Il testamento di Tito

di workingclassheroine
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NON DEVI RUBARE
"Il quinto dice non devi rubare
e forse io l'ho rispettato
vuotando, in silenzio, le tasche già gonfie
di quelli che avevan rubato:
ma io, senza legge, rubai in nome mio,
quegli altri nel nome di Dio.
Ma io, senza legge, rubai in nome mio,
quegli altri nel nome di Dio."


I lamenti di Cynthia mi sembravano così distanti, quel giorno. Non aveva fatto altro che gridare e gridare, e poi aveva pianto, sputando insulti contro di me, contro Dio, contro ciò che ci aveva fatti incontrare e contro i pianeti allineati in quel momento. E io la avevo lasciata fare, ridendo di lei e del suo dolore, ridendo dell'amore che ancora provava e della famiglia che stavo per soffocare. Avevo ficcato un paio di cambi in una valigia e la avevo buttata in macchina, malamente, poi le avevo afferrato il polso e le avevo intimato di tacere. "Me ne sto andando, Cynthia. Puoi continuare a renderti ridicola o tornare a casa e goderti i miei soldi fino alla fine della tua fottuta vita" avevo sibilato, e lei aveva lottato per sorreggere il mio sguardo, gli occhi liquidi e le labbra strette in un'unica linea, "Perché devi farmi perdere tempo? Sappiamo entrambi quello che sceglierai alla fine, non è vero, Cyn?". Lei aveva sussultato all'uso di quel diminuitivo, usato mille volte in camera da letto e in brevi biglietti d'amore, e si era voltata subito dopo verso la porta, preoccupata. Julian se ne stava dritto sulla soglia, inorridito e spaventato, e fissava il polso di sua madre, stretto nel mio pugno. Cynthia aveva questa straordinaria capacità di sentire suo figlio avvicinarsi senza che lui emettesse un solo suono. In tempi che sembravano distanti anni luce, avevo invidiato quel legame. "Va tutto bene, Jules" aveva mormorato lei, dolcemente, asciugandosi gli occhi con la mano che finalmente avevo lasciata libera. Entrambi tremavano così tanto che sembrava fossero sul punto di spezzarsi in due. "Torna a giocare" avevo detto, nel tono più calmo che mi riusciva, "Stavamo solo parlando". Julian si era limitato a guardare prima Cynthia, poi me, senza dire una sola parola. "Ho paura" aveva ammesso, improvvisamente, e sua madre era corsa a prenderlo in braccio, nascondendogli il viso contro il suo seno, la mano tremante aperta sulla sua testa. "Non c'è niente di cui avere paura" avevo detto, con una freddezza che sentivo estranea, inopportuna. Non potevo saperlo, allora, ma stavo condannando me e mio figlio alla più dura delle sorti: non si sarebbe mai più fidato di me. "Non mentirgli, John" mi aveva sfidato Cynthia, stridula, "Affronta tuo figlio e digli che gli stai rubando suo padre". Julian aveva fissato gli occhi nei miei, confuso e spaventato, e io avevo riso. "Non lamentarti, ragazzino" avevo sussurrato infine, e a parlare non ero più io, ma l'Erinni che da sempre tentavo di celare e che inevitabilmente tornava a possedermi, "Quando sono rimasto senza famiglia il mio ladro era Dio. Io ti sto offrendo un capo espiatorio, non credi? Ti sto rubando il padre, Julian".
Avevo taciuto per un istante, con gli occhi che parevano carboni in fiamme e un ghigno sul viso che, potevo vederlo, terrorizzava il mio bambino. "Ma lo sto facendo in nome mio".
Me ne ero andato senza guardarmi indietro.


Note
Questo capitolo è stato davvero davvero difficile da scrivere, ma stranamente mi piace, è uscito come lo volevo (evento raro).
Prima di lasciarvi, non posso che ringraziare ancora una volta, sempre, Martina che è mia amica, mia sorella, mia spalla, mia redattrice e mia inesauribile fonte di idee e sostegno. Ti voglio bene!




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