Human
Disclaimer: Albert
Wesker, Alex Wesker e tutti gli altri personaggi appartengono a Shinji
Mikami, alla Capcom e a chi
detiene i diritti sull'opera. Questa storia è stata scritta
per puro diletto personale, pertanto non ha alcun fine lucrativo.
Nessun copyright si ritiene leso. L’intreccio qui descritto
rappresenta invece copyright dell'autrice (Nocturnia) e non ne
è ammessa la citazione altrove, a meno che non sia
autorizzata dalla stessa tramite permesso scritto.
"You can't stop the
future,
you can't rewind
the past.
The only way to
learn the secret is to press play."
- Jay Asher -
Human
La memoria è tutto ciò che siamo: la radice della
nostra storia.
Alcune maturano in commedie divertenti e spensierate, altre in tragedie
da cui è impossibile nascondersi.
Sulla nostra pelle le cicatrici sono ricordi, ferite che il tempo ha
sbiadito - ma la memoria no,
quella
mai.
Alex percorre con la punta dell'indice un filo pallido e sottile che
l'attraversa dal petto al pube, lo stigma indelebile di una scelta - di una
confessione.
La sua storia è scritta su un corpo non suo, rubato - che il
virus distrugge ogni
giorno, modella e
plasma e
modifica e (ri)crea.
Alle sue spalle Polignano mormora - si sveglia.
Vivere è come bruciare.
Non è stato facile.
Non è stato semplice, o indolore.
Skiathos l'aveva morso dove faceva più male, stritolando
il suo orgoglio - la coscienza che aveva di se stesso.
Wesker fissa Alex spiegare a uno traslocatori dove sistemare il piano
cottura, raccogliersi i capelli in un nodo confuso sulla nuca.
Scivola con lo sguardo sulle finiture laminate, si riflette in un rosso
pompei che gli ricorda il colore del sangue.
Alex gli rivolge un'occhiata in tralice, alza un sopracciglio.
Wesker si sente improvvisamente fuori posto.
"Ti piace?" gli chiede, e Albert non sa cosa rispondere.
Acciaio e rovere fumé, marmo e bronzo: tutto in
quell'ambiente parla di un'eleganza ricercata - di lei - eppure
Wesker si scopre vuoto di parole.
Preso in contropiede.
Ruota con l'indice la tazza di caffè, annuisce.
"Bene." replica Alex, e comincia a sbucciare una mela "Domani
arriverà anche il resto dei mobili."
È il dialogo più lungo che hanno avuto da allora.
Alex aveva infranto la quiete di Polignano esattamente come aveva fatto
con Sushestvovanie - tagliando e
bruciando.
Ha scelto un appartamento di pietra bianca e roccia, un luogo aggredito
dal mare e dal suo azzurro impossibile - che vi si getta dentro senza
paura.
L'ha arredato come se dovessero potessero
restare lì per
sempre, specchi in foglia d'oro e piastrelle a mosaico.
Mostra,
Alex, e non si nega nulla - non più.
Wesker si rigira tra le mani una statua in cristallo e argento, la
fissa.
La sensazione di non appartenere più al proprio corpo si fa
sempre più forte.
"Puoi anche andartene."
È durissima, Alex.
È un profilo sottile che sfuma nelle luci della sera, mani
nervose e che sanguinano attorno alle unghie.
"Non ho bisogno di te." sibila, ed è un serpente crudele
Alex - una femmina che vuole ricordargli chi è,
oltre la
pelle falsa di una ragazzina uccisa come un cane.
"Se ti è di tanto disturbo vivere, Albert,
puoi sempre
tornare a inseguire i tuoi sogni:
magari è la volta buona
che ci crepi davvero."
E ride, Wesker.
Ride, e osserva Alex aggrottare le sopracciglia, stringere le labbra in
una linea contrariata.
"Fottiti."
gli replica, ed è esce dalla stanza sbattendo la
porta.
Wesker si chiede da
quando litigare sia diventato un gesto
così umano.
La trova seduta nel balcone che si affaccia direttamente
sull'Adriatico, i piedi nudi appoggiati alla ringhiera, un filo
d'argento che blandisce la pelle abbronzata della caviglia.
Wesker l'affianca, la punta di una sigaretta che gli sfiora il polso -
cenere nel cielo, tra le sue dita.
Alex inspira, arancione negli occhi, lungo gli zigomi - dove si
riflette la debole luminescenza della brace.
Albert la osserva fissare il mare con un'ostinazione brutale, espirare
- nell'aria l'aroma dolciastro del tabacco (Parliament One, un
accendino Zippo con monogramma inciso sul coperchio che continua ad
aprire e chiudere - tesa,
irritata.)
Alex abbassa il braccio, preme
- lascia che bruci Albert,
che reprima
un sibilo ferito.
Le afferra il polso, sollevandola di peso; la spinge all'indietro, fino
a quando la schiena di Alex non si flette
contro la ringhiera della
terrazza - si piega,
la sigaretta ancora tra le dita contratte.
Wesker le cerca la bocca, morde
quando Alex lascia che la brace lo
ustioni lungo il collo, nella linea scoperta delle spalle.
Schiude le labbra, Alex - le cosce.
Il dolore è una dimensione che conoscono bene, con la quale
hanno imparato a convivere.
Alex percorre le bruciature in punta di lingua, lascia cadere la
sigaretta - lo attira a sé, ed emette un verso basso, di
gola.
Sotto la gonna rossa nulla,
un desiderio sfacciato,
grondante.
Non c'è tempo di aggiustarsi, di adattarsi: Wesker
le preme
una mano sulla schiena, la conduce tra i suoi fianchi - affonda, e Alex
non può fare altro che seguirlo.
Si aggrappa alla sua schiena, al lino di una camicia stropicciata; in
bilico sulla balaustra Alex è un arco di pelle e oro, un
corpo che la notte accoglie in silenzio.
Mormora il suo nome - lo
supplica - e ottiene una scia umida tra i
seni, lungo il collo.
L'orgasmo si raccoglie a basso ventre e strappa.
Addormentarsi è diventata una cosa ridicolmente
facile.
Ha un braccio attorno la sua vita quando si sveglia, il viso affondato
tra i suoi capelli.
Alex è un profilo tenue nel buio della stanza, una curva che
Wesker si trova a seguire con la punta dell'indice.
Spalle morbide, fianchi languidi; il Progenitore ha costruito per lei
un corpo sempre più somigliante a quello vecchio - a una
donna che aveva conosciuto attraverso molti nomi.
S'inarca leggermente sotto le sue mani, voltandosi poi verso il suo
petto e sospirando.
Ha la stessa fiducia di prima, Alex, la stesso cieco e assoluto
abbandono.
Wesker le sfiora la fronte con le labbra, scivola fuori da lenzuola
aggrovigliate e tiepide.
Osserva Alex allungarsi verso il suo posto vuoto, raggomitolarsi poi su
stessa - un déjà-vu che lo riporta a
Sushestvovanie e alle sue albe lattiginose.
Wesker esce dalla stanza senza fare alcun rumore.
Non è ancora sorto il sole quando Alex scende in cucina e si
ferma interdetta a metà della scala, seguendolo con sguardo
sospettoso.
È terribilmente umano Wesker
mentre le porge una tazza di
caffè, occhi che sanguinano e bruciano nella
penombra della
stanza.
Alex lo fissa - lo
studia - e il Progenitore dondola, incerto.
Dubbioso.
Albert appoggia la tazza ancora tiepida sul bancone in acciaio, inclina
appena il mento nella sua direzione.
È silenziosa Polignano, un respiro interrotto solo da quieto
fruscio del mare.
Il Progenitore striscia sotto la pelle, nel sangue - vi si arrotola e
sonda, controlla, cerca.
Wesker lascia che Alex lo divori vivo, che il suo virus rovisti tra le
sue cellule - le sprema,
chiedendo una resa totale e assoluta.
Un passo avanti, e Alex è vicina - troppo.
Un passo avanti è tutto quello che basta, in fondo.
Un passo avanti, e sarà tutto finito: potrà
finalmente iniziare il
resto.
Un passo avanti - Wesker non arretra.
Non questa volta.
Alex alza il viso verso il suo, pupille che si dilatano - desideri e
ambizioni che esplodono,
si avvolgono l'uno sull'altro.
Tra le sue mani Alex è tutto e
niente.
Alex si stropiccia le palpebre, trattiene uno sbadiglio.
Cerca il miscelatore del rubinetto, sobbalza leggermente quando le dita
di Albert s'intrecciano alle sue e la guidano un po' più a
destra.
Alza il viso nella sua direzione, lo osserva aprire l'acqua della
doccia e chiudersi le porte in vetro alle spalle.
Si volta, e lo specchio le rimanda un'immagine normale - che la
rende
debole all'improvviso.
Alex storna lo sguardo da una donna che non
riconosce.
C'era stata una quotidianità aberrante anche
nelle loro vita
precedente.
C'erano stati giorni in cui Albert si era lamentato di un collega
molesto, William del fatto che fossero finite le barrette di cioccolato
al distributore automatico.
C'erano stati momenti di paura, gioia.
La fuga di cinque
Cerberi dai laboratori, nessuno di loro ancora
esaminato; Sherry e la sua prima medaglia - un grumo caldo al centro
del petto che Will aveva chiamato orgoglio.
C'erano state notti insonni passate su risultati che non tornavano mai
- Annette scalza che socchiudeva gli occhi davanti allo schermo del pc,
al suo fianco Alex, ieratica.
C'erano state cene improvvisate nel silenzio del ventre dell'Umbrella,
Will e la sua orribile abitudine
di parlare a bocca piena, gli occhi
stanchi di Annette, la quiete che
ruggiva di Alex - che chiamava lui.
Alex sposta la forchetta di lato, osserva una ratatouille piena di
colori e sapori - l'acidulo del pomodoro, il dolce del peperone giallo.
Storna lo sguardo alla sua sinistra, oltre la ringhiera del balcone e
l'orizzonte.
"A Will sarebbe piaciuto." dice, e Albert la fissa - una camicia di
lino bianco arrotolata fino ai gomiti, occhi nudi - scoperti, artici.
Segue i suoi occhi, la piega triste delle labbra.
Le sfiora il polso, blandendole le dita chiuse a pugno - la convince ad
aprirle e a intrecciarle alle sue, carezzandole il dorso della mano con
il pollice.
Alex inghiotte un sentimento che i più chiamerebbero
nostalgia.
Le vie del centro storico sono piccole, in pietra e polvere; un dedalo
che racconta qualcosa di diverso a ogni angolo, in ogni anfratto.
Ha scelto l'Italia perché è piena di storia e
contraddizioni, un paese gravido di memorie e ricordi - un nazione
delineata dalle proprie cicatrici.
Anche a guardarla sulla mappa i confini tra le regioni le hanno
ricordato cordoli slabbrati e in rilievo, che spezzano la
monotonia di
una pelle sempre uguale.
Alex è vestita solo di un abito in lino azzurro, i capelli
sciolti sulle spalle e un paio d'occhiali neri che le nascondono gli
occhi - vivi sotto
le lenti, frenetici.
È vecchia, Alex, nella mente e nel cuore, eppure mostra una
curiosità quasi infantile.
Ha piegato la paura, domato l'orrore, ingannato la Morte, ma
è una vetrina troppo colorata e troppo profumata ad attirare
la sua attenzione - a strapparle un sorriso.
"Mi piace." gli dice, e indica un uovo di Pasqua decorato a mano "Non
ne ho mai avuto uno."
Albert tace, le mani in tasca e il vento che scuote appena l'orlo della
sua camicia bianca.
"Nadia* era una stronza." continua, piegando verso il basso un angolo
della bocca "Ma almeno sono riuscita a farle ingoiare le sue stesse
viscere."
Albert abbozza un sorriso (perché quello è
territorio loro:
il sangue e
la violenza e
tutto il suo terribile
corollario) la osserva entrare e uscire dal negozio pochi minuti dopo
con un sacchetto di iuta e corda stretto al petto.
"È fondente." gli spiega, sistemandosi la borsa sulla spalla
"Almeno 75%. Granella di cacao extra - amaro al suo interno."
Se lo porta davanti al volto, lo ruota un paio di volte e poi annuisce,
soddisfatta.
"Sì, mi piace." conferma, e prosegue verso la piazza, sicura
che lui la
seguirà - ora e per sempre.
Wesker l'affianca in silenzio.
Non ne parlano mai; non ne hanno bisogno.
Il Progenitore sussurra per loro sogni di conquista, delinea
un'esistenza fatta per schiacciare e dominare e distruggere, fino a
regnare su un mondo morto, perfetto.
In quei momenti Alex ha il buonsenso di lasciare che siano le sue mani
a farle male - la sua pelle a cedere sotto i suoi morsi e ad assorbire
il veleno di un virus instancabile e implacabile.
In quei momenti Alex è la vittima, e lui il carnefice.
A volte i ruoli cambiano, ed è Alex a muoversi inquieta per
la casa, una bestia braccata, frustrata.
Il Progenitore racconta per lei la vita di una regina, il potere uno
scettro con il quale soffocare e poi plasmare - una forza
così assoluta da essere accecante.
È Albert a piegarsi in quei momenti; a diventare un corpo da
ferire e sul quale sanguinare - le sue dita attorno alla gola, tra le
cosce, che strappano sempre più di un orgasmo, di una resa.
Alex fissa il soffitto con sguardo assente, si passa la punta della
lingua sulle labbra gonfie, tagliate.
Scivola poi al suo fianco, blandendogli una coscia con le proprie -
ancora umida, ancora piena di lui.
Inspira, e chiude gli occhi; tra vetri infranti e fili di sangue
riposano le speranze d'entrambi.
"C'è una leggenda che ruota attorno a questo scoglio, sai?"
Wesker le rivolge un'occhiata sfuggente, torna a fissare l'orizzonte
arrossato.
Alex azzera la distanza che li separa, si siede al suo fianco - piedi
nudi e abbronzati.
"Si dice che fosse un pellegrino reduce dalla Terra Santa, stanco della
guerra. Altri ancora raccontano di un monaco basiliano in fuga
dall'Oriente."
Alex indica con un cenno del capo la pesante croce di ferro alle loro
spalle, si porta le ginocchia al petto.
"Nel 1612 fu costruita una cappella dedicata a S. Antonio Abate, caduta
poi in rovina dopo l'epidemia di colera del 1837."
Il mare scivola placido attorno alle rocce, accompagna le sue parole -
il silenzio quieto di Albert.
"Scoglio dell'Eremita, lo chiamano."
Wesker inclina appena il mento nella sua direzione, la fissa.
Alex ha in mano una pesca mezza masticata, il viso pulito -
un profilo che il virus scolpisce ogni giorno, cambia.
"Vuoi forse diventare la prossima parte del mito?" gli chiede, e
c'è ironia nelle sue parole - una scintilla divertita che
non lo abbandona neppure quando Alex si alza e scompare sul sentiero
che risale le rocce.
Pace è un termine che ancora gli schiaccia la lingua e lo
rende incapace d'ogni replica.
"Dici che devo aprirlo?" gli chiede, ed è un fagotto
spettinato Alex, gambe incrociate sul divano e in grembo l'uovo che ha
comprato il giorno prima.
Albert si siede davanti a lei, spostando le riviste che occupano il
tavolino da caffè.
Ha un'espressione perplessa sul viso, Alex; le sopracciglia leggermente
aggrottate, dita che scivolano lungo i decori floreali dell'uovo.
"Non voglio romperlo." continua, e lo scuote, cercando la linea di
fusione tra le due metà.
S'inclina in avanti, trovandola poi sul fondo e premendo - l'unghia del
pollice che apre e scorre.
L'uovo si spacca in due semiovali perfetti, spandendo un delicato
profumo di cioccolato fondente e zucchero.
"Ah!" esclama Alex, trionfante "Lo sapevo."
Ed è la stessa cosa che diceva quando una proteina si
combinava correttamente sotto i suoi occhi.
È la stessa formula che usava quando era
più veloce di William a capire una struttura
virale, o quando il virus T si comportava come doveva, era solita
affermare.
Apre la scatolina rossa che vi è nascosta all'interno,
mostrando una sottile catena in argento e pietre dure - verdi come il
costume da bagno che s'intravede sotto il vestito trasparente.
"È carina." dice, mettendosela al collo "No?"
Stacca un pezzo di cioccolata, offrendogliene la metà.
Wesker accetta, la osserva mettersene in bocca una generosa
quantità e masticarla lentamente, quasi si fosse dimenticata
il suo sapore.
Alex deglutisce, si pulisce le dita tra loro, distratta.
"Sì, Nadia era proprio una stronza." conferma, e sorride.
Albert sorride con lei e ne prende un altro pezzo.
Le porge il biglietto di una prenotazione - carta invecchiata, lettere
dorate.
Grotta Palazzese. Sullivan, per due. 20:30.
Alex si abbassa gli occhiali sulla punta del naso, lo legge in
silenzio.
"Oh." dice solo, e lo fissa.
Wesker la sfiora tra i capelli e si allontana.
C'è qualcosa di timido nella nuova Alex; una piega che
contrasta ferocemente con quella più sfacciata e priva di
vergogna che ancora esibisce quando muore tra le sue braccia e con il
suo nome sulle labbra.
"È bellissimo." mormora, e scivola con lo sguardo lungo le
insenature in roccia e pietra.
Si sporge leggermente oltre la ringhiera a cui è vicino il
tavolo, accenna un sorriso.
Tovaglie in cotone egiziano, legno e marmo sotto le scarpe - nel
bicchiere un Cabernet del 1983.
Ride senza peso Alex, lo alza nella sua direzione.
"A cosa devo questo onore, Albert?"
E nella sua memoria c'è il Gattopardo** (una vita fa; in una
città ormai morta - dimenticata) le cene tra le vie di
Milano con gli azionisti della Tricell ed Excella, quelle a Villa
Spencer - a casa di Will e Annette.
Tutte che finivano sempre nello stesso modo: con le sue mani lungo le
cosce e sotto la lingua troppe parole abortite - lasciate lì
a morire e poi marcire.
Albert tamburella con le dita lungo il bordo del tavolo, al polso un
Patek Philippe in platino, fondo cassa in cristallo di zaffiro.
Le rivolge un'occhiata piena, il virus un mostro silenzioso, che tace -
messo alla catena e zittito volontariamente.
Alex si stringe nella spalle, beve un sorso di vino e accavalla le
gambe - una crêpe de chine che sanguina a ogni movimento.
"Come vuoi." lo apostrofa, aprendo il menù "Vorrà
dire che io e questo trancio di salmone Loch Fyne diventeremo migliori
amici anche senza di te."
La risata di Wesker s'infrange contro la sua pelle e taglia.
La sta spaventando.
È da quando sono partiti da Skiathos che non le rivolge la
parola, e il Progenitore non basta più - loro non bastano
più.
Alex si ferma a metà della spiaggia, i piedi nudi blanditi
dall'acqua tiepida.
"Albert." lo chiama, e lui si ferma, voltandosi verso di lei.
"Perché?" gli chiede, ed è esposta Alex - un
profilo nudo e senza maschere, una normalità che si
è portata via ogni inganno, ogni menzogna.
"Perché mi hai portata qui?" e trema, Alex, una corrente
invisibile agli occhi, ma non a lui - al Progenitore.
Wesker le si avvicina, le mani in tasca, l'orlo dei pantaloni bagnato
dalla schiuma del mare.
Alex gli offre occhi che bruciano, ferite rossastre che gli ricordano
chi sono - cosa, al di là dello spettacolo a cui sono
chiamati partecipare.
È piegato dal dubbio lo sguardo di Alex, lacerato
dall'incertezza - dalla convinzione che le farà male.
Ancora. Sempre.
"Perché?" ripete, e Wesker le sfiora gli zigomi, le tempie.
"Perché?" supplica, e le cerca il volto, la bocca.
"Perché, Albert." e muore sulla sua lingua ogni altra
replica - ogni domanda.
Wesker si consegna al suo carnefice peggiore senza più
alcuna paura.
È ancora calda la rena sotto i suoi piedi, una distesa
impalpabile e in cui Alex affonda i talloni - il vestito arrotolato sui
fianchi, la sua bocca tra le cosce.
Si frantuma, Alex, e sospira quando Wesker risale e le prende il viso
tra dita umide e traslucide - il pollice a blandire la pelle morbida
delle labbra.
Morde, perché tutto in lui (loro) ha sempre fatto male - si
flette contro il suo petto, stropicciando gli orli della camicia
aperta.
Respira per lei - in lei - Wesker, e le artiglia i capelli della nuca,
scoprendo i denti lungo la linea pulsante della carotide.
Ed è bella, Alex; è viva, rossa lungo gli zigomi,
tra i seni.
È quasi un cliché, una scena già vista
- abusata da romanzi romantici e senza fantasia.
Un cielo terso, notturno; una luna a metà, che illumina due
profili nudi e che si cercano.
Sabbia tra le dita, sotto le mani - nei capelli che le circondano il
capo come una corona d'oro.
Una ripetizione di mille altre storie, un percorso da manuale.
Alex gli circonda i fianchi con le gambe, stringe - lo invita.
Wesker affonda, e nasconde il viso nell'incavo del suo collo - bagnato,
grondante, supplice.
Consumano un amplesso lento, quasi indolente - si abbandonano l'uno
sulla pelle dell'altro, senza fretta.
Un atto già recitato, un palco consumato: la notte, il mare,
la sabbia; un uomo e una donna - innamorati, forse.
Alla fine, nulla più che un copione già scritto.
È stato un inizio; un punto di partenza che ha voluto dire
tornare a imparare a vivere senza sogni di conquista del mondo, o
deliri di onnipotenza.
È stato un momento che ha significato andare avanti,
abbandonare il passato tra i suoi rimpianti e ferite mai rimarginate.
Non dimenticheranno - non possono, non vogliono.
Non lasceranno che nomi come Chris Redfield o Spencer diventino
polvere, ma li lasceranno semplicemente lì, in balia degli
eventi.
A volte si sentiranno insignificanti; altre ancora arrabbiati, delusi.
Ci saranno giorni in cui il bisogno diventerà troppo, e non
basterà più la pelle l'uno dell'altro per
sfogarlo - morsi feroci e dita crudeli.
All'improvviso capiranno d'essere in pace, di star vivendo un fugace
momento di quiete - un istante in cui discutere di cosa mangiare per
cena non gli sembrerà più così umano,
indegno.
Fuori posto.
"Si chiamerà Ade." gli dice Alex, mostrandogli una palla di
pelo sputacchiante e dagli artigli snudati "Da adesso starà
con noi."
Ade lo fissa e ringhia.
Ade è un randagio.
Ade ha un anno, forse meno - l'ha decretato Alex - ed è un
grumo di pelo nero e rabbia.
Ade se ne fotte dei loro virus, e gira per l'appartamento come se fosse
lui il padrone di tutto - un'arroganza che Albert quasi ammira.
Non sa perché Alex l'abbia tenuto.
Lo stavano picchiando, gli ha detto mentre girava il filetto sulla
piastra, ma lui reagiva e non mollava.
Sovrapposizione, l'avrebbe chiamata qualcuno: Alex aveva visto in quel
gatto qualcosa di lei - loro - ed era stata mossa da un moto improvviso
di comprensione.
Ade salta sul bancone della cucina, si arrotola la coda attorno alle
zampe e lo fissa.
Non ha paura dei loro occhi, di ciò che Albert è
sicuro percepisca scorrere sotto la pelle, nell'odore invisibile che li
circonda.
Ade scuote appena la punta della coda, dilata le piccole narici - muove
solo un orecchio.
Alex gli porge una fetta sottile di filetto, sorride quando il gatto le
si struscia contro la mano.
"È carino." dice, e Wesker è certo che Alex
dovrebbe ridefinire tale concetto.
Alex continua ad accarezzarlo, piega le labbra in una smorfia.
"Non dovrebbe sorprenderti." gli replica, ed è stato il
Progenitore a parlare per lui "Ade ti assomiglia, e se mi sono..."
Silenzio.
E sfuggono quelle parole - cadono tra di loro come una
verità scomoda e velenosa.
Alex si schiarisce la voce, allontanandosi dal bancone della cucina.
Il Progenitore cattura quella confessione e la stringe tra le sue
spire.
È un filo sottile, un aroma quasi impercettibile quello che
contraddistingue i miei umani dagli altri.
Non so dire se mi piace o meno; a volte mi ricorda quello delle
carcasse lasciate a marcire sotto il sole di luglio, altre quello del
sangue fresco.
L'umano maschio è silenzioso, inquieto negli occhi
- un rullio continuo e costante.
Qualcosa parla per lui, e a volte riesco persino a comprenderlo.
L'umana mi ha aiutato - è gentile, premurosa.
Ha due odori, l'umana, uno diverso dall'altro.
Il primo appartiene alla sua pelle, il secondo no - è
più profondo, più antico.
Le piace tenermi in braccio, e non ha paura di me - della mia natura.
L'umano la fissa uscire dalla stanza, percepisce il suo disagio, il suo
tormento.
Non capisco le loro parole, ma quelle dell'altro
sì, e sono piene di malinconia.
Miagolo, e l'umano mi rivolge un'occhiata distratta.
Ha occhi rossi, l'umano, che non ho mai visto.
Nulla in loro è paragonabile agli altri umani con i quali ho
avuto a che fare, ma va bene così; è una bella
vita quella che mi stanno offrendo, in fondo.
Scendo dal bancone della cucina e mi distendo sopra le piastrelle
ancora calde della terrazza - l'umano una serie di passi rigidi alle
mie spalle.
La sta raggiungendo, ne sono sicuro: posso percepirlo dal modo in cui
si muove per i corridoi della casa, dalla porta che apre e poi richiude
- la terza a destra.
Mi copro gli occhi con una zampa, li nascondo dal sole morente; l'altra
voce non smette per un solo istante di mormorare sempre le stesse
parole.
Una curva sottile, indifesa.
Alex percepisce il materasso piegarsi sotto il suo peso, il suo respiro
sulla guancia.
"Lo so." le dice, blandendole la schiena nuda e abbronzata "L'ho sempre
saputo."
Alex chiude gli occhi, libera un respiro tremante - stringe le dita in
pugni chiusi.
Sono le prime parole che le rivolge in mesi - da Skiathos e le sue
consapevolezze improvvise, dolorose come ferite lasciate infettare e
poi riaperte a forza.
E...? vorrebbe
chiedergli.
E tu?
Wesker le bacia la nuca umida, le dita sotto al mento, lungo la piega
morbida del collo.
E vorrebbe dirglielo; vorrebbe davvero, ma le parole si asciugano se
non usate e diventano vetro - frammenti che tagliano e squarciano e
soffocano.
Vorrebbe, ma non ne è sicuro perché non sa cosa
sia quel grumo che lo appesantisce tra le costole, che gli ha sempre
impedito di schiacciarla e smembrarla e ucciderla, rimuovendola dal suo
sistema perfetto.
Respira tra i suoi capelli, la spinge a voltarsi contro il suo petto -
a guardarlo.
Il Progenitore rompe
la catena a cui l'orgoglio l'aveva costretto e
racconta.
Alex si sveglia che la città già mormora, ricorda.
Socchiude gli occhi, lo cerca - lo trova ancora al suo fianco,
addormentato.
Il Progenitore tace, quieto: un virus che ha vomitato la sua ultima
verità.
È nuda Alex; lo sono entrambi.
Due profili disegnati dal sole che filtra da dietro le persiane
accostate, pelle intrecciata e tra cosce altro - loro.
Alex lo ascolta respirare nell'incavo del suo collo, gli percorre la
nuca con la punta delle dita - sotto i polpastrelli un calore a cui non
era più abituata, che lo rende vivo.
Scivola lungo i muscoli dell'avambraccio, blandisce la curva aspra del
fianco, si ferma vicino all'ombelico, dove traccia piccoli cerchi
concentrici.
Trema il suo respiro, e Wesker si distende sotto le sue mani - apre gli
occhi e la fissa.
Non dice niente, Alex - non ci riesce.
L'ironia di un ruolo
adesso invertito.
Ascolta le sue dita stringerle il polso, invitarla.
Accoglie le sue labbra sulla tempia, lungo gli zigomi - denti scoperti
e che tagliano.
Alex s'inarca verso di lui, Albert la segue; si arrotola attorno al suo
corpo, lo cinge in una morsa che è anche una confessione -
l'ennesima
di quella notte che li aveva visti squarciarsi il petto e
diventare null'altro che un grumo di carne viva e fragili memorie.
Umida lungo le guance, sulla bocca; Alex geme il suo nome, intreccia le
dita nei suoi capelli e
stringe.
Non c'è fretta nei loro movimenti, nei suoi gesti; una calma
che si perde nell'urgenza con cui poi le schiude le cosce e affonda -
un istante che toglie il respiro a entrambi.
Alex flette la schiena all'indietro, intreccia le gambe attorno ai suoi
fianchi - a terra lenzuola sgualcite e seta strappata.
Una scena normale: un momento che potrebbe appartenere a qualsiasi
altra coppia.
Alex si scopre quasi infastidita da quel pensiero, e libera un ansito
sorpreso quando Wesker la solleva di peso e la riduce in ginocchio -
una mano che preme verso il basso, schiacciandola.
E sorride allora, Alex.
Sorride, e libera il Progenitore - percepisce quello di Albert ruggire,
scuotersi contro le ossa e mostrare tutto il suo osceno potere.
Sangue sotto le unghie, tra i denti; Wesker si arrotola i suoi capelli
attorno al polso, tira
- Alex lo segue fino a quando non fa
male: fino
a quando la memoria non diventa presente e il futuro si arrende a chi
ha avuto la forza di morire e tornare indietro.
Mani impietose, una lingua che lambisce le vertebre tese una per una.
Alex ride, e Wesker con lei - ed è come sentire il vetro
rompersi, le ossa spezzarsi.
Morde le dita che Albert le porge e
viene, Alex - trema sotto le sue
spinte, il suo orgasmo.
Non c'è nulla di normale in loro, di umano; non
c'è mai stato, in fondo.
Crolla,
Wesker, e lei lo accoglie - sempre.
Tra le sue braccia Albert è l'unica promessa che valesse la
pena mantenere.
I piedi sulle sue ginocchia, uno yogurt alla fragola in mano.
Albert coglie la
banalità di quel momento, la sua
umanità.
Alex sta guardando qualcosa sul tablet - gli hanno ucciso i genitori e
lui diventa un vigilante vestito da pipistrello; ridicolo, no?
- tra le
labbra un cucchiaino mezzo pieno.
Non si è accorto di star disegnando linee invisibili sulla
sua pelle; di non far quasi più caso ad Ade e al suo russare
fastidioso.
Non si è accorto di essersi adattato a istanti
come quello;
a frammenti di vita nei quali Alex ride se Ade lo ignora, o in cui
è perfettamente concepibile
ricordare di quando Will era
entrato urlando nel laboratorio che i topi erano scappati. E per topi
intendeva delle bestie
di otto chili modificati dal virus T.
Non si è accorto che dopo il sesso è naturale non
doversi più contare le ferite reciproche, o il tempo che il
destino minacciava di strappargli.
Alex agita le unghie dei piedi contro la copertina del suo libro -
Stephen King, L'ombra
dello scorpione - lo spinge a sollevare lo
sguardo.
"Tutto bene?" gli chiede, e mette in pausa il film, ruotando il
cucchiaino nello yogurt "Sembri... pensieroso."
Wesker inclina il mento nella sua direzione, alza un sopracciglio
quando percepisce la coda di Ade (più lunga del suo corpo, a
quanto pare)
sbattergli contro una coscia, addormentato.
Fuori, Polignano scivola pigra nell'indolenza della sera, per una volta
lontana dai turisti, dalla confusione che si portano appresso come
un'ombra.
Alex ha occhi limpidi, sinceri; un azzurro sporcato solo da
ciò che resta di Natalia,
screziature ambrate.
Sorride, Wesker, ed è strano
- una piega che non gli
appartiene; che gli tira
gli angoli della bocca, regalandogli
un'espressione diversa.
Le cerca la bocca, intreccia le dita nei suoi capelli - ancora umidi
dalla doccia.
La sua risposta non è più necessaria.
I love you as certain
dark things are to be loved;
in secret, between the
shadow and the soul. (1)
Quando Polignano sarà alle loro spalle Albert gliela
ricorderà portandola casualmente
vicino a una pasticceria
artigianale ogni Pasqua e lasciandole posare gli occhi su decine di
uova fondenti.
Quando Ade diventerà vecchio e i suoi reni smetteranno di
funzionare lascerà che gli nasconda il suo dolore,
perché ci sono vulnerabilità che possiedono una
dimensione privata ed esclusiva.
Quando Chris Redfield verrà sepolto sarà un pezzo
del suo
passato a morire - il tempo una corrente inarrestabile.
Quando tutto ciò che conoscevano diventerà
polvere e
memoria rimarranno solo loro a custodire una storia piena di
rimpianti e speranze - un grumo cicatrizzato di scelte sbagliate e
scommesse perdute in partenza.
Alex socchiude le palpebre, si lascia blandire da un sole tiepido e che
le accarezza la schiena, la curva scoperta delle cosce.
L'orologio a parete segna mezzogiorno e due minuti, Ade una perfetta
ciambella di pelo nero ai suoi piedi che si prodiga in fusa.
Wesker schiude le dita sul suo addome, attorno all'ombelico - mormora
tra i suoi capelli, un cuore quieto, regolare.
Appagato.
Alex abbozza un sorriso, richiude gli occhi - le unghie di Ade che
stropicciano leggermente il lenzuolo aggrovigliato sul fondo del letto.
Quando
è un futuro che li accoglierà insieme.
"Find what you love and let it
kill you.
For all things will kill
you, both slowly and fastly,
but it’s much
better to be killed by a lover."
- Charles Bukowski -
Note dell'autrice:
Albert Wesker e Alex Wesker non
sono fratello e
sorella. Non hanno nessun legame di sangue e non sono stati cresciuti
nella stessa famiglia come tali (ne hanno avute due ben diverse e
distinte) per cui non ritengo che questa storia richieda l'avvertimento
incest. Appartengono allo stesso progetto scientifico di selezione
genetica (Project W.) e per questo si definiscono "fratello" e
"sorella" e possiedono lo stesso cognome (in onore del creatore del
progetto), ma nei fatti non lo sono e non hanno mai avuto l'occasione
di comportarsi come tali.
Secondo la legge
italiana non sono né discendenti
né ascendenti, e neppure affini in linea retta, per cui il
reato d'incesto non sussiste.
In questa storia ci sono
riferimenti alla one-shot "Born to die".
Nadia Yance (*)
è un personaggio originale da me citato in "Subject #12".
Il ristorante
"Gattopardo" (**) è un riferimento alla
one-shot "The heart is a Devil".
(1) citazione di Pablo
Neruda.
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