Fiori secchi

di Liv49
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Ade abbassò il finestrino per respirare l'odore della pioggia. Il profumo di Persefone aveva inondato la macchina appena era entrata, un odore dolce e selvatico di cui aveva bisogno di liberarsi. Quella ragazza lo stava torturando: il modo in cui si raggomitolava su se stessa, lasciando scoperte le gambe, pelle bianca indifesa sotto il vestito giallo, e i suoi capelli ancora bagnati, che sembravano riflettere le ombre. Non aveva ancora deciso cosa fare dopo averla accompagnata alla stazione: lasciarle prendere il treno sarebbe stato folle, ma chiamare sua madre per riportarla a casa non avrebbe risolto il problema. Se voleva andarsene, avrebbe trovato il modo di farlo, e non poteva biasimarla per volerlo. Ricordava con fin troppa chiarezza la forza con cui aveva provato a liberarsi dalla sua stretta, al funerale del padre, le urla e le lacrime. Il dolore l'aveva straziata, e lo stava ancora facendo. Lei provava a nasconderlo, a seppellire le emozioni sotto quel ghiaccio, ma scappare non sarebbe servito a nulla. Capiva meglio di quanto lei non credesse l'impulso a correre, più veloce di quanto le gambe possano fare, più lontano di dove la nostra mente possa immaginare, era stato un ragazzino spaventato come lei, in un periodo di cui non aveva più fatto parola. Ma lei non avrebbe commesso i suoi stessi errori, non glielo avrebbe permesso.
La stazione era spaventosamente vicina, e con essa l'addio che non avrebbe mai dato. Dopo il sorriso che le aveva sorprendentemente concesso, Ade non aveva detto più nulla. Poteva vedere i suoi occhi spostarsi su di lei di tanto in tempo, con un'espressione di preoccupazione mista a qualcosa che non era riuscita a riconoscere. La strada era deserta e poteva sentire il rumore della macchina sull'asfalto, mentre metro dopo metro arrivavano al parcheggio della stazione. Ade scese prima che lei potesse accorgersi che l'auto si era fermata, le aprì la portiera e prese la sua valigia. Ancora una volta, il confine tra gentilezza e senso del dovere era una terra di nessuno, i confini impossibili da definire. Si chiese se lo avrebbe mai rivisto, magari un giorno lontano, magari lui sarebbe ancora stato vestito con un completo nero. Fu tentata di prendergli la mano, di imprimere nella memoria il suo calore. Forse si sarebbe concessa di abbracciarlo prima di partire, poteva permettersi un ultimo peccato da ricordare prima di andarsene. All'improvviso un'urgenza sconosciuta le bruciò dentro e gli afferrò la manica della giacca. -Perché mi stai aiutando?
-Mi sento in dovere.-la sua risposta non la sorprese, ma sentiva che non poteva essere tutto.
-Ma perché ti senti in dovere? Non mi conosci, tutto quello che sai è che mio padre è morto.-Era la prima vota che lo diceva a voce alta e il suono di quelle parole ruppe qualcosa dentro di lei, qualcosa che era già gravemente danneggiato e che aveva provato disperatamente a proteggere. Si accorse di tremare solo quando Ade l'abbracciò, come quel giorno, con la stessa forza ma in qualche modo in maniera diversa, come se stesse cercando non di fermarla ma di tenerla insieme. Di impedire che tutti i pezzetti in cui si era rotta si perdessero. Iniziò a piangere mentre Ade cercava di calmarla. -Mi sento in dovere di aiutarti perché sei solo una ragazza, e non c'è nessun altro a farlo. Tempo fa ho provato cose simili a quelle che provi tu ora, e se c'è qualcosa che posso fare per risparmiarti altro dolore, per risparmiare altro dolore a tutti, la farò.
Disse così, ma nel modo in cui la strinse non c'era senso del dovere, ma soltanto la forza di un legame che solo il dolore può costruire.




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