Call center

di Antonino Giuff
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A Piedimonte Etneo, quel tardo pomeriggio di giugno, i cieli erano due: uno azzurro e uno rosa; quello che Carmelo e la sua fidanzata Angela vedevano levando lo sguardo verso le nuvole, e quello dei terebinti appena fruttificati che si estendevano come una macchia uniforme dal vallone Zambataro a Ponte Boria. Zìgoli e verzellini saltellavano giulivi. Nei due amanti, distesi mano nella mano su un prato di margheritine gialle, ogni loro cinguettio, ogni loro impercettibile batter di ali, nell’aria già impregnata di profumi e accenti estivi, incentivava a poco a poco un bacio, una carezza, un gesto d’amore semplice e spontaneo. Si conoscevano soltanto da tre mesi, eppure i loro occhi, quando si incrociavano, brillavano già di una luce che, per rapidi abbagli, ricordava quella del diamante più prezioso al mondo, il wittelsbach-graff; o forse, se è possibile, qualcosa di ancora più raro, poiché, a giudicare dal loro modo vicendevole di compenetrarsi nell’anima, dal loro comunicare anche senza parlarsi, l’invisibile filo che li univa non poteva essere di questo mondo, ma di un altro certamente sconosciuto.
Quando Angela, eccitata, cominciò a sbottonarsi la camicia, Carmelo arrossì sulle guance come certi fiori a stella di una deuztia; abbandonò la mano fremente della fidanzata, mentre il sole, all’orizzonte, moriva in una pace di velluto.
«Non posso», disse il ragazzo a malincuore, «sai che non posso».
«Cazzo, hai venticinque anni» osservò Angela, mentre si riabbottonava la camicia. «Non puoi aspettare il matrimonio per fare sesso. Ammesso che, un giorno, io voglia davvero sposarmi».
«Se mi ami davvero, mi dovresti capire».
«Io capisco soltanto che la tua religione è un malattia che, prima o poi, ti farà fare una brutta fine».
Carmelo evitò lo sguardo della fidanzata; i suoi occhi divennero lucidi.
«Dai, scusami, amore, non volevo» lo confortò lei, stringendoglisi vicino. «Però sai che, per me, è importante fare l’amore. Sono certa che ti piacerebbe un casino se solo…».
«Se solo tradissi la mia fede?».
«No, se solo avessi più fiducia in me. A volte, mi viene quasi da pensare che tu mi rifiuti perché non mi ami abbastanza».
«Ma come puoi pensare una cosa del genere? Per te, darei la vita».
«Sì, sì. Tutti gli uomini dicono così; e poi non muoiono…».
«Se ti vedessi baciare Andrea, sì che morirei, invece».
«Andrea? Ma se è un nostro amico! Come puoi credere che lui ed io…».
Nella valle invasa dalle prime ombre, non si sentì che il battito accelerato di Carmelo.
«Sono un po’ geloso. Tutto qui…».
Angela gli sorrise; l’espressione del suo viso si distese: «Ed io un po’… vogliosa: tutto qui». Poi, gli diede un lungo bacio alla francese. Funzionava sempre, sciogliendo in un baleno i dissidi di entrambi come bioscia appena caduta.
Si congedarono accarezzandosi dolcemente i capelli.
Quella sera, Carmelo, prima di addormentarsi, si mise a pregare di fronte alla foto mezza ingiallita di suo nonno Antonio, deceduto a soli 26 anni nel campo di concentramento di Dachau il 17 settembre del 1943. Recitò, ad occhi chiusi, lo shemà; e pensò, come d’abitudine, ai genitori che non aveva mai conosciuto: erano ancora vivi da qualche parte, nel mondo? Lo avevano abbondonato perché non gli volevano bene? Se fosse stata data loro la possibilità di re-incontrarlo anche solo per pochi minuti, avrebbero accettato o si sarebbero negati?
Carmelo, sino ai diciott’anni, era stato cresciuto da sua zia Maria in una lussuosa villa di Randazzo. La donna, da qualche mese trasferitasi a Palermo insieme al suo nuovo compagno, lo aveva aiutato economicamente anche dopo per consentirgli di finire gli studi di Giurisprudenza. Al ragazzo diceva spesso di provare il suo stesso dolore per quella grave perdita avvolta nel mistero: «Ero molto legata ai tuoi genitori, erano persone davvero squisite. Quanto meno, mi sarebbe piaciuto poter piangere sulle loro tombe».
La suoneria del cellulare, aumentando gradualmente d’intensità, riportò Carmelo alla realtà.
Lo aveva chiamato Andrea:
«Allora, come prosegue il tuo praticantato?».
«E come dovrebbe andare? Una merda! Lavoro come un mulo, e neppure un euro. Il mio titolare dice che, forse, mi darà qualcosa dopo il primo semestre. Ma ti rendi conto?».
«È l’Italia, caro mio, l’Italia. Di che ti stupisci? C’è un noto sociologo che dice addirittura che, per abbattere la disoccupazione, bisogna lavorare gratis».
«Farei lavorare gratis i suoi figli, se ne ha. Che infame».
«Comunque, volevo parlarti proprio di lavoro».
«Dimmi».
«Da circa una settimana sono stato assunto in un call center a Catania, che si occupa di contratti di telefonia mobile. Mi trovo molto bene; mi hanno preso subito, nonostante, di norma, ci sia un mese di prova prima che si riceva lo stipendio. Beh, cercano altri operatori; potresti provare tu, no? Ti occupa solo quattro ore al giorno e metti da parte qualche spicciolo».
«Ma io i call center li detesto! Quando mi chiamano loro, sono il primo che li manda a fanculo!».
«I soldi sono soldi. E chi non si adatta a tutto in Italia o è un figlio di papà è un raccomandato o fa il barbone. Dai, ti ho già fissato un colloquio per domani. 500 euro al mese, più contratti. Se sei in gamba, puoi fare anche 800 euro».
Carmelo, alla fine, accettò la proposta di Andrea: quel sacrificio, rifletté, sarebbe stato necessario per portare Angela in vacanza a Santo Domingo, come sognava; e, considerato che per il momento non c’erano nella sua zona altre opportunità di lavoro, sentiva di non potersi tirare indietro.
Il call center si trovava in Piazza Università, nel centro di Catania. La struttura era composta da tre microsale esagonali; in ognuno di esse lavoravano sei operatori. Una team leader dai capelli biondo platino faceva continuamente avanti e indietro per tutti i settori, spronando a gran voce quei dipendenti che sembravano sul punto di mollare il loro potenziale cliente: «Dovete insistere, cazzo, insistere!».
Accompagnato da Andrea, Carmelo entrò nello studio del direttore. Questi, come indicava la targhetta di metallo posta sulla sua porta, si chiamava Ermanno Salvi, aveva circa quarantacinque anni, una lunga barba brizzolata e una vistosa cicatrice ondulare sul collo. Alla sua sinistra, c’era uno strano marchingegno a forma di parallelepipedo, con diversi interruttori luccicanti e pannelli in bronzo. A Carmelo sembrò una specie di enorme distributore automatico; per alcuni secondi, rimase in piedi a fissarlo. Poi si sedette.
«Ha mai svolto questo lavoro in precedenza, signor Vinci?» gli chiese Salvi, dopo i convenevoli iniziali.
«No, mai».
«Non importa, si può imparare facilmente in poco tempo. Prima di assumerla, però, mi faccia vedere come venderebbe questa bottiglietta d’acqua a un potenziale cliente».
Anche se impacciato, Carmelo riuscì a cavarsela, tanto che il direttore, stringendogli la mano, gli comunicò la decisione di assumerlo quel giorno stesso. La team leader, in appena due ore, gli spiegò infine come avrebbe dovuto lavorare in un call center.
Carmelo, nel pomeriggio, rincasò confuso ma soddisfatto; già immaginava il momento in cui, ad Angela, avrebbe dato la lieta notizia della sua assunzione e, dunque, della possibilità di andare in vacanza a Santo Domingo nella prima settimana d’agosto.
Si fece una doccia per mettersi alle spalle l’ansia accumulata durante il colloquio; mangiò un panino al prosciutto davanti al suo programma televisivo preferito; quindi videochiamò la sua fidanzata su Skype.
«Amore, ho una bellissima notizia per te» disse Carmelo, raggiante. «Ho trovato un lavoro con cui potremo pagarci la nostra vacanza».
«Ma è fantastico! E di che si tratta?».
«Di un call center. Sì, lo so, è una merda, ma ci sono stato oggi e ho avuto sensazioni piuttosto positive».
«Va bene, allora prova! Sono con te, come sempre».
La temperatura, di per sé già alta, si era intanto alzata di altri tre gradi, e ora seccava la gola di entrambi come frutta in un graticcio; ma solo Angela, dopo un po’, decise di staccarsi dallo schermo per andare a prendere un bicchiere d’acqua in cucina. Quando tornò davanti alla cam lo bevve tutto d’un fiato in un modo tanto convulso da bagnarsi non solo le labbra, ma anche il collo. Si asciugò con il dorso della mano destra; quindi raccolse i capelli sulla nuca in una voluminosa coda di cavallo.
Nella penombra della sua stanza, Carmelo la guardava in silenzio con gli occhi sgranati dall’eccitazione.
Angela gli sorrise, sfilandosi la maglietta. Poi si sciolse nuovamente i capelli. Nessuna parola serviva, solo il linguaggio del corpo.
Carmelo staccò la spina del computer prima che Angela, ormai presa dal desiderio di coinvolgere eroticamente il suo uomo, si togliesse anche le mutandine.
L’indomani, a lavoro, Carmelo si presentò con delle occhiaie terribili e la barba incolta. Il senso di colpa per aver lasciato la sua ragazza in quel modo, senza neppure una mezza spiegazione, lo aveva macerato dentro per tutta la notte come canapa in una gora.
Anche con le chiamate le cose non andarono meglio: centoventitré tentativi e centoventitré buchi nell’acqua. La team leader, a muso duro, gli urlò tre volte davanti a tutti che lo avrebbe fatto licenziare in tronco se non avesse chiuso la giornata con almeno due abbonamenti.
Verso le undici, a Carmelo fu concessa una pausa di dieci minuti.
Nel piccolo spiazzo antistante il call center, si accese una sigaretta; espirò un lungo nastro di fumo.
Un collega dall’aria stanca e assuefatta, sulla quarantina, gli si avvicinò presentandosi come Pietro. Gli disse: «Cazzo, è la prima volta che vedo un compagno di sventure fuori da questo lager».
Si accese anche lui una sigaretta, ma la gettò dopo poche boccate: «Mi sa che gli operatori telefonici finiscono tutti per diventare asociali a furia di sforzarsi di essere sociali con cani e porci».
A Carmelo fece subito simpatia: «Guarda; sono qui da due giorni e ne ho già pieni i coglioni dei colleghi che mi fischiano nelle orecchie, della team leader e di tutto il resto».
«Non durerà molto, tranquillo. Nessuno, qui, dura per più di un mese. Io lavoro in questo postaccio da tre settimane, quasi un record. I nostri colleghi spariscono da un giorno all’altro come se niente fosse. Forse sono troppo deboli e non riescono a resistere».
«Come li capisco. E il tutto per una miseria».
«Già, io ormai completo questa settimana perché devo portare uno stipendio a casa a fine mese. Sai, ho due figli piccoli. Poi cercherò lavoro all’estero. Qui ormai cercano solo consulenti, operatori telefonici e venditori porta a porta».
«Forse hanno scambiato gli italiani per un popolo di Testimoni di Geova».
Risero entrambi.
«Il lavoro rende liberi, si dice. Torniamo alle nostre postazioni» chiosò Pietro.
A fine giornata lavorativa, Carmelo poté tirare un sospiro di sollievo: i due abbonamenti richiesti, dopo centinaia di chiamate a vuoto, li aveva fatti. Il lavoro, per il momento, era salvo.
Quando uscì dal call center fu fulminato dallo sguardo di Angela, che lo aveva atteso fuori a braccia conserte.
«E tu come facevi a sapere che lavoravo qui?» chiese Carmelo con un certo stupore.
La ragazza arricciò il naso, indispettita. Poi, con tutta la forza che aveva in corpo, gli mollò una tremenda cinquina in faccia che lo fece rinculare di due o tre passi.
«Questo è per ciò che mi hai fatto ieri, stronzo!» gli disse, con gli occhi pieni di lacrime. «Lo sapevo che eri uguale a tutti gli altri uomini. Non dovevo fidarmi di te».
«Scusa, amore, la situazione mi stava sfuggendo di mano e…» cercò di giustificarsi lui.
«Non ti sei neppure fatto sentire dopo».
«Ci allontaniamo da qui e ne parliamo con calma?».
Mentre passeggiavano per via Etnea, da Piazza del Duomo a Villa Bellini, i due, mettendo da parte quel maledetto orgoglio che di frequente li aveva spinti, anche contro i loro stessi buoni propositi, a dire o a fare cose di cui si sarebbero amaramente pentiti in seguito, si chiarirono, come sempre, non tanto attraverso il dialogo ma attraverso gli occhi e le labbra, cioè con sguardi e sorrisi reciproci in grado di sciogliere anche la più resiliente delle loro arrabbiature.
Alla fine si sedettero a un bar, e presero una granita al limone.
Tornarono a casa sereni, a notte fonda.
La mattina seguente Carmelo la passò in un crescente stato di frustrazione. La team leader, adesso, non gli chiedeva più soltanto due abbonamenti ma quattro. La gente che gli rispondeva, ed era la minoranza, lo mandava sistematicamente a quel paese.
Pietro, al suo posto, non c’era; e ciò, a Carmelo, parve davvero strano dal momento che solo il giorno prima il collega gli aveva assicurato che, per amore dei suoi figli, avrebbe continuato per un’altra settimana.
Dopo la pausa delle undici, Andrea gli disse:
«Il direttore deve parlarti un attimo. Ti sta già attendendo nel suo studio».
Carmelo seguì Andrea nel corridoio; poi, aperta la porta del direttore, un intenso fascio di luce lo abbagliò in pieno volto, prima che fosse colpito alla testa da una grossa mazza da baseball.
Cadde a terra, privo di sensi.
Quando si risvegliò si guardò stupito intorno a sé: si trovava incatenato in una prigione in semi-oscurità. Un uomo, anch’egli in catene, gli era di fronte. Carmelo lo osservò per qualche istante, confuso, come se avesse la sensazione di averlo già visto da qualche parte; quindi, a voce molto bassa, gli chiese: «Scusi, signore, ma dove ci troviamo?».
«Dove ci troviamo?» ripeté quello, ridendo. «Forse ti avranno resettato la memoria, amico mio. Siamo nel campo di concentramento di Dachau».
«Dachau? Ma che anno e giorno è?»,
«Il 17 settembre 1943, giorno della mia morte, peraltro».
«Cooo…sa? È impossibile! Io sono nato nel 1992».
«Cazzo, l’avranno fatto un’altra volta».
«Che intendi dire?».
«Gli scienziati della Kaiser-Wilhelm-Gesellschaft hanno costruito delle macchine infernali grazie a cui riescono a viaggiare nel tempo. Il loro scopo è prelevare la nostra discendenza per eliminarla prima che i nazisti vengano sconfitti. Non vogliono che resti alcuna traccia di noi, bastardi. Se so tutte queste cose sul futuro, è perché me le ha raccontate mio figlio».
«Fu catturato anche lui?».
«Sì, anche se solo a cinquant’anni, perché cambiava spesso identità e paese. Fu scoperto e preso nel 1992, dopo che a un amico, in realtà un androide nazista che indagava da tempo su di lui, aveva confidato a cuore aperto la sua storia. Col mio aiuto e di quello di uno scienziato della KWG a me solidale, però, riuscì a evadere da questo posto di merda e a tornare nel suo tempo insieme alla sua giovane moglie ebrea, che da qualche mese attendeva un bambino. Da allora non ho saputo più niente di loro. Comunque, piacere, il mio nome è Antonio; e il tuo?».
Carmelo trasalì, senza rispondere.
Dal corridoio, intanto, si sentivano dei passi.
Erano il direttore del call center e la sua team leader, vestiti da SS.
Aprirono la cella con una grossa chiave a stella.
«Allora, nonno e nipote fianco a fianco. Ma che bello spettacolo» disse tracotante la donna, che guardava Carmelo come se fosse un ratto.
Antonio, invece, mentre cercava invano di liberarsi dalle catene, guardava suo nipote come se fosse un angelo caduto dal paradiso sbagliato. Quanto a quei due, lui li aveva già visti quando suo figlio era stato catturato nel 1992: facevano parte di quel nutrito manipolo di androidi programmati dagli scienziati nazisti per prelevare i discendenti ebrei dal futuro. 
«Forse a Carmelo farebbe piacere rivedere i suoi genitori prima della sua morte» disse a un tratto il finto direttore del call center. «Venite, avanti su».
Carmelo cominciò a sudare freddo, a tremare come una ragnatela mossa dal vento; ora che aveva scoperto che i suoi genitori erano ancora vivi e vegeti, avrebbe fatto qualsiasi cosa per abbracciarli anche solo per un attimo. Ma quando da dietro i due androidi intravide i volti sorridenti di Angela e Andrea, ogni sua speranza di conoscere chi lo aveva messo al mondo svanì di colpo nel nulla.
«Che significa tutto questo, Angela?» disse rabbioso.
«Te lo spiego io» intervenne la falsa team leader. «Angela e Andrea sono cyborg creati con apporti biologici dei tuoi genitori, che siamo riusciti a catturare pochi mesi dopo la tua nascita».
«E perché non mi prendeste già allora?».
«Perché ti affidarono a una loro zia che, come tuo padre, cambiò tutto: identità, città, relazioni sociali. Siamo riusciti a trovarti sono nel 2017, quando, cioè, hai confidato la tua storia a un tuo collega d’università, in realtà una delle nostre tante spie sparse per il mondo. Poi ti abbiamo mandato Angela e Andrea, per farti cadere nella nostra trappola. Attraverso il call center, noi traiamo informazioni sulle nostre future vittime».
«A proposito,» osservò la falsa team leader «il nuovo compagno di tua zia era un androide nazista. Non è stata portata a Palermo, ma in un campo di concentramento».
«È stata già eliminata» esclamò il finto direttore, «e tutto ciò grazie a te, Carmelo. Adesso, saranno i tuoi stessi genitori a farti fuori».
«Non dargli ascolto!» urlò Antonio. «Quelli non sono più i tuoi genitori. Quello non è più mio figlio. Sono delle macchine programmate per uccidere, esattamente come tutti i nazisti».
«Chi dobbiamo fare fuori per primo?» chiese Andrea.
«Il nipote, ovviamente, davanti agli occhi del nonno, a cui toccherà la stessa sorte poco dopo» rispose il finto direttore.
Andrea puntò allora la sua pistola contro il cranio di Carmelo, che, stringendo forte gli occhi, ripercorreva gli eventi più importanti della sua vita come in un flash; e, per l’ultima volta, offrì lode alla Santità di Dio recitando a mente la Kedushat ha-Shem, la terza benedizione dell’Amidah:« Di generazione in generazione proclameremo la regalità di Dio perché Egli solo è eccelso e santo. La Tua lode, o Dio nostro, non venga meno dalle nostre labbra in eterno, perché Tu sei un Dio re grande e santo».
«No, aspetta un attimo, Andrea» disse Angela, «prima diamoci un bacio davanti ai suoi occhi».
 




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