Who will sing for the Nightingale

di _Orlando_
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Note per la comprensione dei vocaboli sindarin meno noti:
Amon Uilos = Taniquetil.

Belegurth = Melkor.
Dor-Rodyn = Valinor.
Gorn (pl. Gornhoth) = nome utilizzato dai Sindar per riferirsi ai nani in senso ostile.
Rodon (pl. Rodyn) = Vala (pl.Valar).



 

I’d give anything to hear

You say it one more time,

That the universe was made

Just to be seen by my eyes.


 

(Sleeping at last- Saturn)


 

Nell’umile cella di pietra scura dove lo avevano condotto le guardie del re del bosco, tra spesse pareti coperte di muschio, la rabbia impotente di Thorin si era accresciuta al punto di superare la disperazione.


 

Sporco di nera terra e delle viscide secrezioni dei ragni, con le gambe che tremavano per la fame, a lungo era stato trascinato in catene dalla guardia silvana per i sentieri segreti tra gli alberi. Gli stessi che aveva percorso da giovane nano, ma che adesso faticava a riconoscere, tanto si erano ammantati di ombra e terrore. In modo indecoroso, umiliante per il suo segreto lignaggio, era stato infine gettato di malagrazia ai piedi del trono di legno intarsiato. Il principe dei Khazad, riscossosi per quell’offesa dall’innaturale torpore che lo aveva colto nella foresta, aveva risollevato bellicosamente la testa, il braccio di nuovo preparato alla lotta, i muscoli tesi di un lupo pronto a balzare. Ma il respiro gli era morto in gola quando il suo sguardo aveva incontrato quello il cui ricordo lo aveva ossessionato nei lunghi anni dell'esilio. Poiché se nella memoria i lineamenti si erano fatti sfumati, assumendo i contorni del sogno, le sembianze remote di un idolo antico, adesso il re degli elfi si stagliava altero davanti a lui, reale e abbagliante, infuso di vita. La stessa bellezza spietata e immutabile, ostentata con pose sfrontate. E l’orgoglioso nano si era sentito, per un attimo, pieno di disperata vergogna per il suo aspetto lacero, per i capelli bianchi che tingevano la sua chioma e le rughe che profonde, ormai, gli solcavano il volto: i segni di una vita da esule, trascorsa lontano dal trono che gli spettava, e che aveva ridotto in frantumi le sue illusioni puerili. Esule di un destino che non aveva compiuto, ma che non di meno gli apparteneva.


 

"Chi sei, e cosa facevi tra i miei alberi con i tuoi compagni?" aveva domandato l'elfo con ostentato distacco."Come osate disturbare i miei sudditi?"

A quelle dure parole la collera nell’animo di Thorin era salita senza più freni, torcendogli le viscere e infiammandogli il volto. Non comprendeva per quale sordido intento il re stesse fingendo di non riconoscerlo. Dacché, il principe ne era certo, né i segni crudeli del tempo, né l'indegno stato, avrebbero mai potuto nascondere all'elfo l’identità di colui che aveva davanti. Aveva deciso, comunque, che non avrebbe avuto, qualsiasi cosa fosse, ciò che cercava: lo avrebbe ripagato con la stessa moneta.

"Non siamo che viaggiatori, la disperazione ci ha condotti alla tavola dei tuoi sudditi, per gli implacabili morsi della fame" aveva risposto, ostentando un tono umile che mal si accordava con lo sguardo, fattosi cupo come la notte montana, che spavaldamente sfidava quello algido e glauco del re.

Per tre volte l’elfo aveva posto la stessa domanda, per tre volte ottenendo la stessa risposta.

"Ebbene, poiché non vuoi dirmi chi sei, resterai nelle mie celle sino a che il tuo consiglio non sia mutato" aveva tuonato infine Thranduil, stremato.

E a quel punto la fiera ira dei Khazad, come troppo spesso era accaduto in passato, aveva preso il sopravvento sulla prudenza. Il pensiero del nano era corso alla propria missione, vedendola nuovamente perduta a un passo dal compimento. Fuori di sé, mentre le guardie lo trascinavano via dalla sala del trono, aveva gridato contro all’elfo parole ingiuriose, nella dura lingua dei figli di Durin.

 

Adesso sedeva in un angolo della piccola cella, le cui volte scure erano invisibili nell’umida penombra che avvolgeva le segrete. Furente, a lungo aveva gridato, agitandosi come una fiera, rifiutando il cibo, fino a che, provato dagli stenti, aveva ceduto a un inquieto riposo, laddove il sonno non poteva aver ragione del suo tormento.

La guardia che sopraggiunse nel cuore della notte lo trovò sveglio, gli occhi spalancati nell’ombra.

"Il re desidera parlare al prigioniero in privato" sussurrò, avvicinandosi alle sbarre. E in Thorin il livore si accrebbe oltremodo nel riconoscere, alla pallida luce della lanterna, la lunga treccia dell’elfo: lo stesso che lo aveva condotto, in quel giorno lontano, per la prima volta nelle stanze di Thranduil.

"Che sottile ironia, da parte di chi rinnega di ricordare, di me, persino il nome. E se io non volessi incontrarlo?"

"Non hai altra scelta, gorn." rispose tagliente la guardia. I lunghi occhi brillarono di una scintilla, un rancore ancestrale “Il nostro re è sin troppo magnanimo. Ben altro meriterebbe la tua razza, per poter dire vendicati i torti subiti, e anche a quel punto niente potrebbe riparare l’estinguersi di un regno immortale.”

Era stato scortato per i lunghi corridoi, grottesco ripetersi del percorso che innumerevoli volte aveva seguito da fanciullo, col cuore pieno di sogni, per giungere, infine, alla medesima porta. All'interno, il re degli elfi, avvolto in una preziosa veste porpora ricamata d’argento, gli ostentava, con noncuranza, le spalle.

"Galion, lasciaci" mormorò, voltandosi appena, e il servitore scomparve in silenzio, chiudendo la grande porta di legno dietro di sé.

 

"Vedo che il coraggio non ti manca, elfo. Non temi che possa torcerti il collo, approfittando del segreto delle tue stanze?"

 

"Non ti temo, figlio di Thrain, e mai lo farò." Thranduil si voltò, e al nano parve di vedere i suoi lineamenti comporsi in una dolorosa espressione. Ma fu solo per un fugace istante, poiché d’improvviso l'elfo fu dietro di lui, accostandogli una lama alla gola.

 

"E non solo perché sei un semplice nano, che sarebbe morto prima di poter giungere a sfiorarmi gli stivali" sussurrò con ferocia, per poi allontanarsi di nuovo, e recuperare l’algido contegno.

 

"Ebbene, infine ricordi chi sono" rispose Thorin con un sorriso tagliente. "Quella deplorevole farsa nella sala del trono era forse un abile trucco per intrattenere la tua corte?"

 

“Per giorni hai disdegnato il cibo che ti ho fatto portare. Al contrario, i tuoi compagni ne hanno approfittato con sin troppa solerzia."

 

"Venefico è ogni tuo dono, anche quando si ammanti del sapore del miele" tuonò Thorin. " Non mi blandirai con del cibo, e men che meno con le parole"

 

"Non è mia intenzione blandirti, né avrei arrestato la tua missione - non illuderti che non la indovini - se non la ritenessi uno sciocco massacro, mortifero per te e i tuoi compagni, in cui rischi di gettare tutta la Valle. Ricordo un giovane nano che disprezzava l'avidità di suo nonno. Perché, ora, la stessa avidità ti conduce qui?"

 

"Sono forse io re Thror?" gridò Thorin, furente. "Non è stato il desiderio di gemme a condurmi qui, ma il dovere nei confronti del mio popolo in esilio."

 

"Non lo hai compiuto da tempo, conducendolo a una nuova pace, nelle Montagne Azzurre?" chiese l’elfo con voce solenne, aggrottando la fronte.

 

"E dovrei dunque, ora che il drago da anni è silente, pascermi di una vita da esule, imponendola al mio popolo, e lasciare che altri prendano il posto dei padri nelle antiche sale? La Montagna è dei nani. O speravi, forse, che ne saremmo rimasti lontani, lasciando l'oro agli elfi?"mormorò Thorin, la voce colma di collera trattenuta, mal celante quanto quelle parole facessero eco ai suoi stessi tormenti.

Invero, a lungo lo aveva divorato, prima di partire, il dubbio. Le Montagne Azzurre erano state un rifugio sicuro, e molti dei suoi compagni non rimpiangevano ciò che si erano lasciati alle spalle. Un regno di ricchezze, ma da difendere con la spada dai perfidi draghi del Nord: chiunque avesse udito i vecchi racconti sapeva che il temibile Smaug non era stato il primo ad accorrere al richiamo dell’oro, e che certo altre creature dell’ombra sarebbero giunte dopo di lui. E anche i più arditi avevano rinunciato all’impresa dopo l'orrido scontro di Moria, in cui centinaia dei loro fratelli erano caduti sotto ai colpi furiosi degli orchi, ed il popolo aveva perso due re. Nel ricordo la Montagna Solitaria aveva assunto, come le nobili aule di Khazad-dum, una dimensione irreale e lontana: un mito di bellezza e ricchezza mortifere, che assomigliava più alle leggende dei giorni antichi che non al desiderio nostalgico di una dimora ancora tangibile. No, non era soltanto per dovere verso il suo popolo che era partito. La sua impresa, al contrario, era stata sconsigliata da molti, considerata la follia di un giovane ingenuo, e pochi dei suoi avevano deciso di seguire i suoi passi.


 

"Accusi me di avidità, ma è un'accusa che dovresti rivolgere piuttosto a te stesso." aggiunse infine, provocando l’elfo nel tentativo di mettere fine alla sua stessa angustia. "Anche i nani conservano la memoria dell’antico re elfico che il desiderio di gemme proibite trascinò alla rovina, e condusse alla distruzione un regno immortale. E gli elfi, a quanto sembra, non traggono insegnamenti dagli errori passati."


 

"Fu l'avidità dei nani a distruggere quel regno, principe, benché i vostri racconti, per vergogna, riportino il contrario. Ti dimostrasti di miglior consiglio quando eri un fanciullo, ma è evidente che l'età non accresce la saggezza nella stirpe dei naugrim. Te lo chiedo, adesso, ancora una volta: chi sei, e verso quale meta stavi attraversando il mio regno?"


 

Thorin non proferì motto, le labbra serrate in un ostinato mutismo. Il re degli elfi a lungo lo scrutò, immobile, in attesa di una risposta. Ma gli occhi del nano rimasero fissi sul pavimento, cupi e insondabili come il cielo notturno, e così egli non poté scorgere il velo che era sceso sullo sguardo dell'altro. Colse soltanto l'inflessione dolorosa nella sua voce che richiamava le guardie, per poi sparire nell’ombra, quasi fosse fatto della stessa consistenza impalpabile.

"Portatelo via."


 

Glorfindel correva per le vie della Città Segreta, avvolte di fiamme e di fumo. Quando il sole era sceso dietro ai Monti Cerchianti, i Gondothlim si erano accinti a celebrare, come ogni anno da tempi immemori, la Festa d’Estate sotto le stelle, pallido ricordo della gioia perenne di Tirion. Ma presto un’altra luce, in un fatale istante, aveva squarciato il cielo notturno: quella funesta delle fiamme di Morgoth. Migliaia di orchi avevano stretto la città in una morsa implacabile, e con essi erano sopraggiunti Balrog a cavallo di draghi di fiamma, e lucenti serpenti di ferro e d’ottone. Sin troppo agilmente avevano perso le mura, e i guerrieri del Fiore D’Oro avevano combattuto alacremente una disperata battaglia, prima di cedere anche la piazza del Mercato Grande. Glorfindel infine, coi pochi dei suoi ancora in vita, aveva dovuto ritirarsi, impotente, nelle cerchie più alte della cittadella. Innumerevoli volte aveva cercato Ecthelion al suo fianco nel corso della battaglia, tradito da una consuetudine lunga di secoli, ma il Signore della Fonte aveva deciso di restare, coi suoi uomini, a difendere il re in prossimità del palazzo.


 

Il mio compito è quello di proteggere la Torre ed il re di Gondolin” aveva detto a re Turgon con voce melodiosa “a fianco della Casa dell’Ala, guidata dal fiero Tuor, a cui una grande amicizia mi lega. Il nemico pagherà col sangue ogni pietra insozzata dai suoi piedi immondi, e hai la mia parola che, anche se la città dovesse cadere, la tua stirpe scamperà alla battaglia. Attraverso le oscure gallerie che portano al mare la forza degli Gnomi potrà risorgere ancora. Idril, tua figlia, e il giovane Earendil vedranno di nuovo la luce del sole.”

 

Questo è quanto il mio cuore desidera, mio signore” aveva ripetuto, passando accanto a Glorfindel senza rivolgergli motto. L’animo del Signore del Fiore D’Oro a quelle parole si era riempito di angoscia, e dell’amaro sapore dell’abbandono. L’altero Signore della Fonte si offriva in sacrificio per una missione sconsiderata e mortale, senza neppure degnarlo di un saluto, quando lui non avrebbe desiderato altro che poter morire al suo fianco. Un muro di freddo distacco adesso lo separava da colui che considerava, sino a ieri, amante e fratello.

Con il cuore pesante, aveva lasciato che la sua rabbia si mutasse in ardore guerriero, e aveva combattuto senza risparmiarsi, ma invano. Le mura non avevano retto, e l’aureo elfo aveva compreso che la città era perduta.

Ma non i suoi abitanti” pensava, dirigendosi coi pochi rimasti dei suoi verso la Torre, il prezioso mantello incrostato di gemme ormai lacero e lordo di sangue di orco. La figlia del re aveva parlato di una strada segreta, tramite cui avrebbero potuto mettere in salvo gli esuli. Ma Glorfindel non aveva intenzione di cedere, non ancora. Non prima di aver lottato per ogni singola pietra, non prima di aver convinto il suo sovrano a fuggire con gli altri. Gli avrebbe coperto la fuga a costo della propria vita.

Una volta giunto nella Piazza del Re, lo scenario che gli si presentò davanti gli riempì il cuore di uno sconforto ancora più profondo. Sparuti gruppi di elfi, le cui insegne appartenevano a case diverse, combattevano semza più guida eppure ancora ferocemente contro giganti di fiamme oscure, armati di lunghe fruste incandescenti, abbaglianti nell’ombra notturna. Ma ancor più di quella scena mortifera, fu un particolare a fargli perdere il fiato: a lato della grande fontana, Tuor stava adagiando a terra il corpo di Ecthelion, in deliquio. L’animo stretto in una morsa di angoscia, si avvicinò a grandi passi, spazzando via con l'acciaio gli uruk che avessero l’ardire di ostacolarlo senza neanche notarli, cieco ad ogni altra cosa.

E se quel mattino si era chiesto se mai avrebbe potuto riaccogliere il compagno tra le braccia, poiché la sua brama di eccellere non aveva esitato a calpestare un sodalizio che durava da secoli, adesso, a un passo da una fine che appariva ad ogni istante più certa, il suo orgoglio era stato soverchiato dal sentimento che portava nel cuore, giacché -in quell’istante lo comprese- nulla avrebbe potuto realmente spezzare ciò che lo legava al Signore della Fonte.

Quando lo raggiunse, gli sollevò cautamente la testa, ancora coperto dall'elmo, prendendola tra le mani. Il braccio sinistro era stato lacerato da un colpo di frusta, e nella mano contratta in modo innaturale, coperta da un guanto d’argento, stringeva ancora un flauto spezzato. Il volto di Ecthelion era cinereo, impregnato di freddo sudore, e teneva gli occhi fissi verso il cielo notturno, come scrutando stelle lontane. Ma non c'erano stelle nel cielo, oscurato dal fumo della battaglia: ogni luce li aveva ormai abbandonati..

"Ecthelion" lo chiamò sussurrando, sconvolto, e l'altro si scosse, la vita tornò ad animare il suo volto. Gli occhi grigi e profondi del Signore della Fonte si volsero su di lui, ma il suo sguardo sembrò attraversarlo.

"Glorfindel" mormorò sorridendo "Perdonami. Neppure questa volta ho saputo proteggerti. Perderai la tua casa per la seconda volta. "Con tocco lieve sfiorò i riccioli luminosi dell’altro, ed il volto sporco di polvere e solcato di lacrime.

"Perché sciocco, hai voluto combattere senza di me?"

"Perché tu potessi vivere mentre io combattevo. E tu, perché credi che ti abbia allontanato dal mio fianco in battaglia? Perché sei qui? Porta in salvo Idril e Tuor, fuggite. La figlia del re conosce la strada.. O tutto sarà stato vano."

"Sono invero uno sciocco, poiché lo comprendo troppo tardi. Ma tu non sei da meno, se pensi che me ne andrei senza di te. Vivere o morire, non m'importa, desideravo solo essere al tuo fianco"

Ecthelion, con le poche forze che gli rimanevano, sollevò il capo. Accostò le labbra a quelle del compagno, e posò la fronte sulla sua.


 

"Glorfindel, ti prego, vai. Questa terra ha bisogno di te. Tieni alta la testa, e il nome dei Noldor. E noi potremo rivederci, un giorno, nell'Ovest, se questo è il volere di Eru."

Il Signore del Fiore d’Oro accarezzò le guance pallide e straziate di colui che era stato il più bello tra i Noldor, e si preparò a sollevarlo tra le braccia, deciso a portarlo in salvo a qualunque costo.

 

In quel momento, una creatura di nere fiamme si avvicinò alla schiera dei Gondothlim. Era più alto e terribile dei suoi perfidi compagni, un mostro di fuoco e tenebra: Gothmog, Signore dei Balrog, secondo alcuni, progenie di Belegurth stesso. La sua ombra coprì per intero gli uomini di Egalmoth dell’Arco Celeste, giunti, spinti da un folle coraggio, sino alla Cittadella. Combattevano in fiero silenzio a fianco di Tuor e della Casa dell'Ala, contro i sette draghi di fuoco che avevano circondato la Piazza del Re, senza retrocedere di un passo davanti alla morte. I loro corpi venivano scaraventati a terra, fantocci senza peso, dalla folle belva dagli occhi di brace. Glorfindel sentì, per la prima volta, la soffocante morsa della paura avvolgergli il petto e spezzargli le gambe. Comprese che ogni lotta sarebbe stata vana. Nondimeno, si preparò all'attacco, frapponendosi tra il gigante e il corpo dell'amante, poiché mai avrebbe assistito, da vivo, alla morte di Ecthelion.


 

"Signore della Casa dell'Ala" gridò, la voce ferma di chi non tema la morte, rivolgendosi al nobile Tuor che era accorso al suo fianco, preparandosi anch’egli ad attaccare la bestia. "A te affido la vita del Signore della Fonte. Promettimi che lo trarrai in salvo, che lo condurrai oltre le Sette Cerchie, sino.." Non poté continuare, poiché un colpo assestato sotto allo sterno gli mozzò il respiro, ed egli cadde in ginocchio, impotente.

Ecthelion, infatti, gridando di rabbia, lo aveva colpito senza riserve, e si era scagliato, raccolte le ultime forze, verso l'orribile creatura. Spiccò un balzo, ed a Glorfindel parve che un lampo dell'argento più puro rischiarasse la piazza ormai fetida, e che la luce di nuovo squarciasse le tenebre, quando la minuscola figura del guerriero si proiettò, la lama affilata di Orcrist stretta nella mano destra, contro l'immensa creatura, colpendola al petto. Il Balrog ruggì di dolore, e la speranza si riaccese nella piazza di Gondolin, mentre i suoi movimenti scomposti facevano sussultare la terra. Ma fu solo un attimo, poiché con un movimento delle grandi ali di fiamma Gothmog scaraventò a terra il Signore della Fonte: il braccio colpito perse la stretta sull'arma, che precipitò a terra con un tonfo sordo accanto al corpo martoriato.

Il Signore della Casa del Fiore d’Oro si era rialzato, cieco di rabbia e disperazione, andando incontro alla bestia immonda, i cui artigli si protendevano, avidi di morte, pronti a finire colui che aveva osato sfidarlo. Non avrebbe permesso che Ecthelion perdesse la vita. Non gli avrebbe permesso di sostituirsi a lui. Spettava a Glorfindel proteggerlo, come gli aveva giurato millenni addietro, prima di fuggire dalle Terre Beate. Ad ogni costo lo avrebbe sottratto alla sorte dei Noldor.

"Ecthelion!" Gridò, avventandosi contro al Signore dei Balrog, gli occhi accecati dal fumo, la bocca amara di lacrime. E a Glorfindel parve che il compagno si fosse voltato verso di lui. Incrociò il suo sguardo per un ultimo, lunghissimo istante, e fu in quel momento che sentì la sua voce argentina risuonargli nel cuore. L’aureo guerriero se ne sentì avvolto, e il suo spirito fu colmo di quello dell'amante, dei suoi pensieri, di quella lacerante pena che era anche la sua.

"Ti avevo promesso che sarei stato io a proteggerti, questa volta, e così sarà. Ma se il messaggero di Ulmo potrà riscattare gli esuli, un giorno forse ci rivedremo sui colli delle Terre Immortali. Promettimi che vivrai sino a quel giorno. Io ti aspetterò lì."

"Non lascerò che tra le nostre vite si frappongano le lunge ere del mondo, ti porterò via adesso" aveva gridato, ma la sua voce si era persa nel fragore della battaglia. Perché Ecthelion si era rialzato e, dopo aver incontrato per l'ultima volta lo sguardo dell'amato, si era lanciato, privo di spada, contro al Balrog. La punta del suo elmo d’argento, cesellata nelle sapienti forge degli esuli, si conficcò nel ventre fetido della bestia. Gothmog, sbilanciato, sprofondò con fragore nelle acque cristalline della grande fontana, che per l’ultima volta zampillarono argentee, richiudendosi sul Signore della Fonte che, cadendo, il mostro aveva trascinato con sé.

"Ecthelion" gridò Glorfindel lanciandosi in avanti, attraversando la soffocante coltre di effluvi oscuri che, con un un sinistro boato, si era sollevata dalla fontana. Quando raggiunse le acque, esse erano divenute un abisso tetro, nero di fumo e fetido di sangue. Ma non c'era più traccia del nobile Ecthelion, perché si era inabissato per sempre insieme al nemico, e mai più il suo canto celeste avrebbe risuonato nella Terra di Mezzo. Sulla Piazza del Re, ora che le truppe di Belegurth avevano perso la loro guida, cadde il silenzio.

Tuor, che insieme a Egalmoth aveva bloccato l'avanzata degli orchi, corse in soccorso del Signore del Fiore d’Oro, afferrandolo con le braccia salde sotto le ascelle, poiché in un impeto di folle disperazione si stava gettando nelle buie acque nel vano tentativo di liberare l'amato.

"Ti chiedo perdono mio signore Glorfindel" disse piangendo "perché adesso il Signore della Fonte è morto, e con esso tutta la bellezza dei Noldor, ed io, che per suo volere l'ho affiancato al tuo posto, non ho saputo coprirgli il fianco. Vorrei non essere mai giunto a Gondolin, se il mio arrivo ha contribuito alla fine del Signore della Fonte. E perdonami ancora, adesso, se ti chiedo di abbandonare ogni cosa e seguirmi: non è per mia vece che parlo, ma perché questa era la sua volontà. Ecthelion era valoroso e saggio, e sapeva che non a caso un Rodon pronuncia le sue parole: a lungo si era preparato per il giorno fatale, e se con la sua vita o con la sua morte avesse potuto salvare la Città Nascosta, questo era il suo desiderio. Non renderlo vano. Quanto a me, farò lo stesso: porterò la mia sposa e mio figlio, ed il venerabile Turgon al di là delle Sette Cerchie, e con essi anche l’aureo Glorfindel, perché così ho promesso a Ecthelion, Signore della Fonte, che oggi è morto per la salvezza della stirpe degli Gnomi, e per proteggere colui che amava sopra ogni cosa."

"Ebbene è anche te che ha protetto, sciocco, e con te la speranza di riscatto per una stirpe che lo ha trascinato, senza macchia, nella sua sorte maledetta, avvelenando ogni suo respiro sino a precipitarlo nelle fauci della morte! Era dunque questo, Ecthelion, il prezzo per vedere di nuovo la luce di Tirion? Con quanto altro sangue innocente i signori dell’Ovest esigeranno di lavare l’offesa che gli abbiamo mosso?"


 

Il nano, nel buio della stretta cella, ricordava, suo malgrado, le parole dell'elfo di Imladris. Poiché, nonostante avesse ostentato un freddo contegno, quel racconto di morte, sussurrato nell’ombra della fresca sera odorosa di gelso, lo aveva colpito oltremodo. Il terrore lo aveva colto, come se anche le alte colonne tra cui sedevano si reggessero su equilibri impossibili, e la quiete irreale della casa di Elrond non attendesse che di essere squarciata dalle fiamme di Morgoth. Aveva pensato, da principio, che si trattasse di un racconto inventato, uno di quei canti dei tempi antichi di cui gli elfi amavano esibire la conoscenza. Ma troppo terribile era il volto del narratore, ed il principe più volte aveva dovuto distogliere lo sguardo da quello dell'altro, in preda allo smarrimento e alla nausea, dacché nei suoi occhi rivivevano le stesse fiamme che descrivevano le sue parole.


 

"E dunque ti mettesti in salvo, grazie al compagno che credevi ti avesse abbandonato?"aveva chiesto il nano dopo un lungo silenzio. Poiché la voce di Glorfindel si era spenta, sopraffatta dall'emozione.

Fuggii dalla città in fiamme, ma non a lungo ancora calpestai le terre a est del mare. Mai avrei potuto accettare quel sacrificio per me stesso, ma nondimeno avrei condotto la stirpe di Turgon alla salvezza, come era suo desiderio. Aiutai gli esuli a fuggire, ultimo a coprire la retroguardia. Combattevo, ora lo comprendo, cercando quella morte che, forse, avrebbe potuto ricongiungermi a colui che avevo perduto. Mille volte avrei preferito vivere con lui per tutte le ere a venire in un mondo di tenebra, che luminosa mi sarebbe apparsa se rischiarata dalla luce argentea di Ecthelion, piuttosto che accettare la via verso la salvezza al prezzo della sua vita. E fu così che giunse anche la mia ora, lontano dalle mura splendenti, tra le gole dei monti che ciò che rimaneva dei più alti tra gli elfi attraversavano in cenci, incedendo incerti verso la speranza del mare. Un grande Balrog, sfuggito all'assedio, comparve dagli abissi rocciosi di un alto passo montano. Fui io ad attaccarlo, ingaggiandolo in una lunga lotta dai picchi più alti sino alle più tetre profondità della terra, dando la vita in cambio di quella della mia stirpe."

 

"Sono fantasiosi, invero, i racconti degli elfi, se giungono persino a vantare, ancora in vita, una morte gloriosa" aveva risposto il nano, mascherando con un sorriso di scherno l'inquietudine che, come una coltre di piombo, gli era scesa sul cuore.

 

L’elfo si riscosse, e il velo di morte sparì dagli occhi cerulei, che tornarono a volgersi verso Thorin. "È grazie al volere dei Signori dell’Ovest che tornai dalla morte, come ai Priminati è concesso quando essi giudichino che sia il giusto momento. E rividi, infine, il profilo celeste di Amon Uilos stagliarsi alto contro l'orizzonte, poiché Ecthelion in verità aveva fatto la sua previsione. E così il giovane Earendil, figlio di Tuor e di Idril figlia di Turgon, riuscì, primo fra tutti, ad attraversare il mare per chiedere aiuto e perdono. I Rodyn stessi scesero in guerra contro il Nemico, confinandolo oltre i cancelli del Sole, e riaccolsero gli esuli, dopo millenni di esilio, riscattando la sorte maledetta dei Noldor."


 

Thorin aggrottò le ciglia, dubbioso."Affermi che il tuo popolo riuscì, a prezzo di grandi sacrifici, a scampare alla morte, e a ottenere l’agognato perdono, al punto che infine fosti, come sostieni, addirittura richiamato dalle aule dei morti. Eppure perché adesso sei qui con me, e calpesti nuovamente questa terra sconvolta dall’ombra?”

 

Glorfindel chinò il capo, e le bionde ciocche nascosero a Thorin il volto dai lineamenti gentili. Ma il nano riuscì comunque a scorgere gli occhi dell’altro, che si erano fatti opachi e insondabili, del colore del mare che rifletta un cielo in tempesta.

Non solo per il voto di Ecthelion e per amore dei figli di Finwe mi battei per la vittoria, ma poiché se avessimo fallito, temevo che mai a Dor-Rodyn sarebbe stato concesso il ritorno di colui che io amavo, macchiato della medesima colpa dei suoi fratelli" rispose in un freddo sussurro, e in quelle parole parve riecheggiare l’eco di un odio remoto, di uno spirito fiero che nessun perdono avrebbe domato. "E fui invero richiamato dall'ombra, eppure mai più il fato crudele volle che incontrassi Ecthelion, poiché il suo essere risiede ancora nelle aule di Mandos. Troppo terribile fu la sua morte, e lunghi cicli del mondo dovranno trascorrere prima che possa liberarsi delle tenebre che lo hanno straziato, se mai lo farà prima che i cerchi del tempo giungano al termine. E in quei giorni nessuno sa quale sarà la sorte degli elfi, se vivranno al di fuori del tempo nella grazia di Eru o se spariranno insieme ad Arda, alla quale appartengono. Poiché l’immortalità che le altre razze ci invidiano forse non è che una vita più lunga."


 

Il sussulto del nano a quelle parole non sfuggì all'elfo, e il suo volto si illuminò di un sorriso caldo e gentile. "Un figlio dei naugrim sa bene che anche il più lucido dei metalli con il tempo si consuma fino a divenire polvere." disse, ed il sangue si gelò nelle vene di Thorin, poiché, per un lungo e terribile istante, gli parve che quello sguardo attento e ceruleo, fisso su di lui, avesse il potere di metterlo a nudo, privarlo di ogni difesa, spiando i suoi più nascosti segreti.


 

"Un giorno mi fu offerto di tornare" continuò Glorfindel, volgendosi ad osservare le stelle che iniziavano a sorgere nella volta celeste, "messaggero dell’Ovest tra i pochi degli elfi rimasti e tra i Secondogeniti, per prestare il mio aiuto contro il risorgere dell'Ombra. Accettai senza esitare, poiché amare per me restano le Terre Immortali, di cui sono due volte esule, e nessun luogo potrò chiamare casa, se non risuona del divino canto di Ecthelion."


 

"Qual è mai, dunque, l'Ombra di cui parli? Non si tratta forse che di antiche guerre, il cui ricordo si perde nelle profondità del tempo, materia di leggenda?" Chiese Thorin, la gola stretta in una morsa, perché conosceva già la risposta.


 

"Troppe volte fu detto del Nemico che era sconfitto, e troppe volte è risorto. Sei giovane, nobile Thorin, eppure erede di una stirpe gloriosa, depositaria di grande sapere. Senza dubbio, anche i Khazad sono consapevoli che non vi sarà vittoria duratura contro l'Ombra, perché essa permea il mondo, ed il suo regno continuerà sino alla fine di Arda, per quanto, con le nostre forze, possiamo limitarlo. A lungo ho combattuto sperando di rivedere un giorno Ecthelion, ma sono trascorsi millenni, e nessuna certezza mi è data"

"Ma una reliquia, almeno, ha fatto ritorno" disse Thorin alzandosi in piedi e sfilandosi dal fianco la spada, la cui elsa brillò argentea al chiaro di luna, risvegliando dolorosi ricordi, e la porse all'elfo con un gesto solenne. "Troppo spesso si dice dei nani che essi siano avidi, gelosi dei loro averi. Come hai detto tu stesso, appartengo alla nobile stirpe di Durin, e benché l'amore per le gemme e le armi forgiate con abile arte sia in noi grande, ancor più alto è il legame del sangue, che lega un fratello a un altro fratello. E proprio in virtù di esso comprendo che non era a me che questo oggetto era destinato. Riprendila, elfo, poiché i miei padri non desidererebbero che la tenessi per me, né che fossi debitore ad uno della tua razza."

Glorfindel si alzò a sua volta. Al chiaro di luna l'oro dei suoi capelli si era fatto opalescente, traslucido. Forti erano le spalle dell'elfo, ed egli sovrastava il principe dei Khazad con la sua statura, superiore a quella di molti altri tra i Priminati, eppure in quella notte più che mai parve a Thorin che avesse l'effimera consistenza di un sogno, riflesso ingannevole di un mondo scomparso. Glorfindel sorrise.

"Dimostri un cuore gentile e degno, ed ora molte cose mi sono più chiare" rispose, e la sua voce calda e cullante avvolse Thorin, che pure si sentì sopraffare da una nostalgia di cose mai conosciute, gli occhi brucianti di lacrime dimenticate. Con la punta delle dita, Glorfindel accarezzò l'arma, estraendola dal fodero scuro, ripercorrendone con occhi attenti ogni intaglio sottile.

"Eppure, ancor più il mio cuore mi dice che devi tenerla. La spada è tua, Thorin Scudodiquercia, e che tu possa, con essa, riconquistare una patria perduta, e proteggere ciò che ti è caro.”


 

La mano del figlio di Thrain corse istintivamente all'elsa: trovandola vuota, rabbrividì ancora una volta di rabbia. Naturalmente, gli elfi del reame boscoso gli avevano tolto ogni arma, compresa la spada del leggendario guerriero. Sul volto del nano si dipinse un sorriso amaro. L'elfo della casa di Elrond aveva voluto ammonirlo per il suo presunto orgoglio, impressionandolo con racconti terrifici degli antichi giorni. Ma cos'altro avrebbe dovuto mostrare a chi lo aveva disconosciuto ancora una volta, persino nel ricordo, accogliendolo come un nemico, senza risparmiarsi di farlo perquisire come l'ultimo degli orchi, e, infine, portandogli via persino quell'arma di cui avrebbe dovuto mostrarsi degno? Non tutti i tradimenti erano inautentici e, se vi erano stati alcuni elfi di alti intenti e di nobile cuore, non si trattava certo del suo carceriere.


 

L'aria fredda del Nord era ammorbata dal soffocante grigiore del fumo, mentre il popolo di Erebor si ritirava, fuggendo le aule occupate dalla bestia, rotolando nel fango, fiero lignaggio caduto in disgrazia. Il principe Thorin gridava ordini a fianco di Thrain, nella speranza di trovare un riparo da quell’inferno fiammeggiante. Ma già egli stesso era smarrito, in preda alla più cupa disperazione.

Come avrebbero mai potuto riprendere la Montagna?

Quando vide comparire gli elfi del bosco al seguito di re Thranduil, che cavalcava la grande alce con portamento altero, i lunghi capelli disciolti fermati soltanto da una corona di rami, aveva sentito la morsa attorno al suo cuore allentarsi, e la speranza riaccendersi. Si era slanciato in avanti, dimentico di dove si trovasse, incurante degli occhi del suo popolo, complice la spessa cortina di fumo. “Aiutateci” aveva gridato in modo scomposto “Aiutami” aveva ripetuto al re degli elfi, “il drago è penetrato nelle nostre aule! Dobbiamo..” ma le parole gli erano morte in gola, perché gli occhi di colui che aveva creduto amico, e verso cui sentimenti ancor più profondi nascondeva nel cuore, si erano fatti gelidi e cupi come gli antri della foresta.

 

Ciò che vedi non è che il risultato dell’avidità di tuo nonno, principe, e non sprecherò vite degli elfi per la gloria dei nani, in una missione dall’esito infausto: neppure nei giorni antichi avremmo potuto combattere una belva appena impadronitasi della sua tana, in uno scontro frontale.”

 

Non è la sua tana, quella che tu chiami tale, ma invero sono le aule della stirpe di Durin. Dovremmo disonorare i nostri antenati, abbandonandole al volere di un essere immondo, servo del male? E voi spezzereste le vecchie alleanze, lasciandoci soli contro al nemico? Quanto a me, non una, ma mille volte darei la mia vita per proteggere la casa dei padri, e la gloria della mia stirpe”aveva rispose il nano, la voce roca per la cenere che gli riempiva i polmoni, amara di delusione. Avrebbe preferito affrontare il dolore provocato da mille lame affilate, piuttosto di quello che gli avevano inferto le parole dell’elfo, poiché troppo profondi era divenuti, in lui, l’affetto e la devozione per quella creatura.

Così facilmente mi abbandoni alla sorte, così poco ti importa del mio popolo, di così scarso valore l’amicizia che mi hai dimostrato?” mormorò, mentre sul suo animo cadeva una coltre di piombo. Se gli elfi, loro ultima speranza, non li avessero aiutati, sarebbero stati davvero perduti, condannati all’esilio ed alla rovina.

Il male è già penetrato in quelle aule, impadronendosi di tuo nonno, e attirando altro male!” sibilò il re degli elfi, e la sua imperturbabile maschera si ruppe: gli occhi glauchi si incendiarono sotto alle ciglia, aggrottate in una smorfia d’angoscia, deformando la grazia eterea della fronte d’alabastro. “Hai dimostrato saggezza, non lasciare che l’impetuosità della giovinezza prenda il sopravvento sulla ragione: guida il tuo popolo lontano, in modo che possa vivere oggi, e poter divenire nuovamente glorioso all’alba di un nuovo giorno. Non è nel potere degli elfi ribaltare le sorti di questa battaglia, anche se senza riguardo per i miei sudditi li condannassi alla morte, gettandoli tra le fauci di Smaug. Né la tua vita mi è meno cara, perché io pensi di aiutarti a perderla in una missione senza ritorno.”


Thorin serrò la mascella. Quel giorno aveva dato all’elfo del codardo, gridando parole amare, rese taglienti dalla disperazione. E poi se ne era andato, divenuto da principe glorioso nient’altro che un esule in stracci in un giorno soltanto. Ma più di ogni umiliazione, bruciava in lui il veleno di quella ferita, la disillusione di quel tradimento che aveva mandato in frantumi i suoi sogni di fanciullo. Aveva creduto all’affetto dell’elfo, e questi lo aveva ripagato con indifferenza e freddo distacco, non esitando ad abbandonarlo al suo destino. Inutilmente si era ammantato di belle parole. E nelle lunghe giornate in cui a testa bassa aveva lavorato alla forgia, al soldo di qualche fabbro della stirpe degli uomini, aveva ripetuto i suoi giuramenti di vendetta. Ma quando il tentativo folle di riprendere Moria costò la vita di suo nonno e la scomparsa di Thrain, quando vide il campo di battaglia intriso del sangue dei nani, coperto degli innumerevoli corpi mutilati dei suoi fratelli, e si trovò ad essere l’unica guida di quel popolo martoriato, decise che la vita della sua gente sarebbe stata per lui più preziosa di tutte le gemme di Arda, e che l’avrebbe preservata a costo di non poter preservare la gloria dei figli di Durin, e di coprirsi, re senza trono, di vergogna.


 

“Ancora immerso nei tuoi cupi pensieri? Quando il cuore di un nano potrà abbandonare il rancore?” La voce di Thranduil si insinuò nella sua mente, interrompendo le sue riflessioni, mentre la figura dell’elfo scivolava nella cella, come emersa dall’ombra stessa.

 

“Cosa vuoi? Non hai ancora finito di tormentarmi? A sufficienza ormai la tua presenza ha funestato i miei giorni. Conosco sin troppo bene il tuo modo di agire, e le tue parole non mi ingannano più, dacché gli eventi mi hanno rivelato la tua vera natura: a lungo ti sei mostrato mio amico ma, nell’ora del bisogno, non hai esitato a voltarmi le spalle”

 

“Ti inganni, attribuendomi la causa della tua malasorte e credendo che vi fosse una scelta laddove non ve n’era alcuna. Se anche avessimo combattuto, a nulla sarebbe valso il sacrificio del mio popolo, le cui forze venivano ingigantite dalle tue fantasie di fanciullo. Né tu, adesso, saresti qui per reclamare le tue aule, poiché, rincuorato dall’aver ottenuto supporto, ti saresti gettato tra le fauci del drago.”

 

Il re degli elfi si era chinato sul nano, gli occhi abbaglianti di luce siderea.

“Eppure, ancora non mi hai detto il tuo nome” mormorò in un sussurro, accostandosi arditamente al volto dell’altro. Thorin avvertì il respiro del re sulle sue labbra, tiepido e triste come il sole di una primavera che non aveva vissuto. E nonostante avesse di fronte nient’altro che l’essere verso cui da tempi immemori coltivava il proprio rancore, solo con indicibile sforzo riuscì a non cedere all’impulso di annullare la dolorosa, straziante distanza che lo separava dall’elfo, e premere la bocca contro la sua.

Ricordava sin troppo bene il sapore di quelle labbra, poiché solo pensiero era stato per lui un veleno in grado di fiaccargli lo spirito e spezzargli il respiro. E di precipitarlo nel dubbio, facendo vacillare i suoi più cocciuti intenti. Ma cedere era una debolezza in cui il fato non gli aveva concesso di indulgere, o mai avrebbe avuto la forza di condurre il suo popolo senza esitare, o senza impazzire. Complice l’orgoglio della stirpe dei Khazad, aveva giustificato con il tradimento la propria sconfitta, e per più di un secolo aveva sepolto quei ricordi: di quando ancora tra l’intrico di rami del regno degli elfi comparivano le stelle, e la notte aveva il profumo della foresta, di capelli argentei che rilucevano su una pelle eburnea alla luce lunare. E di un corpo d’alabastro stretto tra le sue braccia, di gemiti sussurrati e promesse di eternità smarrite tra gli alberi, e poi appassite come le foglie in autunno. Troppo a lungo li aveva sepolti, allontanati dalla coscienza, al punto che la realtà si confondeva con l’immaginazione della sua giovinezza, e più non sapeva come distinguerle. Vi era davvero stata un’epoca in cui aveva tenuto tra le braccia quella creatura?

Di nuovo, sentì risuonare nella sua mente il commiato dell’elfo di Imladris.

Vai, ma ricorda le mie parole, poiché invero la brama dell'oro può rendere ciechi, e così l’orgoglio, ma a perderti sopra ogni cosa sarà la paura che porti nel cuore."

 

“Ebbene, mi chiedi chi sono, eppure non posso risponderti. Ed è questo ciò che realmente mi spinge a tornare verso la Montagna. Motivazioni che appartengono a me solo, e non al mio popolo. Non mi nasconderò più, attribuendoti ancora la colpa della rovina dei nani, che tu ne partecipi o meno. Non ho fatto ritorno per la brama di oro o di gemme, o di un regno che mi spetta per diritto di sangue, e neppure per la nostalgia di una patria perduta, né per riscattare la mia gente da un’immemore colpa, ma per me e per me soltanto”.

Inspirò profondamente, poiché l’aria continuava a mancargli, e le vertigini lo avevano colto. Chiuse le palpebre, e rimase a lungo in silenzio, in attesa che ciò che doveva esser detto si facesse strada attraverso gli intricati peripli del suo animo.

Riaprì infine gli occhi, deciso a liberarsi di ogni timore. Thranduil era davanti a lui, una muta domanda scritta nei grandi occhi, e per Thorin fu come vederlo per la prima volta, ammantato di sfolgorante bellezza. E non vide solo il freddo splendore degli Eledhrim, riflesso delle prime stelle del mondo, immutabile come le sfere celesti, né solo la potenza tenebrosa e indomabile della foresta, in agguato costante negli occhi di brace. Vide anche una creatura di carne e di sangue, il cui animo portava i segni dolorosi delle lunghe ere di Arda, e i cui lineamenti narravano di tormenti senza nome né tempo, di vittorie pagate a prezzo di scelte impossibili, e il cui capo portava il peso crudele della solitudine. Thorin sorrise, mentre il battito impazzito del suo cuore a poco a poco tornava a farsi lento e potente.

“Invero è questo ciò che ho realmente lasciato nelle alte aule della casa dei nani: me stesso. E Mahal sa se non preferirei piuttosto affrontare tutti i Balrog di Morgoth, eppure troppo a lungo ho creduto di poter mancare a questo confronto. Poiché più di ogni altra cosa temo quella tenebra che ha divorato Thror, la malia dell’oro di Erebor che come un veleno corrode la mente e spezza la tempra della mia stirpe. Ma se non l’affronto, essa avrà vinto comunque, condannandomi a un’esistenza miserevole, trascorsa a tremare per il timore della mia stessa ombra. Non vi è, come vedi, altra scelta per me, se non quella di sconfiggere ciò che si cela in quella montagna, o morire nel tentativo. E, paragonato a questo, confesso che il drago mi appaia ben poca cosa”

Il volto di Thranduil si illuminò, squarciando l’espressione di disdegnoso contegno. Egli chinò il capo, chiudendo le palpebre sulle pupille iridescenti velate di lacrime, sussurrando con voce commossa “Bentornato, Thorin Scudodiquercia.”



 

Note dell’autore: Con prevista ma comunque imperdonabile latenza ecco la seconda parte di questa storia. La prossima, che purtroppo tarderà anch’essa, sarà l’ultima. Ho scritto questo capitolo pensando, oltre ovviamente ai Racconti Perduti, all’Athrabeth Finrod ah Andreth (HoME, vol.10), specie per il dialogo tra Glorfindel e Thorin, e ad essa mi sono attenuta per quanto riguarda gli accenni alla sorte degli elfi alla fine di Arda.

Per quanto riguarda la scelta dell’uso del Sindarin, rimando alle note del primo capitolo. Ho lasciato “Eärendil” nella sua forma Quenya perché non mi sono note possibili forme sindarinizzate, se non del tutto ipotetiche, e “Noldor” perché la forma sindarin “Golodhrim” non era usata, stando a “Quendi and Eldar” (HoME, vol. 11), dagli esuli per descrivere se stessi, in quanto percepita come poco lusinghiera. Avrei potuto usare la forma (G)Odhellim, ma mi sembrava artificioso. Stessa cosa per “Arda”.

Per ciò che concerne l’incontro tra Thorin e Thranduil, ho mischiato le suggestioni del film e del libro, ispirandomi maggiormente ai dialoghi di quest’ultimo perché trovavo significativo che il re degli elfi chiedesse al nano cosa facesse nella foresta, e ho giocato un po' col fatto che nel libro sembri (o finga di) non conoscerlo, mentre nel film sa benissimo chi sia.


 

Come sempre, ringrazio Miele e Cianuro e Rosebud efp per il betaggio amorevole che dedicano alle mie storie. “La Caduta di Gondolin” di Miele e Cianuro - con cui già avevamo in comune una simile concezione di Glorfindel ed Ecthelion - ha contribuito molto ad arricchire e stimolare il mio immaginario sugli esuli, oltre ad essere un testo splendido che consiglierei a chiunque di leggere. Il mio immaginario Thorinduil invece è inevitabilmente influenzato dalle storie e dagli headcanon di Rosebud efp e di Aliseia, con le quali a lungo ci siamo scambiate considerazioni in merito: è a loro che dedico questa storia.

Infine, grazie a chi commenta, segue o soltanto legge, ed in particolare a Losiliel, che ha avuto la bontà e la pazienza di segnalarmi anche alcuni refusi, mostrando un immeritato interesse per questo modestissimo testo e contribuendo a renderlo migliore.


 

Con affetto,


 

Orlando



 





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