Capitolo 5
Sarkesh adorava il sergente
Jenkins. Anche mentre gli mettevano la bardatura, l’enorme
pachiderma stava con la proboscide sulla spalla del sottufficiale e a
nessun titolo accettava di essere separato da lui.
Aveva capito che Grosvenor e i
due soldati erano amici
del sergente,
per così dire, per cui li tollerava, ma il suo prediletto
rimaneva
senza dubbio Wilford Jenkins.
I motivi di tale smaccata
preferenza erano ignoti. Il tenente aveva cercato di offrirgli della
frutta per ingraziarselo, ma Sarkesh si era rivolto al sergente con
un’espressione che sembrava voler dire: Posso
fidarmi?
“Vecchio mio, puoi stare
tranquillo,” gli aveva assicurato Jenkins, “il
tenente Grosvenor
è un ottimo ufficiale.”
Sarkesh non era rimasto
particolarmente convinto da quella garanzia, ma per come la vedeva
lui, se il sergente gli diceva che poteva stare tranquillo,
significava che non c’era pericolo. Aveva quindi accettato la
frutta.
Provenendo dalle scuderie di
un
maharaja, la bardatura di Sarkesh era un tripudio di gualdrappe
ricamate e ornamenti, ma allo stesso tempo aveva protezioni
metalliche – debitamente sbalzate e damascate – per
tutte le
parti vulnerabili.
Con le mani sui fianchi come
chi
sta contemplando un lavoro particolarmente ben fatto, Thayes
osservò
l’elefante e rivolto al commilitone disse: “Adesso
voglio proprio
vedere cosa faranno quelli là con i loro lacci di
seta.”
“Tu ricordati solo di non
andare al cesso, Steve,” gli rispose Barrett con aria
innocente,
“vedrai che così non corri rischi.”
“Ehi, specie di rospo, se non
la pianti ti ci infilo per la testa, in un cesso!”
“Thayes!”
esclamò il
sergente. L’elefante sottolineò il richiamo con un
barrito.
“Signore, stavolta non
c’entro!” si difese l’altro,
“È stato lui che...” Jay
Barrett lo stava fissando con espressione angelica. Thayes
brontolò
qualcosa di inintelligibile ma poco gentile e tacque. Con
te facciamo i conti poi,
fu la muta promessa del suo sguardo. Il più giovane assunse
una tale
espressione di candore che gli mancava solo l’aureola.
Sulla groppa
dell’enorme
pachiderma, i quattro partirono alla volta di Calcutta. Cavalcioni
sul collo dell’animale, il sergente lo guidava tenendogli le
orecchie come il manubrio di un velocipede. Per quanto non fosse la
secolare tecnica dei mahout* tramandata di padre in figlio, sembrava
che Sarkesh avesse capito abbastanza in fretta il significato dei
comandi.
“Forza, vecchio mio,”
lo
incoraggiò Jenkins, “abbiamo una missione da
compiere.”
Sebbene fosse ormai mattino
inoltrato, la strada non era molto trafficata, e anche i pochi
viandanti si scostavano rapidamente al sopraggiungere di un enorme
elefante da guerra bardato di tutto punto e guidato dalle scarse
competenze un sahib.
Seduto nel palanchino ornato
di
nappe e piume, Grosvenor pensava tanto per cambiare al gin. Sia a
quello che avrebbe bevuto lui debitamente addizionato
all’acqua
tonica, sia a quello che avrebbe offerto alla divinità
tutelare del
tempio in cui si erano nascosti vicino a Moktarpur. Tutto il gin di
Calcutta, la promessa non si prestava a equivoci.
“Secondo me Ganesha ci sta
aiutando,” disse di punto in bianco.
Jenkins si voltò
verso di lui.
“Domando scusa, signore?” L’espressione
aveva l’impenetrabilità
paziente del sottufficiale che deve sopportare le esternazioni un
superiore particolarmente estroso.
“Ganesha, sergente. Il dio
dalla testa di elefante. Scommetto che quel tempio era suo. E poi
guardate qua che ben di dio ci ha fatto trovare: un vero elefante da
guerra. Senza contare che Ganesha è anche il dio della buona
fortuna.”
“Come dite voi,
signore,”
rispose il sergente.
Grosvenor
ricominciò a pensare
al gin e all’acqua tonica.
Non tralasciava, fra una
bevuta
immaginaria e l’altra, di controllare anche
l’ambiente: per
Calcutta c’era solo la strada che stavano percorrendo e treni
non
ce ne sarebbero stati fino all’indomani. Il che significava
che
anche i thug, ma soprattutto O’lim sarebbero passati per di
lì.
Per quanto Ganesha fosse chiaramente dalla loro parte, bisognava
evitare di fare troppo affidamento sulla fortuna e prepararsi a
possibili imboscate.
Stava giusto ragionando su
questa
eventualità quando si udì il rumore di qualcosa
di pesante che
strisciava per terra. Sarkesh stronfiò e scosse la testa con
aria di
disappunto. Aveva una corda impigliata in una delle zampe anteriori.
Non appena realizzò
che
attaccati alle due estremità della corda c’erano
anche degli
uomini che la tenevano tesa di traverso alla strada, emise un tonante
barrito di guerra, ne afferrò uno con la proboscide e lo
lanciò
contro gli altri.
L’incidente si
sarebbe anche
potuto chiudere così, senonché dalle fronde degli
alberi alcuni
thug si lasciarono cadere sulla groppa di Sarkesh, sfoderarono il
pugnale e si gettarono urlando sugli inglesi.
Si scatenò
un’importante
colluttazione: a terra l’elefante barriva e girava su se
stesso
inseguendo coloro che aspettandosi dei cavalli avevano cercato di
tendergli la trappola. Sulla sua groppa Grosvenor, il sergente e i
due soldati si difendevano dall’assalto dei thug. I poderosi
movimenti dell’animale davano ai militari la sensazione di
trovarsi
a bordo di un battello su un mare in tempesta.
L’ufficiale
abbatté i primi
due avversari a colpi di pistola, poi gli arrivò addosso un
tizio
grosso quanto lui, con gli occhi spiritati e la bava alla bocca.
Dall’odore che faceva la lama del suo katara**, doveva averla
spalmata di aglio, cosa che secondo la tradizione impediva alle
ferite di cicatrizzarsi.
Il tenente aveva scaricato il
revolver, per cui si difese con il calcio dell’arma. La testa
dell’uomo fu buttata all’indietro dal colpo, ma
questi era
talmente drogato che probabilmente non aveva neppure sentito dolore.
Non fece altro che scrollare il capo un paio di volte, senza fare
alcun caso al rivolo di sangue che gli scorreva lungo il viso.
Vibrò
un colpo con il katara, squarciando un cuscino accanto alla testa del
tenente.
Questi riuscì a
infilare un
ginocchio tra se stesso e l’assalitore e lo spinse via.
L’uomo
rotolò di lato, si raddrizzò con uno scatto delle
reni e subito
dopo gli si precipitò di nuovo addosso. Con un colpo di
pugnale
riuscì a lacerargli una manica.
L’ufficiale di nuovo
lo spinse
via, e questa volta ebbe cura di farlo cadere a terra. Sarkesh si
occupò della faccenda con la massima competenza.
Ansante, Grosvenor si mise
carponi. I thug superstiti si erano dati alla fuga.
“C’è qualche
ferito?” chiese ricaricando la pistola.
“Jay, signore,” disse
la voce
di Thayes. “Voglio dire, il soldato Barrett,
signore.”
Il tenenente si
voltò: il
ragazzo giaceva tra i cuscini con il volto terreo. Si premeva una
mano su un braccio, il sangue che gli filtrava fra le dita aveva
già
impregnato la manica.
Strappò le tendine
di mussola
del palanchino e ne fece delle strisce, poi disse: “Temo che
dovrò
farti un po’ male, Barrett.”
“È vero quello che
dicono,
signore?” chiese il ragazzo con voce debole.
“Che cosa?”
“Che le ferite di questi
pugnali non si chiudono più e si infettano.”
“Solo se ci si affida agli
stregoni locali. Con un buon medico inglese questo non può
succedere.”
“Davvero, signore?”
“Sul mio onore.”
Tolse
delicatamente la mano che il ragazzo stava premendo sulla ferita e
strappò via la manica mettendo a nudo un taglio profondo.
“Sei
fortunato, un pollice più in dentro e quel bastardo ti
avrebbe
staccato il braccio.”
Sotto lo sguardo attento di
Thayes prese le bende improvvisate e ne fece una compressa che
premette sulla ferita sanguinante, poi prese le strisce di mussola
rimaste, fasciò l’arto e alla fine strinse la
legatura con un
gesto secco. Il soldato emise un urlo che suscitò persino
nell’elefante un barrito indignato.
“Il peggio è
passato,” gli
assicurò il tenente, ma Barrett non rispose: era svenuto.
Grosvenor
si rivolse a Thayes: “La fasciatura ha fermato il sangue. Va
allentata ogni mezz’ora, se no Barrett può dire
addio al suo
braccio.”
Il soldato annui.
Sistemò meglio
il ragazzo sui cuscini e chiese: “Dicevate sul serio, prima,
signore?”
“A che proposito?”
“Che il rospo…
volevo dire
Barrett guarirà, signore.”
“Tra due ore al massimo saremo
in caserma e lì riceverà le cure necessarie.
Inoltre, con tutto il
sangue che ha perso, qualsiasi porcheria ci fosse sulla lama
sarà
finita chissà dove. Vedrai che tra un po’
starà meglio di prima.”
“Grazie, signore.”
“Non devi ringraziare me,
soldato. È Ganesha che ci protegge.”
Thayes lo fissò un
po’
perplesso. “Come dite voi, signore,” si
limitò a rispondere.
Ormai erano già
arrivati ai
sobborghi della città. Che qualcosa non andasse era
abbastanza
chiaro: c’era un’atmosfera cupa, tesa, dappertutto
aleggiava un
silenzio innaturale. Il caos di risciò, carretti, venditori,
mendicanti e bambini che normalmente intasava le strade era quasi del
tutto assente. Qualche perdigiorno camminava per i marciapiedi
deserti, ma non c’erano botteghe aperte né
artigiani al lavoro.
“Cosa diavolo sta
succedendo?”
chiese Jenkins guardandosi intorno sospettoso.
“La Conferenza
Nazionale,”
rispose Grosvenor. “Già qui a Calcutta ci odiano
più che in altri
posti, boicottano le nostre merci e fanno rivoluzioni. Figuratevi
cosa può succedere durante una conferenza organizzata dal
movimento
indipendentista.”
“Indipendentisti,
bah!” disse
il sergente con disprezzo. “Prima che arrivassimo noi, questa
gente bruciava le vedove vive sui roghi dei mariti e faceva i sacrifici
umani. Io dico che è meglio che non siano indipendenti per
il loro
stesso bene, signore.”
Grosvenor non
replicò. Abituato
a destreggiarsi in mezzo alla confusione della città, in
quel
silenzio si sentiva inquieto. Si voltò verso Thayes, che gli
rimandò
lo stesso turbamento.
L’elefante avanzava
solenne al
centro della strada e gli unici rumori che si udivano erano i tonfi
dei suoi passi, lo scricchiolare del cuoio e il tintinnio metallico
dei finimenti.
Dopo un po’ che
procedevano,
cominciarono a sentire un urlio confuso che andava man mano
aumentando. Il vento portò verso di loro una folata di fumo
e
polvere da sparo.
Comparvero oggetti
abbandonati,
pezzi di risciò sfasciati e mercanzie sparse da qualcuno che
aveva
fatto scempio di botteghe incautamente rimaste aperte. Senza
interrompere la marcia, Sarkesh raccolse con destrezza un mazzo di
carote, se lo infilò in bocca e lo masticò con un
brontolio di
soddisfazione.
“Muoviti,
pelandrone!” lo
redarguì il sergente. L’enorme animale
aumentò la velocità, non
tralasciando di raccogliere altre ghiottonerie se gli arrivavano a
portata di proboscide.
Quando raggiunsero il centro
si
imbatterono in una folla sterminata. Gente ovunque, assiepata nelle
vie, arrampicata sui lampioni, abbarbicata alle inferriate, che
rumoreggiava e ondeggiava come una specie di mare in tempesta. Ogni
tanto c’erano dei posti di blocco inglesi, in cui militari
pallidi
di paura stringevano in pugno le armi dietro l’esigua
protezione di
qualche sacco di sabbia e qualche cavallo di Frisia.
Sarkesh avanzò
senza nemmeno
rallentare, aprendo la folla con il semplice impatto delle sue sei
tonnellate rivestite di metallo.
Si fermarono presso una
squadra
comandata da un caporale, il tenente si qualificò.
“Com’è la
situazione?” chiese.
“Lo vedete anche voi,
signore,”
rispose il graduato, “basta che qualcuno dia fuoco alla
miccia e
salta per aria tutto. Non ci hanno mai amati, questo è
certo, ma
prima d’oggi non li avevo mai visti così
incattiviti.”
La folla in effetti aveva un
che
di sfrontato, di provocatorio. Dava l’idea del succube che
finalmente si scopre spalleggiato da un potente. Dai rifiuti sparsi
per terra, Grosvenor capì che i soldati erano stati
bersagliati da
lanci di verdure e uova.
“Dobbiamo raggiungere
immediatamente il palazzo del Governatore,” disse,
“è una cosa
della massima importanza.”
Nel frattempo si chiedeva dove
fosse O’lim, se avesse trovato il modo di raggiungere
Calcutta, se
fosse già arrivato da un’ora e ormai fosse da
qualche parte a bere
un tè mentre il Governatore finiva di
raffreddarsi…
“Auguri, signore,” lo
richiamò alla realtà la voce del caporale.
“Vedete quanto sono
fitti là davanti? Non passerebbe neanche un gatto.”
“Forse un gatto no,”
intervenne Jenkins, “ma un elefante da guerra
sì.” Poi, rivolto
al pachiderma: “Avanti, Sarkesh, e non fermarti nemmeno se
vedi
Visnù a cavallo di una giraffa.”
L’animale
lanciò un barrito
tremendo, e già quello bastò per far
sì che la folla arretrasse.
Successivamente prese ad avanzare come una rompighiaccio nel Mare
Artico, facendosi largo a colpi di zanne e proboscide se trovava
qualcuno che non cedeva il passo di sua iniziativa.
Intorno al palazzo del
Governatore c’era una cintura di terreno sgombro. Sul
perimetro
dell’edificio era stata disposta una protezione di cavalli di
Frisia e sacchi di sabbia, presidiata da un intero battaglione di
fanteria. Grosvenor notò che erano stati portati in
posizione anche
pezzi di artiglieria leggera. Più indietro c’erano
un paio di
squadroni di lancieri.
“Se la devono proprio fare
sotto, quelli là!” osservò Thayes.
Barrett, che nel frattempo
aveva ripreso i sensi, osservava muto lo straordinario spiegamento di
forze.
Il sergente Jenkins
incitò
l’elefante, che di nuovo lanciò un poderoso
barrito e cominciò a
correre facendo tremare il selciato sotto le zampe.
Alcuni dei difensori puntarono
i
fucili, il tenente vide anche un paio di artiglieri precipitarsi
verso un sette libbre e girarlo nella loro direzione.
Agitò un braccio.
“Non
sparate, siamo inglesi!” Poi, rivolto a Jenkins:
“Diteglielo
anche voi, sergente.”
Con la sua tonante voce da
istruttore di reclute, il sottufficiale ribadì la loro
appartenenza
alle Forze Armate Britanniche. L’elefante pensò
bene di
sottolineare il concetto del suo adorato padrone con un altro
barrito.
Grosvenor vide un ufficiale
arrivare di corsa. Questi confabulò rapidamente con un
graduato e i
fucili si abbassarono. Sarkesh, ormai arrivato a una ventina di passi
dallo sbarramento, rallentò fino a fermarsi.
A parte il rumoreggiare
lontano
della folla, l’unico suono che si sentiva era il tintinnio
della
cotta di maglia con cui l’animale era bardato.
In quell’inquietante
silenzio,
Grosvenor salutò e disse: “Tenente Eldred
Grosvenor, 95°
Reggimento Fucilieri. Devo conferire immediatamente con il
Governatore per una questione della massima importanza!”
L’ufficiale
sopraggiunto, un
attempato capitano con un paio di curatissimi favoriti, lo
squadrò
da capo a piedi, fece girare lo sguardo anche sui tre militari che lo
accompagnavano, alzò un sopracciglio e con sussiego
proferì: “Dite
pure a me, giovanotto.”
Il tenente scosse la testa.
“No,
non posso dire a voi. Devo parlare personalmente con il Governatore,
adesso.”
“Non
vorrete presentarvi a Sua Eccellenza con quella tenuta a dir
poco…
fantasiosa.”
“Sentite un po’,
voi,”
replicò Grosvenor, che stava cominciando a perdere la
pazienza,
“visto quello che ho da dire a Sua Eccellenza, io ci vado
anche
nudo, se è necessario. Il maharaja di Barhdaman è
un traditore in
combutta con lo Zar, i thug stanno fomentando rivolte in tutto il
Bengala, il forte di Moktarpur è stato depredato di ogni suo
contenuto e la guarnigione è stata sterminata,
c’è una spia russa
che sta arrivando qui con l’intenzione di uccidere il
Governatore e
forse mentre noi stiamo a discutere come se fossimo al circolo
ufficiali è già dentro il palazzo. Adesso che ne
dite, ci vado
subito da Sua Eccellenza o perdo due ore per farmi il bagno,
pettinarmi come si deve e mettermi l’alta
uniforme?”
“Vi faccio strada,”
fu la
risposta del capitano.
Grosvenor scese dalla groppa
di
Sarkesh e si fece consegnare le carte da Jenkins, che ovviamente le
aveva custodite meglio della Banca d’Inghilterra.
“Occupatevi voi
di tutto, sergente,” disse, il che significava: fate venire
un
medico per Barrett, fate bere l’elefante, fate insomma tutto
quello
che deve essere fatto.
“State tranquillo,
signore.”
All’interno del
palazzo regnava
la stessa calma carica di tensione che Grosvenor aveva percepito
nell’avvicinarsi a Calcutta. I corridoi erano vuoti, i passi
echeggiavano come all’interno di un mausoleo.
“Dov’è il
Governatore?”
chiese il tenente.
“Nel suo studio,”
rispose
l’altro.
“Ci sono guardie con
lui?”
“Sono state tutte spostate
all’esterno.” fu la compiaciuta risposta. Poi, dopo
una pausa:
“Per motivi di ordine pubblico, capite. Nessuno deve
avvicinarsi al
palazzo.”
“Perfetto,”
commentò
Grosvenor con un sospiro. Accelerò il passo ed estrasse il
revolver
per controllare che fosse carico.
Notando quelle manovre, in
tono
categorico il capitano disse: “Vi garantisco che nessuno
è
entrato. È impossibile.”
“Oh, Cristo!”
sbottò il
tenente, “Ma dove avete fatto la guerra, finora? Al Rag*** di
Londra? Abbiamo a che fare con la migliore spia di tutto il dannato
Impero Russo e la prima cosa che vi viene in mente è fare in
modo
che la folla dei rivoltosi non sporchi le passatoie di cocco
camminandoci sopra?”
Genuinamente stupefatto da
tanta
insolenza, l’altro si fermò sui due piedi,
costringendo il tenente
a fare altrettanto. Con ira trattenuta cominciò:
“Sentite un po’,
giovanotto: io vi proibisco...”
Grosvenor non fece in tempo a
sapere cosa stava per essergli proibito: si udì un breve
sibilo,
l’ufficiale sussultò e si accasciò a
terra. Dalla schiena gli
spuntava un dardo di balestra.
Non appena il tenente
realizzò
l’accaduto, si buttò al coperto dietro il
piedistallo di una
statua e da lì rimase a fissare il corpo del collega, sotto
il quale
si stava allargando una macchia di sangue.
A O’lim non
interessa
uccidere me, pensò, è
qui per far secco il Governatore.
La cosa comunque non lo
confortò,
dal momento che la spia russa non avrebbe esitato a eliminare anche
lui, se fosse stato necessario per raggiungere il suo obiettivo.
Cercò di ragionare
su portata e
precisione di una balestra, traendone conclusioni sconfortanti.
L’unico elemento a suo vantaggio era che dopo essere stato
caricato, il revolver aveva a disposizione sei colpi e la balestra
uno solo.
Se non mi becca con
il primo,
forse riesco a uscire dalla sua gittata.
Si buttò fuori
prima che il buon
senso avesse modo di esprimere il proprio parere sul suo piano.
Sentì
un sibilo vicino all’orecchio, resisté alla
tentazione di sparare
un paio di colpi e cominciò a correre più veloce
che poteva.
Non ci furono altri dardi, o
perlomeno non lo raggiunsero.
Corse su per lo scalone
d’onore,
si buttò a perdifiato per il corridoio che gli pareva
più sontuoso.
Cominciò ad aprire tutte le porte, una dopo
l’altra, controllando
cosa ci fosse all’interno. Sorprese qualche stupefatto
contabile,
un inserviente indiano che in barba ai suoi precetti religiosi si
stava mangiando una gamella di Cottage
Pie e infine un paio
di militari, di cui uno a brache calate e l’altro
inginocchiato
davanti a lui, che furono quasi colti da infarto al suo apparire.
“Dov’è lo studio del
Governatore?” chiese loro concitato.
I due lo guardarono
impietriti.
Probabilmente si sarebbero aspettati chiunque, anche il famoso
Visnù
sulla giraffa citato da Jenkins, ma non un ufficiale del loro stesso
esercito.
“Signori,
ho fretta,” fece notare Grosvenor al protrarsi del silenzio.
Quello in piedi, la cui faccia
nel frattempo era virata dal rosso peccaminoso al bianco ricotta, si
raccolse i pantaloni e balbettò: “Al…
al piano superiore… in
fondo al corridoio di destra.”
“Grazie, buon
proseguimento.”
Chiuse la porta con un tonfo e ricominciò a correre.
Arrivò alle scale,
divorò i
gradini a tre a tre, infilò il corridoio. La porta era
proprio
davanti a lui, bastava raggiungerla e…
Qualcosa lo colpì a
mezzo corpo
con la potenza di un maglio, facendolo rotolare scompostamente a
terra e mozzandogli il respiro. La pistola gli sfuggì di
mano.
Si rivoltò
tossendo, fece per
recuperare l’arma, ma un piede gli piombò
brutalmente sul polso
inchiodandoglielo al pavimento.
“Tenente, voi cominciate a
essere piuttosto fastidioso,” disse la voce fredda di
O’lim.
“Non posso che dire lo stesso
di voi,” rispose Grosvenor, stringendo i denti mentre
l’altro gli
premeva il tacco sul dorso della mano.
“Già, ma voi non
siete nelle
condizioni di porre fine al fastidio che vi arreco, io invece
sì.”
Il tenente, che era a terra
prono, si girò e vide che il russo stava caricando un colpo
con una
mazza da cricket. Strappò la mano da sotto il suo piede e si
raccolse un attimo prima che la botta calasse a sfondargli il cranio,
quindi afferrò la pistola con la sinistra, ma prima che
potesse fare
fuoco l’altro gli fu di nuovo addosso. Lo colpì
alla spalla
facendolo sbilanciare. Grosvenor gemette, arretrò cercando
appoggio
contro il muro e sparò. La pallottola mancò
O’lim, ma fece sì
che la porta del Governatore si schiudesse e da essa si affacciasse
un volto dall’espressione preoccupata.
L’ufficiale si prese
un terzo
violento colpo, sentì qualcosa nel torace fare il rumore di
un ramo
spezzato mentre una stilettata di dolore gli mozzava il respiro. La
spia cominciò a correre verso la porta, Grosvenor gli tenne
dietro e
riuscì ad agguantarlo un attimo prima che entrasse.
Rotolarono
dentro avvinghiati, lui aveva perso il revolver, ma anche a
O’lim
era sfuggita di mano la mazza. Cominciarono a prendersi a pugni
rovesciando mobili e suppellettili. Il tenente era più alto
e più
grosso, ma aveva la mano destra ferita, inoltre il russo era molto
più veloce di lui.
Attraversarono in questo modo
una
specie di anticamera, mandando un segretario gambe all’aria,
ribaltando sedie e facendo crollare pile di documenti, poi irruppero
nello studio del Governatore, sorprendendo quest’ultimo
seduto alla
scrivania mentre stava contemplando un piccolo oggetto che teneva in
mano.
O’lim
colpì il tenente con una
pesante lampada di bronzo che aveva recuperato su un mobile.
L’ufficiale vide nero, barcollò e
crollò a terra, ma prima che la
spia potesse assestargli il secondo e definitivo colpo,
echeggiò uno
sparo. Alle loro spalle erano comparsi due soldati. Grosvenor non
poteva giurarci, dal momento che aveva la vista annebbiata, ma gli
sembravano quelli del piano di sotto.
Cercò di alzarsi,
ma la mano
ferita non riuscì a reggerlo e si afflosciò al
suolo. Mentre
qualcuno lo sosteneva prendendolo da sotto le ascelle, sentì
la voce
del Governatore che con surreale calma chiedeva: “Qualcuno ha
visto
la mia bussola? Non riesco a trovarla.”
Poi svenne.
* Persona che si occupa
dell’elefante e lo guida.
** Pugnale indiano tipo daga
creato per portare potenti e rapidi attacchi di punta.
*** Army and Navy Club.
Esclusivo
circolo ufficiali della Capitale inglese.
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