Capitolo 3
Al vecchio signore della barca
avevano dato ben più di una rupia a testa. Grosvenor aveva
preso un
po’ delle banconote requisite
a Suraj Singh e gliele aveva consegnate, causandogli quasi un attacco
cardiaco. Probabilmente il fioraio aveva ricevuto in due ore di
lavoro l’equivalente di circa tre anni di giacinti e
rododendri.
Per tale motivo
s’era
industriato particolarmente ad aiutare i suoi benefattori: avrebbe
voluto invitarli a casa sua e offrire loro da mangiare, ma il tempo
era poco e i rischi molti, per cui i quattro si accontentarono di
qualche informazione pratica e di un passaggio fino in paese sul suo
carretto.
Il piccolo centro abitato, di
nome Mahish Bathan, comprendeva un tempio di mattoni, casupole di
legno e due strade sterrate che formavano un incrocio.
C’erano
bambini e polli che razzolavano in giro, donne che camminavano con
cesti in equilibrio sulla testa e le immancabili vacche sacre che si
aggiravano indolenti. Accanto al tempio sorgeva un vecchissimo e
nodoso banyan pieno di immagini votive, con le radici rosse per le
ripetute offerte di gulal e nastrini colorati legati ai rami.
Un paio di scimmie sedevano
tra
le sue fronde spulciandosi a vicenda.
Grosvenor si guardò
intorno. Un
vecchio che sedeva sulla soglia di una casa si affrettò a
rientrare,
i bambini come per incanto si dispersero.
Il tenente si
scambiò
un’occhiata con Jenkins: la trasognata calma del luogo aveva
assunto connotazioni vagamente sinistre.
“Sono solo dei maledetti
mangiacurry, signore. Abbiamo portato la civiltà e ci
ringraziano in
questo modo,” sentenziò il sergente.
Guardandosi intorno,
l’ufficiale
rispose: “Abbiamo portato anche il gin e l’acqua
tonica, se è
per questo, e abbiamo insegnato loro come mescolarli per ottenere il
nettare degli dei, ma temo che il problema attuale non sia
l’ingratitudine nei confronti della Corona Inglese.”
“E quale sarebbe allora,
signore?”
“Probabilmente sanno che il
maharaja sta cercando quattro sahib e guarda caso noi siamo proprio
in quattro. Non vogliono grane.”
Con la coda
dell’occhio notò
che accanto al tempio c’era una donna vestita con un saree
arancione che li fissava, ma quando si voltò ella era
già di spalle
e si stava allontanando con un recipiente in equilibrio sulla testa.
“Muoviamoci,” disse
il
tenente.
Presero la strada che andava a
nord-ovest, verso una pianura coltivata e punteggiata qua e
là da
qualche albero. All’orizzonte si vedeva la linea scura della
foresta, ogni tanto c’erano dei gruppetti di casupole con
panni
colorati stesi ad asciugare
Era il primo pomeriggio, in
cielo
non c’era una nuvola. Nell’aria immobile, greve di
umidità, non
si sentiva nemmeno il canto di un uccello.
C’era qualche
contadino al
lavoro nei campi, sulla strada passava poca gente. Incrociarono un
uomo che teneva per mano un bambino e una donna con un fascio di erbe
di palude sottobraccio. Furono superati da un carro coperto trainato
da una coppia di buoi. Al tenente parve di scorgervi un lampo di
arancione, ma quando guardò meglio non riuscì
più a ritrovarlo.
Gli scricchiolii delle ruote e lo scalpiccio degli zoccoli si persero
in lontananza.
Grosvenor
approfittò di quella
situazione di relativa calma per ripassare il piano che aveva ideato:
il modo più veloce per arrivare a Calcutta, che distava
circa
settanta miglia, era certamente il treno. Considerato dove si
trovavano, la stazione più vicina era Jotram, più
o meno a dieci
miglia da lì. Per raggiungerla si passava da Moktarpur, dove
peraltro c’era anche una piccola guarnigione inglese che
eventualmente avrebbe fornito ogni appoggio logistico, compresa la
possibilità di telegrafare a Calcutta. Semplicissimo, in
teoria.
Anni di servizio nelle Colonie
gli avevano insegnato molto bene quanto poteva diventare ampio in
certe situazioni il divario tra teoria e pratica.
Mentre stava così
ragionando,
nella caligine dell’orizzonte cominciò a prendere
corpo una sagoma
chiara.
Man mano che si avvicinavano
la
osservò facendosi ombra con la mano e notò che si
trattava di un
edificio in muratura con degli alberi intorno. All’ombra
delle
piante o sotto ripari di fortuna sedevano a gruppetti delle persone.
C’erano anche animali da soma, carri e carretti.
“Si direbbe una
locanda,”
constatò il sergente al suo fianco.
“È quel che ci
vuole,”
rispose Grosvenor, “abbiamo giusto bisogno di bere
qualcosa.”
Jenkins lo fissò
stupito.
“Volete dire qui,
signore?”
“Ho visto anche degli
stagni, lungo la strada, ma sinceramente preferirei un
tè.”
“Non mi sento di darvi torto,
signore.”
Vista da vicino, la cosiddetta
locanda era solo un parallelepipedo di mattoni. I muri, una volta
imbiancati a calce, erano scrostati e sporchi della terra rossa dei
campi. Dal tetto pendevano festoni di peperoncini e mazzi di erbe
aromatiche messe a seccare.
La porta era chiusa da una
vecchia tenda sfilacciata.
C’era un ragazzino
che faceva
continuamente la spola fra dentro e fuori portando vassoi carichi di
teiere ammaccate e bicchieri di lassi*.
Seguito dagli altri, Grosvenor
entrò.
L’interno era
costituito da una
sola stanza tagliata in due da una specie di bancone. Da una parte
c’erano una vecchia cucina economica carica di teiere e una
giara
di terracotta da cui spuntava il manico di un mestolo.
I pochi tavoli erano vuoti: la
gente preferiva la pur modesta ventilazione del torrido esterno
rispetto alla calura di quell’antro soffocante.
Chi si occupava della mescita
era
un uomo ossuto, con una rada barba grigia e un dhoti**
rammendato come unico indumento.
“Buon giorno,” lo
salutò
affabile il tenente, “parlate la mia lingua?”
L’indiano, che aveva
sentito
entrare gente ma era rimasto chino sulla cucina economica,
all’udire
una voce inglese sussultò. Si voltò a guardare e
le quattro
uniformi rosse gli fecero spalancare gli occhi. Cominciò a
frugare
sotto il bancone farfugliando cose indistinte.
“Ehi, che stai
facendo?” gli
chiese il sergente insospettito. Con l’occhio
dell’abitudine,
Grosvenor notò che il sottufficiale era pronto a farsi
scivolare il
fucile dalla spalla e a imbracciarlo.
“Aspettate, Jenkins,”
gli
disse con la più grande tranquillità,
“forse questo bravo
indigeno ha degli ottimi motivi per fare quello che sta
facendo.”
Poi, rivolto all’uomo: “Ripeto, carissimo: parlate
la mia
lingua?”
L’altro si
raddrizzò. “Solo
poco, sahib.” Finalmente tirò fuori quello che
stava cercando: una
scatola di latta con dentro delle carte accuratamente piegate.
“Io
sepoy,” disse, mostrando un foglio di congedo. “Da
giovane.
Sepoy.”
“Se questo qui era un sepoy, io
sono il re degli zulu,” ringhiò il sergente
fissandolo torvo.
Grosvenor recepì
l’informazione.
Fece finta di niente, ma rinunciò a mostrare i dadi che
aveva in
tasca. “Benissimo, avete servito sotto la Corona,”
disse con
l’aria più tranquilla del mondo,
“è una cosa molto bella. Ora
potreste darci un po’ di tè, per favore? Niente
zucchero né
latte.”
“Come minimo ci
sputerà
dentro, quel maledetto mangiacurry,” brontolò
Jenkins, ancora poco
convinto.
Grazie
all’intervento di
Barrett avevano ottenuto un posto sotto un albero ed erano in attesa
che il ragazzino portasse loro il tè e le tazze.
“E non è neppure
stato sepoy.
Io li riconosco a distanza quelli che hanno portato una divisa
britannica.”
“Neppure io penso che lo sia
stato, sergente,” gli rispose Grosvenor, “e il
fatto che abbia
tirato fuori quella balla è decisamente sospetto. Terremo
gli occhi
aperti, ma in ogni caso dobbiamo bere, se non vogliamo che ci venga
un colpo di calore.” Si passò con cautela le dita
sul sopracciglio
ferito. Il sudore gli faceva bruciare il taglio non ancora
completamente chiuso, e in generale gli faceva male tutta la testa.
Senza contare il resto del corpo, ovviamente.
Rivolse per
l’ennesima volta il
pensiero alle inaudite quantità di gin tonic che avrebbe
bevuto una
volta rientrato finalmente a Calcutta.
In quel momento
arrivò il
ragazzino, che lasciò accanto a loro un vassoio con quello
che
avevano chiesto.
A questo punto, Thayes si
rivolse
a Barrett e disse: “Chiedigli dov’è quel
posticino. Non so come
sia possibile con quello che ho sudato, ma devo...”
“Soldato!” lo
chiamò
all’ordine Jenkins prima che potesse pronunciare il verbo.
“Scusate, sergente.
Però mi
scappa.”
Ci fu un breve scambio di
battute
tra Barrett e il ragazzino, poi l’enorme militare si
alzò e si
diresse verso l’edificio.
Fu versato il tè.
Erano tutti molto assetati e
venne vuotato un giro di tazze prima che Jenkins aggrottasse le
sopracciglia e dicesse; “E adesso dov’è
finito quell’impiastro?”
Gli altri realizzarono che in
effetti Thayes non era ancora ricomparso. Si scambiarono
un’occhiata.
In un posto tropicale e lurido come l’India, le occasioni per
avere
improvviso bisogno di un bagno erano molteplici, ma nessuno
pensò a
un’eventualità del genere.
“Sarà meglio che
vada a
controllare,” disse il sergente raccogliendo il fucile. Si
allontanò nella direzione in cui era scomparso il soldato.
Passò appena un
minuto, poi
echeggiò uno sparo. I due superstiti balzarono in piedi e
assieme
alla totalità degli astanti corsero verso le latrine.
Facendosi
largo fra la folla vociante, il tenente vide la seguente scena:
c’era
Thayes addossato alla parete, ansante e pallido come un morto.
Accanto a lui c’era Jenkins con il fucile ancora imbracciato.
Ai loro piedi era steso il
corpo
di un uomo con un turbante chiaro e l’estremità di
un rumal
stretta in pugno.
“Non si può neanche
pisciare
in pace, in questo cazzo di paese,” mormorò Thayes
massaggiandosi
il collo, sul quale si vedeva un largo segno rosso.
Sebbene fossero in presenza di
Grosvenor, Il sottufficiale evitò di riprenderlo per il
linguaggio
sconveniente. “Trentacinque anni di servizio e una cosa del
genere
dovevo ancora vederla,” ringhiò invece, in tono
minacciosamente
basso. “Un fuciliere di Sua Maestà che si fa
sorprendere da un
mangiacurry pidocchioso con l’affare in mano! Ti è
andata bene che
sei grosso, se no facevi la fine delle galline di mia zia. Ne
riparliamo quando saremo a Calcutta.”
“Scusate, sergente,”
rispose
il soldato, le enormi spalle curve in una postura avvilita.
“E voialtri cos’avete
da
guardare?” latrò Jenkins alla folla di indiani.
“Via! Fuori
dalle scatole!”
Gli indigeni si dispersero
senza
fiatare.
La seconda parte della strada
per
arrivare a Moktarpur fu percorsa in modo decisamente più
circospetto.
Avevano comprato un veicolo,
tanto per cominciare. Un carretto coperto trainato da un mulo.
L’avevano pagato probabilmente dieci volte il suo valore, ma
tanto
i soldi provenivano dalla generosa quanto inconsapevole donazione di
Suraj Singh, e con essi il tenente si sentiva più prodigo di
un
mecenate rinascimentale.
Era ormai pomeriggio inoltrato
e
nessuno dei quattro aveva la minima voglia di farsi sorprendere dalle
tenebre al di fuori delle protettive mura di un fortino inglese.
Mentre sedeva in silenzio nel
cassone, Grosvenor ripensava all’incidente, per
così dire, della
locanda. Qualcuno li aveva preceduti. O perlomeno, qualcuno aveva
diramato comunicazioni su di loro a chi di dovere e i thug li stavano
aspettando. In una strada col sole a picco e trentotto gradi, era
facile prevedere dove quattro persone che andavano a piedi e non
avevano con sé acqua si sarebbero fermate, e lì
avevano messo degli
uomini.
Peraltro, quattro giubbe rosse
non erano neppure difficili da notare.
Inutile chiedersi se a parlare
fosse stato il vecchio o la spia dai lineamenti orientali, oppure se
il maharaja avesse semplicemente immaginato che avrebbero cercato di
raggiungere la guarnigione inglese. La faccenda importante era
qualcuno li stava marcando stretti.
Ecco che fra teoria e pratica
cominciava a comparire la prima fenditura.
Moktarpur era un po’
più
grande di Mahish Bathan, il che significava che oltre alle case di
legno aveva alcune case di mattoni, un paio di templi di pietra e un
pozzo nella piazza centrale.
Il forte sorgeva su una lieve
altura un po’ fuori dal paese.
Era una costruzione bianca di
marziale essenzialità, con un portone, un giro di mura e
torrette ai
quattro angoli.
“Che strano,”
constatò
Barrett, che sedeva a cassetta, “non c’è
nessuno.”
Si stava facendo sera, ma il
cielo ancora chiaro permetteva di vedere che i camminamenti di ronda
erano vuoti.
I quattro si scambiarono
un’occhiata. “Fermiamoci un momento,”
ordinò il tenente, poi
si rivolse al sottufficiale: “Voi che ne dite,
Jenkins?”
“Dico che non mi piace per
niente, signore,” fu l’immediata risposta.
Era più o meno
l’ora del
rancio, ma non c’era un camino che fumasse. Da dentro non
proveniva
alcun rumore.
“Sergente, prendete con voi
Thayes e andate a dare un’occhiata,” disse
Grosvenor estraendo il
revolver. Barrett imbracciò il fucile.
Seguito dal soldato, Jenkins
si
avvicinò cauto al portone e diede due colpi con il calcio
dell’arma.
L’anta cedette con un cigolio e si socchiuse.
Il sergente fece un salto di
lato
per evitare eventuali pallottole, ma non successe nulla. A questo
punto fece cenno al soldato di attenderlo ed entrò.
Passarono alcuni minuti, poi
il
sottufficiale uscì. “Sembra che non ci sia
nessuno, signore,”
disse stupefatto.
Grosvenor rimase perplesso.
“Come, nessuno?”
“Vuoto, signore. Non ho visto
anima viva.”
“Andiamo a controllare.
Barrett, porta dentro il carretto, chiudi il portone e dà da
mangiare a quel bravo mulo.”
“Signorsì.”
Intanto era calato il buio e
il
forte deserto aveva assunto un’aria spettrale.
C’era un gran
silenzio, gli edifici venivano pian piano inghiottiti
dall’oscurità.
Abituati alla vita militare, ovvero luci accese e gente che vegliava
a ogni ora del giorno e della notte, i quattro si guardavano intorno
nervosi.
Controllarono in giro.
Sembrava
che qualche magia avesse fatto scomparire all’improvviso
tutti gli
effettivi del forte: i documenti del furiere erano ancora sulla
scrivania, i viveri erano pronti per essere cucinati, i fuochi dei
fornelli erano spenti ma la cenere era ancora tiepida.
Nell’ufficio
del comandante c’era addirittura un vassoio col servizio da
tè
pronto sul tavolo.
Jenkins guardò un
po’ in giro,
poi si chinò a osservare l’apparecchio telegrafico
e disse: “I
fili sono stati tagliati.”
A quelle parole, i quattro si
scambiarono un’occhiata carica di preoccupazione.
Scesero nei sotterranei:
l’armeria era stata vuotata di ogni suo contenuto. Anche
buffetteria, borracce, coperte e altri oggetti di uso comune erano
stati in gran parte asportati, probabilmente con la connivenza degli
inservienti civili e degli abitanti del paese.
“Ma dove sono tutti?”
ruppe
il silenzio Barrett.
Nessuno rispose.
L’atmosfera si
stava facendo man mano più greve, quel luogo fantasma stava
instillando in tutti i più cupi presentimenti.
Alla fine scoprirono anche che
fine avevano fatto gli uomini della guarnigione: erano stati
ammazzati dal primo all’ultimo, compresi il comandante e
l’ufficiale medico. I corpi erano ammucchiati in una cella
gli uni
sugli altri, già irrigiditi e con vistose macchie
ipostatiche.
Tutti avevano la stessa
lesione
intorno al collo.
“Maledetti selvaggi,”
sbottò
Jenkins contemplando l’orribile spettacolo.
Nessuno replicò.
Chiusero la
porta e tornarono su.
Quando furono di nuovo
all’aria
aperta, Grosvenor fece per parlare, ma ancora una volta si rese conto
di non avere parole adatte a commentare quello che avevano appena
visto. Con voce neutra si limitò a dire:
“Barrichiamoci da qualche
parte. Scommetto tutto il gin di Calcutta che stanotte torneranno a
trovarci.”
La notte era silenziosa. I
rumori
della natura si udivano ovattati e solo in lontananza, come se le
bestie in qualche modo riuscissero a percepire l’aura
mortifera che
circondava il forte e se ne tenessero alla larga.
Dopo una lunga disamina con il
sergente Jenkins, il tenente Grosvenor aveva scelto come baluardo le
cucine, per il semplice motivo che avevano acqua corrente, pareti
rinforzate, finestre con le sbarre che davano sulla piazza
d’armi e
botola dei rifiuti, che in caso di estrema necessità avrebbe
potuto
essere usata come via di fuga.
Dopo aver mangiato ed essersi
lavati alla meglio, i quattro vegliavano in silenzio. Approfittando
del momento di relativa calma, Jenkins stava controllando le ferite
del tenente Grosvenor.
“Fa male qui?” chiese
il
sergente. L’ufficiale ebbe l’impressione che
l’altro gli stesse
premendo sul sopracciglio un ferro arroventato. “Un
po’...”
disse sobriamente.
“È piuttosto
profonda,
signore. Come ve la siete fatta?”
“È stata una mia
dimostrazione
d’affetto al maharaja, sergente.”
“Domando scusa,
signore?”
“Data la sua ferma intenzione
di tirarmi il collo, ho pensato di fargli saltare un paio di denti
con una testata. Certo non è un cambio equo, ma in
determinate
situazioni ci si arrangia come si può.”
“Capisco, signore. E vi fa male
se la tocco?”
“Sergente, volete la
verità?
Mi fa orribilmente
male. Se non fossimo in questa deplorevole situazione, sarebbe un
ottimo motivo per sbronzarmi fino a perdere la cognizione di me
stesso.”
“Ci vogliono dei punti,
signore.”
“Non penserete di ricucirmi
come il telo dello spotted dog*** adesso,
spero,” protestò il tenente inorridito.
Jenkins rimase imperturbabile.
“No, ma è mio dovere informarvi che se domattina
saremo ancora
vivi lo farò, signore.”
“Vi ringrazio per queste
parole, che di certo nel malaugurato caso di una nostra sconfitta mi
renderanno più leggero il trapasso.”
L’altro, che stava
per
ribattere, si immobilizzò in ascolto. Rimase con
l’orecchio teso
per un po’, poi sottovoce disse: “Sono qui
fuori.”
Grosvenor arrischiò
un’occhiata
attraverso la finestra. Non vide nessuno, ma condivideva la
sensazione
del sergente, ovvero quell’intuito non spiegabile dalla
Scienza per
cui un soldato riesce a cogliere presenze nemiche pur senza
percepirle direttamente.
Cercò di ragionare
sulla
situazione. Né il maharaja né il famigerato
O’lim potevano
permettersi di lasciarli arrivare a Calcutta. Lo scontro che si stava
preparando, quindi, non sarebbe stato uno stimolante confronto fra
gentiluomini condotto secondo i criteri del più rigido fair
play, ma una battaglia
sanguinosa in cui le alternative sarebbero state vincere a qualsiasi
costo o morire.
Mentre era immerso in quelle
meditazioni, sentì qualcosa rimbalzare contro la porta.
Colse un
inconfondibile sfrigolio.
“A terra!” fece
appena in
tempo a gridare, poi ci fu uno scoppio che sembrò
risucchiargli
l’aria dai polmoni. Il mondo esplose in una nube di polvere e
calcinacci tinta del bagliore aranciato delle fiamme.
Si alzò ancora
rintronato, con
le orecchie che gli fischiavano. La porta era sparita con
metà della
parete che la sosteneva, le sbarre delle finestre dondolavano nel
nulla.
Notò con la coda
dell’occhio
che gli altri tre erano bianchi di polvere, ma in piedi e col fucile
imbracciato. Estrasse la pistola e si sistemò al coperto
dietro un
pezzo di muro.
Alla luce delle fiaccole si
vedevano uomini a torso nudo e col turbante chiaro muoversi furtivi.
Il tenente ipotizzò che il senso pratico avesse infine
prevalso
anche in quella setta di nostalgici, perché la maggior parte
di loro
non aveva in mano un rumal ma un Martini-Henry ultimo modello.
“Sic transit gloria
mundi,”
mormorò fra sé e sé.
“Ragazzi, non voglio vedervi
sprecare pallottole!” disse il sergente alle sue spalle,
“Sparate
solo quando siete sicuri di colpire!”
Il che, peraltro, non era un
problema, perché dai lati del piazzale una torma di thug
urlanti si
precipitò sparando verso quel che restava delle cucine.
Le figure avanzavano nel buio,
illuminate da tergo di una luce sanguigna che rendeva quei corpi
asciutti e legnosi simili a diavoli usciti dall’inferno.
Nell’oscurità si vedeva solo il bianco degli occhi
e dei denti
digrignati. Qua e là si udivano roche invocazioni a Kali.
Non avevano né
addestramento né
consapevolezza di quel che facevano, per cui i primi caddero come
pecore al macello.
Alcuni riuscirono a saltare
sui
cumuli di macerie, ma furono respinti a colpi di baionetta.
Gli altri, vuoi per spirito di
sopravvivenza, vuoi per l’ordine di qualcuno che aveva un
minimo di
cognizione, interruppero il dissennato avanzare e si addossarono alle
pareti.
Le armi tacquero e sulla scena
calò un silenzio rotto solo dai gemiti di qualche moribondo.
Il tenente si voltò
verso
Jenkins: “Non reggeremo a un secondo assalto. Penso sia
meglio
prendere in considerazione una ritirata strategica.”
“Sono d’accordo con
voi,
signore,” rispose il sottufficiale.
Alzarono la botola del
pavimento.
Dal buco, nero come la pece, salì il tanfo di vegetali
fermentati e
carne putrefatta.
Buttarono giù un
pezzo di carta
incendiato e nel breve tragitto che esso compì videro delle
pareti
di mattoni e un fondo indefinito su cui navigavano cascami. Nel lato
che dava sull’esterno c’era l’arco di una
galleria.
Da fuori stavano ricominciando
a
sparare. Arrivò un altro candelotto di dinamite, che
però rimbalzò
lontano ed esplose senza fare particolari danni.
“Dobbiamo muoverci,”
disse
Grosvenor.
Le pallottole dei thug
colpivano
le pareti rimbalzando con rabbiosi ronzii. Barrett e Thayes
cominciarono a rispondere al fuoco per tenerli lontani.
“Andiamo!”
Il tenente fu il primo a
saltare.
Atterrò senza danni e si trovò immerso fino alle
ginocchia in un
liquame fetido. C’era buio pesto, ma tastando
tutt’intorno trovò
l’imbocco della galleria. “Venite!”
urlò.
Il secondo fu Thayes, che
quasi
gli finì addosso. Grosvenor se lo tirò dietro per
una manica e lo
fece entrare nella galleria.
Seguirono poi Barrett e per
ultimo il sergente. Da sopra provenne il boato di
un’esplosione e
una gragnola di calcinacci piovve addosso a Jenkins facendo
imprecare.
Il tenente in testa, i quattro
cominciarono a procedere a tentoni. Dovevano camminare piegati per
non urtare la volta e quasi ringraziavano di non aver a disposizione
una luce, perché ciò impediva perlomeno di vedere
il putridume nel
quale stavano sguazzando.
Il fetore era così
forte che
prendeva alla gola rendendo ogni respiro un ferreo atto di
volontà.
Procedettero così
per un tempo
che parve a tutti interminabile, poi finalmente a Grosvenor
sembrò
che il lume della galleria passasse da un nero pece a un grigio
scurissimo. Allo stesso tempo cominciò anche a udire un
lieve
scorrere di acqua.
Avanzarono ancora un
po’, il
tunnel lentamente si schiariva, il tanfo si faceva meno intenso. Poi
le mani di Grosvenor incontrarono un’inferriata.
“Oh, no,”
gemette il tenente.
“Che c’è,
signore?” gli
giunse la voce del sottufficiale.
“Una grata.”
“Quanto è robusta,
signore?”
“Le sbarre sono grosse come il
mio pollice.”
“Questo non ci
voleva.”
Ci fu qualche secondo di
scorato
silenzio, poi Thayes disse: “Signore, posso dare
un’occhiata?”
“Prego.”
Grosvenor si fece indietro per
consentire il passaggio al soldato.
Questi afferrò le
sbarre con la
sua stretta poderosa e cominciò a scuoterle avanti e
indietro. “Si
può fare,” disse dopo qualche tentativo.
“Cosa si può fare,
Thayes?”
“Posso provare a strapparle
via, signore. Sono mezze marce.”
“Che Dio ti benedica, soldato.
Datti da fare allora.”
Per fortuna le sbarre erano
effettivamente in pessimo stato. “Per una cosa del genere ci
sarebbe da scrivere un rapporto lungo come un Requiem,
signore,”
buttò lì Jenkins, risentito come se la
deplorevole condizione
dell’inferriata fosse un affronto fatto a lui personalmente.
“Sapete quanti mangiacurry potevano infilarcisi
dentro?”
“Pensate a cosa sarebbe
successo se quella grata fosse stata in perfette condizioni,”
gli
ricordò il tenente.
L’altro non rispose.
Erano nel letto di un
fiumiciattolo, apparentemente nessuno li stava seguendo. Stava per
arrivare l’alba e i primi uccelli cominciavano a cantare.
Camminarono per un
po’
allontanandosi dal forte, poi Grosvenor si fermò e disse: “Sarebbe
interessante scoprire dove siamo finiti.” Cercò di
guardarsi
intorno, ma il rigoglio delle piante nascondeva la visuale.
“Barrett, va a dare
un’occhiata,” disse il sergente.
Il ragazzo si
inerpicò su per la
sponda e scomparve. Tornò poco dopo dicendo:
“Siamo vicini a un
tempio.”
“Riesci a vedere il
paese?”
domandò l’ufficiale.
“Signornò.
È ancora troppo
buio, e poi siamo in mezzo alla giungla.”
Grosvenor si
arrampicò a sua
volta. Si erano in effetti addentrati in una foresta di enormi ficus
macrophylla. Il tempio, che sorgeva proprio al centro di un gruppetto
di alberi, nel corso dei secoli era stato inglobato dalle radici
delle piante, diventando alla fine tutt’uno con esse.
Davanti alle statue delle
divinità c’erano offerte di cibo, fiori e gulal,
segno che il
luogo era oggetto di culto.
“Sarà il posto dove
vengono a
pregare dal villaggio,” disse. “Del resto,
Moktarpur non può
essere lontano, non abbiamo fatto molta strada in quel
torrente.”
E a Moktarpur ci sono
duecento
thug e una spia russa che ci aspettano,
pensò.
La questione peraltro non si
esauriva con il paese: se quei tizi erano appena un po’
più
intelligenti di un babbuino, trovando la botola aperta e la grata
divelta dovevano aver immaginato da che parte se n’erano
andati e
probabilmente erano già sulle loro tracce.
“Io credo che tra un
po’
avremo visite, sergente,” disse.
“Lo penso anch’io,
signore,”
rispose Jenkins.
“Come stiamo a
munizioni?”
“Qualche minuto di fuoco,
signore, poi ci restano le baionette.”
Grosvenor stava per rispondere
quando il lieve rumore di un ramoscello spezzato lo fece irrigidire.
“Nascondetevi,” disse sottovoce. Tutti cercarono
riparo tra le
antiche pietre.
Nel chiarore che precede
l’alba
videro arrivare una donna col capo coperto. L’ufficiale
notò che
aveva un saree arancione e la cosa gli comunicò un sordo
turbamento.
Possibile che fosse la stessa persona che aveva visto a Mahish
Bathan? E se lo era, cosa ci faceva lì?
La donna avanzò
adagio. Aveva in
mano dei fiori di loto e qualcos’altro che nella scarsa luce
non si
distingueva. Si inginocchiò davanti a una delle immagini
sacre,
giunse all’altezza del viso le mani decorate con
l’henné e
recitò sottovoce una preghiera, poi appoggiò
sull’altare qualcosa
che mandò un lieve suono metallico.
Fatto questo, si
alzò e si
allontanò, scomparendo lentamente nella lieve caligine che
ammantava
la foresta silenziosa.
I quattro lasciarono passare
alcuni minuti prima di decidersi a uscire dai nascondigli.
Jenkins si volse nella
direzione
in cui si era allontanata la donna, scosse la testa e
brontolò:
“Mangiacurry. Credono che lasciare cibo faccia piacere ai
loro dei.
Farà piacere agli animali, al massimo.”
“Non dispiacerebbe nemmeno a
me, sergente,” borbottò Thayes. “Mi
mangerei un cavallo.”
“Cavallo o no, non provare a
toccare quelle porcherie,” replicò Jenkins, poi
lanciò
un’occhiata all’offerta, sollevo le sopracciglia e
disse: “Che
mi venga un colpo.”
Assieme ai fiori di loto,
sulla
pietra c’erano una grossa chiave di bronzo e un dado
d’osso.
Il tenente raccolse i due
oggetti. Il dado era identico a quelli che aveva in tasca.
“Sergente, controllate se da
qualche parte c’è una serratura,”
ordinò.
“Signorsì.”
Poco dopo gli inglesi erano
nella
costruzione principale del tempio, chiusi a chiave in una stanzetta
semibuia. La porta aveva qualche fessura, attraverso la quale si
vedevano uomini a torso nudo e col turbante chiaro che si aggiravano
stringendo in pugno il rumal.
Qualcuno aveva anche provato a
spingere l’anta, ma trovandola bloccata non vi aveva dedicato
altre
attenzioni.
Poi comparve anche il tizio
vestito di nero. Si muoveva così silenziosamente che se lo
trovarono
davanti alla porta senza nemmeno averlo sentito arrivare.
Provò
anche lui ad aprirla, fece per andarsene ma subito dopo
tornò
indietro. Tentò ancora una volta di aprire. La porta
resistette, ma
la cosa non sembrò convincerlo. Rimase a scrutare,
addirittura lo
sentirono fiutare
l’aria.
Grosvenor trattenne il
respiro.
Non so chi sei, dio
di
questo tempio,
pensava, ma se fai
andare via quel bastardo ti offrirò una bella pinta di gin
appena
torno a Calcutta.
Il bastardo, frattanto, si
trovava probabilmente in un conflitto fra istinto e ragione: il primo
gli diceva che dietro quella porta ci doveva essere qualcosa di
interessante, ma la seconda gli faceva notare che quattro inglesi
precipitosamente fuggiti attraverso le fogne non potevano aver
trovato il modo di aprire e chiudere una porta con la chiave.
Due pinte…
Il tizio tentò di
nuovo di
aprire la porta. Il tenente percepì il tintinnio di piccoli
oggetti
metallici, poi qualcosa cominciò a frugare nella serratura.
Il cuore gli saltò
un battito:
attrezzi da scassinatore! Scambiò un’occhiata col
sergente, che
gli rimandò lo stesso messaggio di allarme.
Va bene, tutto il gin
di
Calcutta.
Si udì un richiamo.
Il tizio
vestito di nero rispose qualcosa, poi abbandonò quel che
stava
facendo e se ne andò.
Passarono diversi secondi
prima
che Grosvenor riuscisse a ritrovare una frequenza cardiaca
accettabile. “Dobbiamo scoprire chi è il dio di
questo tempio,”
mormorò asciugandosi il sudore freddo dalla fronte,
“sono in
debito.”
* Bevanda tradizionale indiana
ottenuta mescolando yogurt, acqua, spezie e talvolta frutta.
** Pezzo di stoffa
rettangolare
che viene legato intorno alla vita e scende fino ai piedi (vedi
Gandhi).
*** Pudding tipico delle Forze
Armate britanniche dell’epoca, che veniva cotto
nell’acqua
bollente dopo essere stato cucito all’interno di un pezzo di
tela.
|