’addome, il cuore che le doleva per
le menzogne della sua vita e per quel ragazzo che, volutamente, aveva
allontanato da sé.
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