Riflessi di sangue

di Ayr
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V



Sembrava che un qualche dio avesse gettato dei massi senza preoccuparsi troppo di dove sarebbero andati a cadere, dando vita ad una catena di monti frastagliati e dalle punte aguzze, simile ad una fila di denti pronti a serrare l’incosciente viaggiatore nella loro morsa letale. Le Zanne di Dorvan erano l’ingresso per i Danaver, o meglio, il punto indicato dalla bussola per accedere al massiccio. Ivory cercò di rintracciarne l’estremità superiore che andava a disperdersi nelle dense nubi bianche che ricoprivano costantemente i Ciclopi, impedendo di stabilirne l’altezza esatta, ma tutto ciò che il suo sguardo incontrò fu un bianco accecante e uniforme.  

Brandbury, accanto a lui, batteva i piedi e si stringeva nelle pesanti pellicce che lo facevano somigliare ad un piccolo orso.
«Se hai freddo ora, non oso immaginare a quando saremo nei pressi di Volkyria» commentò l’elfo, il suo sangue era più caldo di quello degli umani e ciò gli permetteva di resistere a temperature non troppo rigide. Ma nemmeno il suo sangue elfico avrebbe potuto qualcosa contro le temperature vertiginose che si registravano nei pressi della fortezza.
«Non ho freddo» rispose l’altro, «Ho solo una tremenda paura. Questi ammassi non sono molto rassicuranti, mi sembrano le fauci spalancate di una qualche belva feroce.»
«Sei ancora in tempo per tornare indietro» replicò Ivory, «Puoi sempre ritornare a Danilia e aspettarmi lì.»
«E abbandonarti proprio nel momento in cui avresti più bisogno di un compagno?» sbottò l’altro, «Ho promesso che sarei venuto con te e questo implica che ti segua fino in fondo, anche se questo significa avventurarsi per queste guglie minacciose. Inoltre, se siamo in due, abbiamo maggiore probabilità di sopravvivere.»
L’elfo scrollò le spalle e sistemò lo zaino sulla schiena, stringendo le cinghie: era tornato pesante, riempito fino all’orlo con vettovaglie a lunga conservazione, coperte e pellicce di riserva.
Ivory sparì oltre le zanne e Brandbury lo seguì a ruota, si addentrarono in una selva di pinnacoli di roccia coperti di bianco, in una distesa infinita e omogenea di neve che si squarciava in corrispondenza di crepacci e di gole, simili a ferite della terra che si inabissavano in baratri senza fondo. Si domandarono come qualcosa potesse vivere in un luogo tanto inospitale e minaccioso, e come fossero riusciti a costruirci addirittura una fortezza.
La marcia si fece lenta e faticosa: i passaggi erano stretti ed erti, a volte dovevano camminare in equilibrio su fili di roccia aggettanti su uno strapiombo, altre affondavano nella neve fino alla vita e altre ancora si trovavano costretti ad arrampicarsi e a scalare come capre i fianchi scabri e taglienti; il cibo era o troppo secco o ammollato e sempre gelido; i venti impetuosi del nord si abbattevano su di loro, penetrandogli fin nelle ossa e raggelandoli; il silenzio surreale che aleggiava sulle montagne era diventato assordante, ma non osavano alzare la voce al di sopra di un bisbiglio per paura di risvegliare qualsiasi cosa fosse rimasta sopita tra quei recessi; il paesaggio sempre uguale li nauseava e li stordiva, ma grazie alla bussola sapevano in che direzione andare. La notte trovavano riparo in qualche anfratto roccioso oppure Ivory scavava un riparo nella neve e sfruttavano l’uno il calore dell’altro per sentirsi al caldo. Spesse volte erano stati costretti a fermarsi a causa di una tempesta di neve, e in quei momenti cercavano riparo dietro a speroni di roccia e attendevano che si calmasse, ma la tempesta aveva modificato profondamente il paesaggio costringendoli a prendere altre vie; altre volte aveva nevicato e i due erano andati avanti fino a quando l’elfo non riusciva più a vedere nemmeno le immagini luminescenti della bussola, anche in quel caso il nuovo strato nevoso cambiava lo scenario ed erano costretti a ricominciare da capo, cercando di recuperare l’orientamento e scegliendo altri punti di rifermento.   
Erano esausti, raffreddati e intorpiditi dal gelo, i loro sensi si erano affievoliti, stremati dal gelo e dalla stanchezza. Fu per questo che si accorsero del leopardo un attimo prima che li attaccasse.

Stavano arrancando lungo un crinale coperto di neve, facendosi strada attraverso il manto nevoso, i vestiti fradici, la pazienza e le forze ormai al limite; procedevano in silenzio, risparmiando il fiato per la traversata e l’unico suono che accompagnava la loro avanzata era il cupo lamento del vento e lo scricchiolio dello strato di neve ghiacciata, spezzato dal loro passaggio.  
Improvvisamente Ivory percepì un movimento con la coda dell’occhio, ma pensò che la vista stanca e provata gli avesse giocato qualche scherzo e non vi badò; il movimento si ripeté e un’ombra saettò a lato del campo visivo dell’elfo, la neve si sollevò in una lieve nuvola e Ivory capì che erano in pericolo: gridò a Brandbury di buttarsi a terra e cercò di recuperare la spada tra gli strati di abiti. Riuscì a estrarla dal fodero un attimo prima che un'enorme massa bianca e soffice lo investisse e lo catapultasse nella neve.
Sopra di lui torreggiavano due occhi azzurro ghiaccio, dalle pupille ferine, e poco sotto si spalancava una bocca irta di rostri acuminati; il manto bianco era punteggiato di macchie più scure e l’elfo comprese di trovarsi tra gli artigli di un leopardo delle nevi molto affamato.
Brandbury gridò terrorizzato ma la sua voce giunse in ritardo e ovattata, quasi che l’urlo provenisse da un’altra dimensione; Ivory sperò che al fratello non venisse in mente di fare qualcosa d’altro di molto stupido.
La belva lo aveva atterrato e l’aveva inchiodato al suolo, schiena a terra, con i suoi artigli poderosi. Aveva provato a mordergli il collo, ma aveva incontrato solo uno spesso strato di abiti e pellicce senza riuscire a raggiungere la carne; ringhiando e soffiando frustrata iniziò a menare colpi con le unghie così repentinamente che Ivory non poté fare altro che proteggersi il petto e il collo per evitare che venissero squarciati.  
Tentò di opporre resistenza a quelle zampe e i lunghi artigli gli lacerarono la carne degli avambracci. Girò la testa da un lato proprio nel momento in cui i denti dell’animale si chiudevano, feroci, dove era rimasta fino ad un istante prima. Il leopardo gli lacerò il petto passando attraverso gli strati di abiti e pellicce e cercò di nuovo di mordergli la gola.  

Un sibilo attraversò l’aria e qualcosa si piantò nel collo del felino, facendolo ululare di dolore, la belva si tirò indietro e lo graffiò sulle spalle con le zampe anteriori. Un altro sibilo, e un’altra freccia raggiunse la prima.  
Il leopardo emise un verso straziante: un misto tra un gemito e un grido di rabbia, i suoi occhi color del ghiaccio si puntarono su Brand che imbracciava un arco e stava incoccando un’altra freccia.  
Intendevo proprio questo con qualcosa di molto stupido pensò Ivory; cercò la sua spada, dispersa nella neve e mentre un’altra freccia veniva scagliata, riuscì a rimettersi in piedi, ma le ginocchia cedettero e sprofondò nella neve, gocce di sangue dorato macchiarono il manto immacolato.
La belva aveva puntato al fratello e le frecce erano diventate inutili: sarebbe bastato un balzo e il leopardo sarebbe stato sull’altro, uccidendolo con un solo morso, dal momento che il giovane, per essere più agile e sciolto nei movimenti, si era liberato degli strati di pellicce, rimanendo coperto della sola giacca.
Ivory ringhiò e con uno sforzo sovraumano scattò un momento prima che lo facesse il felino. Piombò sulla schiena dell’animale, la spada alta sopra la testa e la piantò nel cranio del leopardo, affondandola con tutta la sua forza. L’animale soffiò in modo raccapricciante, gelandogli il sangue nelle vene; gorgogliando e gemendo, provò a togliersi Ivory di dosso. L’elfo perse la presa sulla spada e venne scaraventato contro un cumulo di neve. Un terribile ululato si propagò per il massiccio, un nuovo sibilo fendette l’aria seguito da un tonfo tremendo che fece tremare la terra. Quando Ivory riemerse dalla neve, il leopardo era morto e un silenzio irreale era piombato sulla montagna.

Si puntellò sul braccio sinistro, che mandò una fitta atroce, ricadde nella neve e si tastò la spalla destra, gemendo di dolore. Dovette reprimere un moto di stizza: con lui in quelle condizioni sarebbero stati costretti a rallentare. Brandbury si fiondò al suo fianco e iniziò a esaminargli le ferite, il sangue dorato dell’elfo e quello cremisi della bestia impregnavano ogni cosa e ad ogni lembo di abito che Brand scostava si rivelavano nuovi tagli: gli squarci al petto erano profondi quanto quelli sulla spalla e altre lacerazioni si aprivano sulle caviglie, dove la bestia l’aveva abbrancato con le zampe posteriori per tenerlo fermo a terra, altri tagli e ferite più piccole laceravano la pelle del collo, delle braccia e della schiena e mandavano fitte atroci e pungenti ogni volta che provava a muoversi.  
«Mi domando come tu sia riuscito a uscirne vivo» borbottò Brand.

«È stato anche grazie a te» ansimò Ivory, «Da quando sai tirare con l’arco?»
«Me l’hai insegnato tu, cretino, anni fa e io mi sono sempre tenuto in esercizio. Non si può mai sapere quando può servire un arciere.»
«Grazie» mormorò l’altro, il dolore indicibile che gli soffocava la voce.
«Mi ringrazierai quando ti avrò rimesso a nuovo» replicò l’altro, «E tu che dicevi che un’erborista non ti sarebbe servito a niente!»
Brand iniziò a trafficare con unguenti e bende, puliva le ferite con la neve e le fasciava con i brandelli di stoffa ricavati dagli abiti, Ivory stringeva i denti e cercava di sopprimere qualsiasi gemito o grido di dolore osasse affacciarsi alle sue labbra.
«Probabilmente le ferite alle caviglie ti impediranno di camminare spedito» commentò Brand, «E ti proibisco di sforzarle, se non vuoi rimanere zoppo per tutta la vita. Devi dare tempo alle ferite di rimarginarsi e di cicatrizzarti o non guarirai più!»
«Non possiamo prenderci del tempo! Non qui e non adesso!» protestò l’altro.
«Non sei nelle condizioni per decidere» replicò Brand, «Arriveremo fino a Volkyria e lì ci fermeremo fino a quando non starai meglio. Nel frattempo diminuiremo i ritmi di marcia e faremo più pause.»  
«Di questo passo non arriveremo mai a Damevar!»
«Ci arriveremo!» lo rassicurò l’altro, «E soprattutto ci arriveremo vivi!»





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